Radio Dyclam+, un viaggio sonoro intorno al mondo

“Radio Dyclam+” è una playlist di podcast realizzati dagli studenti del master internazionale Dyclam+ (Fb), coordinato dall’Université de Saint’Etienne, in collaborazione con l’Università di Napoli “Federico II” e altre università europee.
I podcast sono stati realizzati al termine del corso di Antropologia del Paesaggio che ho tenuto durante il mese di febbraio 2021, nell’ambito del semestre napoletano organizzato dal Centro di ricerca Cittam (Fb), coordinato dalla prof.ssa Marina Fumo.

Oltre alla mia breve introduzione, le 18 tracce (in francese o in inglese) portano in altrettanti paesaggi culturali di 15 paesi, in 4 continenti del mondo, per un totale di oltre 2h30′ di ascolto:

Ritengo che le studentesse e gli studenti abbiano fatto uno splendido lavoro, che per me è stato un viaggio come non mi era mai capitato prima. Per il supporto e l’aiuto ringrazio anche Giuseppe Trinchese e Marco Casa.

La scaletta, con le singole tracce linkate, è questa:

  1. Taisya Hovhannisyan – Le mont Ararat. Symbole de l’Arménie – Armenia
  2. Emma Del Carmen Castillo – Chiribiquete. Terre mystique et millénaire des cultures Jaguar – Colombia
  3. Laure Marique – Bruxelles, ma belle – Belgium
  4. Lana Gunjic – Ethnographic Museum in Belgrade – Serbia
  5. Elena Makeeva – Da minha língua vê-se o mar (From my language the sea can be seen) – Portugal and Russia
  6. Lorraine Berthélémy – La majestueuse forêt de Compiègne : Hommage à un lieu d’enchantement, à sa faune et sa flore – France
  7. Amélie Chartier – Voyage sur l’Île de Ré, un territoire où la vie ne manque pas de sel – France
  8. Juncris Namaya – Le musée national de Kinshasa – RDCongo
  9. Kabwe Kasindi – Le combat du siècle à Kinshasa 1974: Muhamad Ali – Geroge Foreman – RDCongo
  10. Georgia Ana Sagum – Dream Weavers of the Philippines – Philippines
  11. Kenneth Tua – Batanes Landscapes: In the path of the Philippines’ typhoon track – Philippines
  12. Aliou Ndiaye – Voyage au Pays Bassari – Senegal
  13. Yacine Dia – Femmes de Nder – Senegal
  14. Cheikh Diop – Présentation du Musée Théodore Monod d’art Africain – Senegal
  15. Isabela Barboza – Le paysage culturel de Olinda, Pernambuco (EP01 – Le Brésil les yeux fermés) – Brazil
  16. Josiane Alves – Le paysage culturel de Pampulha (EP02 – Le Brésil les yeux fermés) – Brazil
  17. Alcita Graciano De Carvalho – Le paysage culturel de Paraty, Rio de Janeiro (EP03 – Le Brésil les yeux fermés) – Brazil
  18. Brenda Castor – Rio de Janeiro from the Royal Family (EP04 – Le Brésil les yeux fermés) – Brazil

Welcome to “Radio Dyclam+”, a podcast window on the cultural landscapes of humanity. The 2021 edition of the Erasmus Mundus Dyclam+ master’s programme is coordinated by the University of Saint’Etienne, in collaboration with several universities in the European Union. The podcasts in this series were produced in a workshop on landscape anthropology held by myself, Giovanni Gugg, at the Department of Engineering of the University of Naples “Federico II”. The students of the master’s course come from 15 countries on 4 different continents and in each episode they talk about a landscape or a cultural heritage from their country. Come and discover humanity with “Radio Dyclam+” 2021. Enjoy listening and have a good trip!

Bienvenue à “Radio Dyclam+”, une fenêtre podcast sur les paysages culturels de l’humanité. L’édition 2021 du master Erasmus Mundus Dyclam+ est coordonnée par l’Université de Saint Etienne, en collaboration avec plusieurs universités de l’Union européenne. Les podcasts de cette série ont été réalisés dans un laboratoire d’anthropologie du paysage tenu par moi, Giovanni Gugg, au département d’ingénierie de l’Université de Naples “Federico II”. Les étudiants du master viennent de 15 pays de 4 continents différents et dans chaque épisode, ils racontent un paysage ou un patrimoine culturel de leur pays. Venez découvrir l’humanité avec “Radio Dyclam+” 2021. Bonne écoute et bon voyage !

Benvenuti su “Radio Dyclam+”, una finestra podcast sui paesaggi culturali dell’umanità. L’edizione 2021 del master Erasmus Mundus Dyclam+ è coordinata dall’università di Saint’Etienne, in collaborazione con varie università dell’Unione Europea. I podcast di questa serie sono stati realizzati in un laboratorio di antropologia del paesaggio tenuto da me, Giovanni Gugg, presso il dipartimento di Ingegneria dell’università di Napoli “Federico II”. Le studentesse e gli studenti del master provengono da 15 Paesi di 4 continenti diversi e in ciascuna puntata raccontano un paesaggio o un bene culturale del loro Paese. Venite alla scoperta dell’umanità con “Radio Dyclam+” 2021. Buon ascolto e buon viaggio!

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Promuovere il territorio per salvare il turismo

Questo articolo è apparso sul numero di maggio 2020 di “Sireon”.

Promuovere il territorio per salvare il turismo

Giovanni Gugg

L’11 maggio scorso Vera Viola ha firmato un importante articolo sul “Sole 24 Ore” dedicato a Sorrento, dove «l’87% delle famiglie vive di turismo», ossia l’attività economica più colpita dalla pandemia, nonché quella con minori prospettive di recupero; fino a fine giugno sono state cancellate il 95% delle prenotazioni negli alberghi.

Un mese prima, l’11 aprile, ho lanciato una discussione dal mio profilo Facebook proprio su questo tema, e forse avrei potuto farlo anche prima, perché già dalla fine di febbraio, cioè dai primissimi giorni di crisi sanitaria in Italia, in Penisola Sorrentina si è avuta l’immediata percezione della voragine economica che il coronavirus stava scavando nel tessuto sociale locale, parallelamente alla sua propagazione sul piano medico. Il mio post ha avuto molta visibilità, venendo ripreso da altri organi di stampa e, soprattutto, venendo commentato da tanti cittadini e operatori del settore. Turismo significa compagnie aeree, agenzie di viaggi e catene alberghiere, ma anche b&b e agriturismi familiari, ristoranti e agricoltori, cuochi e camerieri, guide ambientali e archeologiche, traduttori e portieri, musei e parchi tematici… E tutto ciò non è distribuito in maniera uniforme dappertutto, perché ci sono località che da due secoli hanno fondato il loro benessere (e ora la loro sopravvivenza) sull’accoglienza turistica, come la Penisola Sorrentina, la Costiera Amalfitana, le isole del Golfo di Napoli, alcune zone intorno al Vesuvio e lo stesso Centro Storico di Napoli negli ultimi anni. Ciò significa che gli effetti del gorgo recessivo non sono e non saranno uguali per tutti e per ogni luogo. Per cui, per una località così votata al turismo come l’area sorrentina, la stagnazione avviata dalla pandemia ha una serie di effetti molto più profondi che in altre zone: in pochi giorni migliaia di persone hanno visto evaporare la loro attività e, ponendo lo sguardo sul futuro, si sono rese conto di quanto fosse preoccupante l’avvenire, perché i tempi di ripresa si preannunciano più lunghi rispetto ad altri campi.

La crisi sanitaria ha desertificato tutto, e lo ha fatto in un baleno: non i grandi capitali, che resisteranno anche con la cancellazione della stagione 2020, ma i risparmi di migliaia di famiglie che vivono di questa attività o innumerevoli aziende, spesso piccolissime o addirittura individuali, che non hanno più un lavoro, ma che sono la trama socio-culturale alla base del fascino esercitato dal nostro territorio. In altre parole, insieme ai beni storico-culturali, alle bellezze paesaggistiche, alle testimonianze archeologiche e ai sapori, ai gusti e ai profumi, la Penisola Sorrentina ha nel fattore umano un attrattore ineguagliabile, ossia il savoir-faire, la qualità dell’accoglienza, il senso di ospitalità.

La sera di sabato 16 maggio la Confcommercio e l’Amministrazione Comunale di Sorrento hanno lanciato un’iniziativa dal forte valore simbolico: “Riaccendiamo Sorrento”, che, come in un rito di passaggio, ha voluto segnare la fine dei due mesi di quarantena e l’inizio di un futuro che si spera torni pulsante e movimentato. Al di là delle intenzioni e degli entusiasmi, è chiaro che questo non basterà, tuttavia è un passo, per cui va sostenuto e incoraggiato. Ma ne servono necessariamente altri, come i contributi pubblici di sostegno ai lavoratori in cassa integrazione o rimasti disoccupati, o le sovvenzioni per le attività più piccole che dovranno riconvertirsi o adattarsi a volumi più contenuti. Accanto a tutto ciò, però, è essenziale prendere consapevolezza che il turismo sorrentino ripartirà solo proponendo una nuova narrazione, una nuova offerta, un nuovo progetto.

I numeri straordinari raggiunti negli ultimi anni dal turismo sorrentino non sono una “normalità” a cui tornare; è necessario recuperare un rapporto più equilibrato con il territorio, evitando una pressione antropica che ha soffocato i luoghi e gli abitanti. In varie città del bacino mediterraneo – come Barcellona, Nizza, Venezia… – negli ultimi anni sono aumentate le proteste contro il turismo, anzi contro l’industrializzazione del turismo, che produce inquinamento e disuguaglianza, erosione della qualità della vita e fragilità individuali e sociali. Il malcontento stava crescendo anche a Sorrento e nell’intera Penisola, dove da più parti sono sorti comitati, associazioni e movimenti di tutela e riequilibrio sociale e ambientale. Sia da un punto di vista ecosistemico, sia da uno socio-culturale, la nostra terra non stava reggendo l’impatto con il numero crescente di turisti in uno spazio fisiologicamente ridotto e delicato, infatti da anni stava producendosi un disastro a bassa intensità, con una duplice frattura del valore naturale e del valore culturale del territorio. La Penisola Sorrentina è via via diventata faticosa, a tratti insostenibile, e la terribile ma necessaria pausa della quarantena va considerata come una parentesi di riflessione, come un periodo di latenza presente in ogni disastro, ossia come quel momento particolarmente forte dal punto di vista emotivo in cui c’è sconcerto e sofferenza, ma anche nuove idee, dibattiti, riflessioni e, in buona sostanza, nuove intraprendenze.

Il disastro sanitario, che per Sorrento ha avuto l’effetto a cascata di un disastro economico, deve indurre a una profonda riflessione sull’idea di sviluppo perseguita negli ultimi decenni, perché di ogni crisi bisogna cogliere la sua capacità di illuminare l’ordinario, imponendone un ripensamento.

Tornando all’articolo del “Sole 24 Ore”, la giornalista giustamente scrive che Sorrento «dovrebbe innanzitutto ripensare il modello di turismo, quello che negli anni scorsi ha determinato affollamento, calo di qualità dei servizi, inquinamento. E potrebbe optare per un sistema più sostenibile e di qualità». Intervistato su questo punto, l’agente di viaggio e albergatore Gino Acampora si è mostrato particolarmente consapevole, affermando che «la crisi può essere anche una opportunità», nel senso che bisognerà organizzarsi per accogliere un minor numero di turisti e tentare di allungare la stagione turistica.

Si tratta di un’osservazione che va nella giusta direzione, ma di cui va capito il modo in cui si intende attuarla. La modalità più lungimirante punta ad un’unione, o almeno ad un coordinamento, delle realtà istituzionali, economiche, sociali e culturali dell’area sorrentina, dunque al superamento di campanilismi e interessi particolari. È necessario cooperare, magari consorziandosi, così da puntare tutti insieme sulla sola ragione che attrae turisti italiani e stranieri: il territorio. Non esiste ripresa senza tutela e comunicazione dell’intera Penisola, non c’è operazione di marketing che funzioni senza una promozione di tutta la Terra delle Sirene, non c’è futuro possibile senza una nuova narrazione che abbandoni i vecchi codici e, al contrario, offra nuove storie, nuove conoscenze, nuove sensazioni. Bisogna studiare e inventare, immaginare percorsi inediti e ricostruire servizi sociali, ferocemente ridimensionati negli anni, come i presidi ospedalieri e la mobilità alternativa. Bisogna investire nel territorio, rafforzandone i sistemi di assistenza e cura, perché se il territorio è sicuro e sostenibile, lo sono anche i suoi abitanti e, di conseguenza, i suoi ospiti.

Nessun turista al mondo prenota un hotel prima di aver scelto la regione in cui viaggiare: ognuno di noi prima valuta una località, la sua offerta e i suoi servizi, e solo dopo sceglie la struttura più adatta alle proprie esigenze. Bisogna avere ben chiaro il processo decisionale del viaggiatore, a maggior ragione in una condizione delicata come quella che stiamo attraversando, per cui bisogna essere consapevoli che se ognuno va da sé, non ci sarà ripartenza; se non si dà una possibilità ai tanti tesori nascosti – e tutelarli con cura e comunicarli come meritano –, non ci sarà riequilibrio; se non ci si impegna insieme a elaborare pratiche inclusive, non ci sarà superamento della paura. Prima dei turisti, devono essere gli abitanti della Terra della Sirene a dover sognare il proprio luogo e a permettergli di tornare a parlare al mondo, offrendo quelle emozioni che non si possono provare altrove.

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Protetto: Una manifestazione sindacale a Nizza

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I riti della Settimana Santa: noi e la natura in un ciclo di eterno ritorno

Per la Settimana Santa del 2018, scrissi questo articolo per il settimanale sorrentino “Agorà“, che fu pubblicato sul cartaceo del 31 marzo. Lo ripropongo qui.

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I riti della Settimana Santa: noi e la natura in un ciclo di eterno ritorno

Oltre le ovvie connotazioni sacre, la Pasqua è la festa dedicata al “passaggio” stagionale, quella che – scrive Claudio Corvino – divide l’anno nelle due uniche stagioni che contano nel ciclo agrario: «viern’» e «’a staggione», due momenti separati da un evento religioso che tutta la cristianità vive come ciclico e cosmico: la morte e la resurrezione di Cristo (che fa della Pasqua, più del Natale, la festa fondante la cristianità, appunto). In questa ricorrenza, secondo l’interpretazione di Luigi Maria Lombardi Satriani, il sangue è l’elemento simbolico dominante del dramma pasquale, nel quale il primo atto è rappresentato dalla passione e dalla morte, mentre il secondo atto viene espresso dal trionfo della resurrezione, ossia la vera vita nella quale simbolicamente viene coinvolta l’umanità.
Nel napoletano, il passaggio dei due momenti stagionali sembra sottolineato con particolare efficacia dai riti del Venerdì Santo che si tengono in Penisola Sorrentina da un lato e sull’isola di Procia dall’altro.
Nel primo caso il riferimento è alle processioni funebri che si tengono di sera, al buio: cortei lugubri di svariate Arciconfranternite dei comuni peninsulari, i cui membri, indossando eleganti abiti neri (o di altri colori del lutto o del sangue), espongono oggetti simbolici e statue sacre, come quella della Madonna Addolorata, la cui disperazione è discretamente espressa da un fazzoletto bianco tra le dita della mano. Pur nelle loro singole e specifiche caratteristiche, le processioni peninsulari hanno forti toni penitenziali e si snodano nei rispettivi centri abitati delineando una geografia sacra che sembra voler riaffermare i confini, la cultura e la protezione di ciascun paese.
Nel secondo caso, invece, la processione procidana è tutta primaverile, diurna e festiva: i confratelli – i “Paputi” – sono vestiti di bianco e azzurro e trasportano la statua del Cristo Morto, mentre la madre – rivestita di nero da cinque donne a ciò delegate – è la Madonna Immacolata. La notte è scandita dai suoni cupi di una tromba e di un tamburo che annunciano la morte di Dio, ma il corteo avviene all’alba, col sole che sorge sul mare e la luce che invade le stradine isolane.
Nel suo libro “La Pasqua. Riti e miti della Settimana Santa a Piano di Sorrento” (Nicola Longobardi editore, 2009), Ciro Ferrigno scrive: «Io sono quello che la notte del Venerdì santo deve scendere in strada per vedere la Processione Nera… non scendere sarebbe come non ascoltare più la voce di mia madre che mi dice di svegliarmi ed andare, non sarei più parte della mia gente, non saprei più chi sono, da dove vengo e dove vado». È in questo forte sentimento identitario, il primo valore dei riti della Settimana Santa: l’atmosfera creata da quelle imponenti sfilate è un insieme di ricordi e sensazioni, di suoni e sapori, di profumi e senso di appartenenza. Come ogni tradizione, quei rituali danno l’illusione della permanenza, eppure riescono costantemente ad adattarsi ai tempi e alle esigenze, perché la celebrazione popolare, quando è viva, è un forte collettore sociale che permette alla comunità nel suo insieme – e a ciascuno nella sua individualità – di riconoscersi intorno ad una specifica pratica.
In quanto riti religiosi, le processioni del Venerdì Santo sono innanzitutto espressioni di fede che veicolano i caratteri specifici delle rispettive comunità: dagli assetti sociali alla cultura musicale a quella figurativa o gastronomica. Se osservate come manifestazioni sociali e culturali, però, esse si caratterizzano sempre per una scena e per un fluire. Nel primo caso mi riferisco alle migliaia di figuranti che sfilano silenziosamente e in maniera solenne per le strade dei centri storici e delle frazioni, agli oggetti della Passione mostrati alla folla di visitatori, alle decine di fiaccole, croci, stendardi e canti polifonici in latino su salmi biblici. Rinnovandosi anno dopo anno, tutte queste pratiche concorrono ad articolare un’unica celebrazione liturgica e folklorica lunga un’intera settimana, che dimostra notevoli capacità organizzative e un rilevante impegno di famiglie, confraternite, gruppi culturali. In altre parole, ciascun rituale di questo periodo – minuto o spettacolare che sia – partecipa alla scansione di un momento altamente emozionale che stringe a sé l’intero corpo sociale, fungendo così da collettore e da specchio. Queste liturgie, cioè, assurgono ad una funzione specifica, quella di narrare e drammatizzare dei sentimenti immensi ed esemplari: un dolore e poi una gioia, un lutto e poi una rinascita, ossia la sofferenza della Madre che ha perso il Figlio, ma che alla fine trionfa sulla morte.
Il secondo elemento, il fluire, sta nella modalità stessa del rito: attraverso la pratica del passo le persone si riconoscono perché insieme camminano, ma al tempo stesso vivono un’esperienza individuale in cui si interrogano sui rapporti tra Terra e Cielo, per comprendere la fragile condizione umana e la sua costante spinta verso l’alto. La processione è un viaggio che, come il pellegrinaggio, è sia reale che interiore, sia individuale che collettivo: un movimento di ascensione al sacro che permette un rinnovamento non solo di se stessi, ma anche del vincolo devozionale.
Attraverso il movimento dell’andata e del ritorno, di un ritorno alla quotidianità arricchiti da questo intenso esercizio spirituale di rigenerazione, le processioni della Settimana Santa descrivono il momento forte in cui i significati simbolici conferiscono alle azioni un valore di salvezza e di rifondazione. Sono una pratica di rinnovamento che affonda le radici in un passato arcaico. Inglobando perfettamente l’eterno dualismo di morte e rinascita, la drammatica popolare di questi giorni ripropone il racconto biblico della creazione e, con questa, l’inizio mitico dell’umanità. In altri termini, la natura, il raccolto, la vita stessa rinascono ciclicamente e, pertanto, quell’istante va celebrato in maniera adeguata.
Per fare qualche esempio, torniamo alla fine dell’Ottocento, quando nel giorno di Pasqua, nel bergamasco, i contadini e i proprietari dei fondi agricoli avevano l’abitudine di abbracciare gli alberi da frutta e, similmente, nel siracusano si era soliti rivestire dei rami d’arancio con frutti e piantarli nei campi. Lo stesso, su un piano simbolico, accade ancora oggi in Penisola Sorrentina con la colorata rifioritura metaforica delle palme di confetti o dei caciocavallini sui rami d’olivo. In realtà lo stesso vale anche a dimensioni più ampie, quelle della società consumistica, sebbene il senso profondo si sia progressivamente dileguato in forme di ostentazione e di accaparramento: cos’altro è, in origine, l’uovo di cioccolata se non uno scrigno di sorprese e di sorrisi per grandi e piccini, ossia una promessa di vita nuova?
Nel 1882, nel primo volume dell’“Archivio per lo studio delle tradizioni popolari”, descrivendo un libro inglese dedicato alla Pasqua, Giuseppe Pitrè e Salvatore Salomone Marino osservano: «la Pasqua [è] la storia dell’umanità. [Sebbene] questa festa a poco per volta [sia] andata perdendo di usi e pratiche, [è ancora] un segno della multiforme eredità che noi abbiamo ricevuta dai nostri antichi. Essa è un anello che ci lega a’ padri che sono iti ed ai figli che saran per venire».
Tenacemente fedeli a se stessi, eppure costantemente rinnovati, i riti che vanno dalla Domenica delle Palme alla Domenica di Pasqua sono un racconto tradizionalmente codificato del dolore e della speranza, una rappresentazione socialmente stabilita della comunità e della sua struttura, una strategia culturalmente elaborata del processo di identità e di appartenenza. Narrando una vicenda esemplare, il gruppo narra se stesso: le sue fatiche e speranze, i suoi fallimenti e successi. Questi rituali, sottolinea Vito Teti, «costituiscono un grande ordito letterario, mitico, religioso, […] antico ed attuale (come lo sono la morte e la vita)», e ai quali nessuno di noi può sottrarsi.

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PS: la foto di copertina è di Pasquale Raicaldo, scattata a Procida il 19 aprile 2019.

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Una lettera a Garibaldi

Scritta il 4 luglio 2017:

Lassù sul piedistallo, dietro l’albero intorno al quale riposano decine di richiedenti asilo africani, c’è la statua di Giuseppe Garibaldi. L’eroe dei due mondi nacque oggi, il 4 luglio 1807, a Nizza, poco distante da questa piazza. In francese è noto come Joseph, ma in città è amichevolmente chiamato Pépin.
Dal momento che ormai tutto è fonte di divisione, non mi metterò a discutere la figura storica di Garibaldi, sicuro che anche lui, da unificatore, sarà passato ormai per divisore, specie sui social. Piuttosto, vorrei rivolgermi direttamente a lui, concedendomi una confidenza solo epistolare, dal momento che tutti siamo cresciuti col suo volto, e la sua barba è proprio come quella di un nonno.

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Caro Pépin,
se potessi vedere oggi la tua città natale, di certo non la riconosceresti: in 210 anni è cresciuta enormemente, in giro non ci sono più cavalli e carrozze e il fiume è stato coperto. La tua stessa casa, purtroppo, è stata abbattuta per allargare il porto, dove ora entrano navi enormi, ben più grandi della tartana di tuo padre.
In particolare, però, non riconosceresti la gente, Pépin. No, non il modo in cui le persone si vestono o il colore della loro epidermide, tu sei stato un uomo di mondo per definizione, hai combattuto per tutti, per l’umanità in senso concreto e non figurato, dunque so che questo non ti sorprende. No, mi riferisco allo spirito della gente. Negli ultimi due secoli questa città è diventata una capitale conosciuta ovunque, una capitale del turismo, beninteso, dove ogni anno giungono milioni di persone da tutto il pianeta: la rendono una città gradevole, allegra e con diversi stimoli. Soprattutto, però, la rendono ricca. E, Pépin, forse il punto è qua: tutto il benessere che questo posto ha accumulato nei decenni sembra aver eroso in molti – no, non in tutti, per carità – un senso di vicinanza a chi è in difficoltà. Non è colpa della ricchezza, non sono così naif, ma qualcosa è andato perduto.
Questo, Pépin, è un momento storico complicato – eh, certo, tu di criticità ne hai parecchia esperienza – e devi sapere che Nizza è una tappa (intermedia) molto importante per tantissimi esseri umani che scappano. Anche questo tu sai bene: la tua famiglia veniva dalla Liguria, è migrata qui per necessità – oggi vi chiamerebbero “migranti economici” – e tu sei diventato l’enfant niçois più conosciuto e celebrato.
Però voglio essere onesto fino in fondo, Pépin, non è una questione esclusivamente nizzarda, perché in realtà è francese. Anzi, è anche italiana. E spagnola. E austriaca. E tedesca. Insomma, è un affare dell’Europa intera. Sono tutte nazioni civili, lo so, ma non credo che lo siano come intendevi tu, quando hai contribuito a farle nascere. Oggi i loro presidenti e ministri dicono di voler chiudere i porti alle navi che aiutano coloro che, attraversando il mare, scappano da guerre, persecuzioni, malattie, fame. Hai capito, marinaio Pépin? Si stanno accordando per tenere lontano i disperati, per non farli nemmeno attraccare e, nel caso arrivino, per non far loro attraversare un fiume o un posto di dogana.
Pépin, la piazza che oggi a Nizza porta il tuo nome è, forse, ancora il luogo più accogliente della città. Quando c’è da protestare, da riunirsi, da aiutare, si va all’ombra dei suoi alberi, sotto la tua statua. Vi si ripete “liberté, egalité, fraternité” e ci si sente un po’ rivoluzionari come te o, almeno, un po’ degni di questi privilegi. E lo so che l’epoca è complicata e tutti i problemi che ci siamo detti, ma questa fraternité quando dovremmo metterla in pratica se non dinnanzi a qualcuno che soffre?
Non credo tu sia in paradiso, vero Pépin? Però, ovunque tu sia, riesci in qualche modo a ricordarci cosa ti spinse a girare di liberazione in liberazione?
Ti ringrazio.
Ah, e buon compleanno
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La storia della foto pubblicata in apertura del post è qui.

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Gari Grèu è un musicista marsigliese (il suo vero nome è Laurent Garibaldi) e tempo fa ha dedicato la canzone “Dis-moi Soleil” a Pépin (il testo è qui):

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ULTERIORI INFORMAZIONI:

Presentando un post di Gino Strada, il giornalista Giuliano Santoro ha usato queste parole: “Gino Strada scrive un post sulla necessità di aprire canali umanitari lungo il Mediterraneo. I commenti di gente comune, che fino a qualche anno fa avrebbe riconosciuto un qualche moto di solidarietà o almeno di beneficenza, fanno capire la fossa delle Marianne in cui siamo sprofondati“.

Enrico Letta ha twittato: “L’Europa si stava risollevando. Possibile che Francia, Spagna, Austria non si rendano conto dei danni irreparabili dei loro gesti di oggi?“.

Medici Senza Frontiere ha scritto: “Migrazione: misure proposte dimostrano totale indifferenza verso la sofferenza delle persone“.

Luigi Manconi ha pubblicato sul “manifesto” un editoriale in cui spiega che “L’alternativa umanitaria è possibile“.

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L’insegnamento di un naufragio: cosa resta a Meta di Schettino e della Costa Concordia

La sera del 13 gennaio 2012 una nave immensa, con più di 4000 persone a bordo, colpì uno scoglio a pochissima distanza dal litorale dell’isola del Giglio, nel mar Tirreno toscano; alcuni minuti dopo, in seguito ad una manovra che alcuni giudicarono eroica, altri azzardata, altri ancora casuale, la nave da crociera Costa Concordia capitanata da Francesco Schettino si adagiò sul fianco destro, evitando l’affondamento completo. Morirono 32 persone e ci furono 110 feriti, nonché gravi conseguenze economiche e ambientali. L’altro giorno, il 12 maggio 2017, la Corte di Cassazione ha definitivamente condannato a 16 anni di galera il comandante. Probabilmente è stato il fatto italiano con più eco internazionale dopo il terremoto dell’Aquila; entrambi disastri. Quella tragedia è entrata immediatamente nell’immaginario collettivo («Sembrava il Titanic») e la sua dimensione simbolica ad un certo punto si è quasi imposta sui meri fatti di cronaca: quel meraviglioso gigante del mare – gioiello tecnico e di una certa estetica – è divenuto metafora di uno stupendo Paese in declino, governato da irresponsabili sfacciati e abitato da pavidi che – seduti in poltrona – urlano agli altri «Vada a bordo, cazzo!».
[Allegorie simili, però, sono state fatte anche all’estero per biasimare l’Unione Europea e l’euro o la politica francese, specie durante la presidenza Sarkozy, per fare qualche esempio].
Quel “come se” sarebbe poi tornato un anno e mezzo dopo, ma di segno diametralmente opposto, ossia quando le complesse e rischiose operazioni di parbuckling avrebbero raddrizzato la nave, in modo da permetterne il rimorchio fin nel porto di Voltri, a Genova: quel notevole intervento di risollevamento è stato un riscatto per l’immagine dell’Italia nel mondo, nonché – come commentò Aldo Grasso – «da un lato un’operazione mediatica grandiosa, ma dall’altro è stata soprattutto un’operazione che riguardava ciascuno di noi: era un’operazione attraverso la quale potevamo liberarci dello Schettino che è in noi».

Alcune vignette internazionali che prendono di mira il comandante Schettino.

Il trauma di un paese
Accanto ai fatti brevemente esposti, va aggiunto il paese di appartenenza del comandante Schettino, Meta, che è il centro di quanto voglio argomentare qui. Il comune della Penisola Sorrentina da allora è entrato in una sorta di limbo, in un tempo di latenza in cui sembra contemplare con stupore l’immensità di quanto accaduto, come se l’enorme scafo della Concordia si fosse arenato davanti alla sua marina e i morti fossero stati portati sulla grande spiaggia: un trauma da tragedia, certamente, ma in parte dovuto anche alla vergogna, che in pochi hanno saputo cogliere.
Specie nei giorni immediatamente successivi al naufragio, Meta fu presa d’assalto da media italiani e stranieri: microfoni e telecamere si aggirarono per i vicoli del centro alla ricerca di parenti, amici, vicini di casa del famigerato comandante («Il più odiato dagli italiani»), con la violenta invadenza di chi ha urgente bisogno di riempire il vuoto di una diretta televisiva pomeridiana. Pochi abitanti risposero alle domande, molti si sottrassero abbassando il capo e tirando dritto, alcuni difesero il loro concittadino. Ne passò un’immagine campanilstica di piccolo borgo chiuso in se stesso:

«Schettino torna a casa, il paese lo difende. Il parroco: lo stanno uccidendo» (qui)

«Il paese difende Schettino e l’assessore lo chiama eroe» (qui).

L’impressione diffusa fu di una protezione acritica, di un reticente a priori, ma la questione era decisamente più articolata: conoscendo la comunità locale, parlando con amici, ascoltando conversazioni al bar, intrattenendosi con i soci della gloriosa Casina dei Capitani, il quadro appariva più variegato, sebbene sempre all’interno di un approccio fortemente garantista nei confronti del concittadino imputato. La ragione di tale atteggiamento non andava individuata in uno sterile provincialismo, ma in una serie di piani identitari (individuali e collettivi: l’uomo, il comandante, la famiglia, la categoria, il paese) che si sono intrecciati e sovrapposti proprio in conseguenza del naufragio: dalla difesa corporativista a quella più utilitaristica:

«Noi gente di mare non meritiamo tutto questo fango che ci sta piovendo addosso» (qui),

«Dal giorno della tragedia, siamo ripiombati nel buio e nella paura. Una volta squalificati agli occhi del mondo, chi ci prenderà più a bordo di una nave? Chi ci affiderà più incarichi di responsabilità?» (qui);

dalla minimizzazione alla rivendicazione orgogliosa:

«Un incidente che poteva capitare a tutti» (qui),

«È una persona degnissima, purtroppo già tutti lo hanno condannato, ma nessuno dice che ha salvato oltre 4 mila persone» (qui).

A ritenersi esposto alla “gogna mediatica” è stato l’intero paese:

«L’accanimento mediatico su questo caso sta mettendo a dura prova la resistenza di una famiglia e di una comunità fortemente “stressate” da questo fulmine a ciel sereno che le ha colpite» (qui);

a sentirsi sul banco degli imputati è stata tutta la marineria metese e la sua storia:

«Meta di Sorrento e la penisola sorrentina hanno fornito da secoli alle flotte navali ufficiali e marinai di alto profilo professionale e di grande esperienza lavorativa» (qui).

Identificazioni concentriche
I marinai si sono identificati col comandante, il paese coi marinai; e il motivo di una tale equazione va ricercato nella storia di Meta, le cui testimonianze sono leggibili e visibili nella toponomastica come nell’orografia del territorio, nei palazzi storici come nelle chiese: dallo stemma comunale a quelli familiari sui portoni, dagli ex-voto pittorici alle targhe commemorative. Tutto racconta di mare e di quel che comporta il lavoro sul mare e col mare: fatica, creatività, ricchezza, tracollo, pericolo, solidarietà.
Messo in discussione da un evento così critico e denigratorio, il senso di appartenenza a Meta (e, in una certa misura, agli altri comuni della piana peninsulare: Piano di Sorrento, Sant’Agnello e Sorrento) si è sedimentato nel corso degli ultimi secoli, profondamente legati alla marineria, appunto: armatori, capitani, marinai, ingegneri navali, maestri d’ascia, cantieri di velieri, scuole nautiche, società di commercio transoceanico, agenzie di assicurazione marittima, associazioni di uomini di mare in pensione hanno il loro centro proprio a Meta. Gli incidenti in mare sono sempre accaduti e lo testimoniano ampiamente anche i quadri votivi conservati all’interno della basilica della Madonna del Lauro, ma il caso del capitano Francesco Schettino si distingue per un episodio: non essere rimasto a bordo fino alla fine, non essere stato l’ultimo ad abbandonare la nave. Quel “Capitan Codardo” con cui è stato indicato ovunque, perfino a Taiwan, è dunque innanzitutto una vergogna collettiva, una drammatica macchia all’interno di un’epopea fatta di acume e orgoglio, di onore e sacrificio. Fino alla sera del naufragio, questa narrazione veniva trasmessa e celebrata (a ragione, in tanti casi) come il percorso unico e luminoso di una comunità che si distingue da qualsiasi altra per essere riuscita – con il contributo di tutti i suoi membri – in successi straordinari su qualsiasi mare e in ogni oceano del pianeta. La fierezza e l’integrità dei comandanti e degli armatori sono sempre state raccontate come la faccia più scintillante di un’identità radicata nella solidarietà interclassista tra ricchi e poveri, tra colti e popolani, tra potenti e subalterni. Si tratta di una solidarietà organica che, per quanto organizzata gerarchicamente, ha permesso un’alta specializzazione dei saperi e una forte divisione del lavoro, ma che non ha frammentato il corpo sociale. Anzi, ufficiali e mozzi, artigiani di cantiere e cappellani erano considerati (e lo sono tutt’ora) membri di un unico equipaggio: un equipaggio “comunale”.
In quelle settimane post-incidente, la comunità metese difese innanzitutto se stessa dall’onta mondiale, tentando di riassorbire lo squarcio che, come sullo scafo dell’immensa nave da crociera, si era aperto nel tessuto identitario locale.

Schiacciate l’infame!
Adultere, traditori, disertori, apostati sono i meschini della storia; donne e uomini indegni e pericolosi, dunque da marchiare e allontanare. I concittadini di Schettino avrebbero potuto ripudiarlo per aver deturpato il lustro conquistato nel corso dei secoli dai lupi di mare metesi, invece lo hanno riaccolto perché il dramma ha coinvolto tutto il paese, tanto nella sua dimensione sociale e culturale, quanto in quella emotiva più profonda. Schettino non è stato assolto a prescindere, anzi ha scontentato molti per la sua viltà (che lui ha sempre negato), tuttavia nessuno ha mai dimenticato di trovarsi dinnanzi ad un uomo, non ad un feticcio del male: «Certo mi ha deluso, ma sono convinto che la sua è stata una reazione dettata dallo choc» (qui). Il paese si è sottratto innanzitutto alla costruzione del mostro: «Non mettiamo in dubbio che ha sbagliato, vogliamo difenderlo dai continui attacchi e dalla gogna mediatica di cui è ormai vittima» (qui).
Dunque, Schettino deriso e insultato ci può stare, ma accusato oltremisura no: è stato descritto come «ubriaco fradicio» e con «coca sui capelli», è stato sospettato di trafficare esseri umani e di essere un fedifrago. Tutte notizie non vere o, comunque, non attinenti al caso.
È, pertanto, in questo solco che va inteso il silenzio della Casina dei Capitani e di buona parte del paese: quello di una vicinanza umana in cui l’umiliazione e il turbamento sono stati sentimenti di tutti, quello della condivisione di una profonda crepa con cui la comunità metese e peninsulare dovrà continuare a fare i conti nel futuro, per assorbirla o rimuoverla, per nasconderla o guardarla in tutta la sua profondità.
A Meta, dopo cinque anni, l’altra sera la sentenza che ha definitivamente condannato Schettino a 16 anni di reclusione è stata accolta con sollievo e mestizia:

«Sono metese. E mi dispiace per Franco. Aperta e chiusa parentesi»;
«Che sia colpevole, nessun dubbio. Che NON sia il solo colpevole, nessun dubbio»;
«Purtroppo quando si assume il comando di una nave se ne assumono tutte le responsabilità ed anche se c’è stato chi lo ha aiutato a sbagliare, non ci poteva essere altro epilogo»;
«Come ai metesi tutti, spiace anche a me che lo conosco, ma era l’epilogo naturale delle cose»;
«Credo che la sentenza sia stata giusta, però, un po’ mi dispiace»;
«È triste umanamente che debba andare in galera ma non c’è altra possibilità per quello che ha combinato»;
«Giustizia è fatta… a metà».

(Questi commenti sono apparsi sulla mia timeline di Facebook, mentre altri – anche delle istituzioni locali – sono stati raccolti da “Metropolis”).

Perché coinvolta direttamente nel turbinio del tribunale mediatico, Meta ha compreso che il grido di Voltaire – «Schiacciate l’infame!» – non va rivolto ad un uomo, bensì al fanatismo, all’intolleranza, al giustizialismo. Ora non ci resta che verificare nel futuro quanto questa tragica storia – e, più di tutto, le sue 32 vittime causate dalla negligenza e dalla spavalderia – sarà stata interiorizzata nella comunità: quell’incidente e tutto ciò che ne è derivato, avranno insegnato empatia e cautela dinnanzi a tutti gli imputati, di qualsiasi processo? Sarà maturata la consapevolezza che la galera è sempre un’atrocità, anche per chi ha causato la morte di decine di innocenti? Avremo riconosciuto in noi stessi – noi, abitanti di quel posto e di quella storia – la fragilità, la viltà, il tradimento, le bugie, gli abbandoni, la propensione autoassolutoria, le nostre (ir)rimediabili leggerezze e i nostri (auto)inganni?

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INTEGRAZIONE del 16 maggio 2017:
Questo post è stato ripubblicato su “Corso Italia News“, di cui ringrazio il direttore Antonio Fienga.

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Alcune condivisioni su Fb sono qui, qui, qui e qui.

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Politica francese: strategie per sopravvivere alla sparizione

9 maggio 2017:

Christian Estrosi è un politico nizzardo di caratura nazionale, ma saldamente ancorato al territorio della sua città. È stato deputato all’Assemblée Nationale (cioè, l’equivalente della Camera dei Deputati italiana) dal 23 giugno 1988 al 30 marzo 2016.

Intanto, però, è stato anche:

  • Presidente del Consiglio Generale delle Alpi-Marittime (cioè della vecchia Provincia italiana) dal 18 settembre 2003 al 14 dicembre 2008;
  • Ministro delegato alla Pianificazione del territorio (governo Chirac) dal 2 giugno 2005 al 15 maggio 2007;
  • Segretario di Stato per l’Oltremare (governo Fillon) dal 19 giugno 2007 al 17 marzo 2008;
  • Ministro dell’Industria (governo Fillon) dal 23 giugno 2009 al 13 novembre 2010;
  • Presidente della Città Metropolitana di Nizza-Costa Azzurra (denominazione mutata nel tempo), dal 18 aprile 2008;
  • Presidente del Consiglio Regionale PACA (Provence-Alpes-Côte d’Azur) dal 18 dicembre 2015 a ieri, 8 maggio 2017;
  • Sindaco di Nizza dal 21 marzo 2008 al 13 giugno 2016;
  • Vicesindaco di Nizza (sindacatura Pradal) dal 13 giugno 2016 a ieri, 8 maggio 2017, quando il sindaco Pradal si è dimesso affinché Estrosi possa essere eletto nuovamente sindaco dal consiglio comunale, verosimilmente la prossima settimana.

L’annuncio delle dimissioni contemporanee di Estrosi (dalla Presidenza della Regione, ma resterà consigliere) e di Pradal (da sindaco di Nizza, ma resterà consigliere) è stato fatto ieri sera, due giorni dopo l’elezione di Macron a Presidente della République, al quale Estrosi aveva dato un forte appoggio durante le due settimane di campagna per il ballottaggio contro Le Pen (al primo turno, invece, aveva sostenuto Fillon, anche se con poco entusiasmo). Si tratta di un riposizionamento in vista degli sconvolgimenti in atto nei partiti storici francesi:

  • il “Partit Socialiste” sta implodendo: praticamente è scomparso, con il 6% dato al candidato presidente Hamon e un’emorragia di voti verso Mélenchon, che invece è in piena ascesa;
  • il partito “Les Républicaines” probabilmente si smembrerà: il candidato Fillon era dato per eletto, pochi mesi fa, poi scandali e guerre intestine lo hanno affossato e hanno sfibrato quell’area, che ora probabilmente farà i conti anche con le trasformazioni del partito lepenista;
  • il “Front National”, appunto, probabilmente scomparirà per ripresentarsi con un nuovo nome già alle prossime elezioni di giugno (in ogni caso, quel partito è sempre stato meno compatto di quanto apparisse all’esterno, con guerre feroci tra padre e figlia, nonché tra zia e nipote).

In questo scacchiere estremamente complesso, di cui la stampa italiana non fornisce granché informazioni (e a ragione, intendiamoci: il quadro italiano è altrettanto controverso, per cui sarebbe un po’ masochistico entrare così a fondo anche nella politica francese), la mossa di Estrosi è emblematica di come si possa passare da una funzione all’altra per la sola ragione di perpetuare se stessi: “tutto deve cambiare affinché tutto resti uguale”, sappiamo bene noi italiani. Ebbene, gli ultimi tre anni di Estrosi sono davvero esemplificativi:

rieletto sindaco di Nizza per un secondo mandato il 4 aprile 2014, dopo un anno e mezzo ha lasciato per essere eletto presidente della Regione il 18 dicembre 2015; ma dopo un altro anno e mezzo, si è dimesso ieri, 8 maggio 2017, al fine di riprendere il ruolo di primo cittadino nizzardo la prossima settimana.

Insomma, candidato ed eletto per compiere un determinato lavoro durante 5 anni, in realtà costui dopo pochi mesi passa da una poltrona all’altra per due sole ragioni: mantenere potere (al di là dei progetti, la cui lungimiranza – evidentemente – non interessa) e sopravvivere (agli scossoni politici, radicandosi al territorio, su cui in effetti ha un consenso molto vasto).
Come diceva il buon Silvio? Ah, già: “teatrino della politica”. Qui, però, siamo su uno spettacolo un po’ diverso, quello della “giostra della politica”.


PS: spero sia chiaro che, con queste considerazioni, non mi interessa dare un giudizio sull’amministrazione in sé (sebbene credo sia implicito e nonostante ritenga Nizza una città molto vivibile per tanti aspetti), ma ciò che mi preme è mostrare una pratica, che sono sicuro potrete riconoscere in numerosi angoli del nostro Paese.

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INTEGRAZIONE del 9 maggio 2017 (sera):
Come scrivevo stamattina in questo post, nella politica francese sono in atto degli sconvolgimenti pesanti. Il caso della regione PACA può essere considerato esemplificativo dell’aria che tira. Come dicevo, il presidente della Regione, Estrosi, si è dimesso così da poter assumere nuovamente la carica di sindaco di Nizza (il suo bacino elettorale più solido, anche in vista delle celebrazioni per il primo anniversario dell’attentato del 14 luglio 2016, che in Francia avrà certamente molta eco); “Le Monde” lo racconta con questo articolo.
Nel pomeriggio, poi, è arrivata un’altra notizia molto importante: a dimettersi dal Consiglio Regionale PACA, dal partito “Front National” e, più in generale, dalla politica tout-court è Marion Maréchal Le Pen, colei che era stata la più giovane deputata all’Assemblée Nationale nel 2012, nonché vicinissima ad essere eletta presidente della regione PACA lo scorso anno, quando Estrosi la superò al secondo turno solo grazie al ritiro del candidato socialista (in quell’occasione, infatti, per una particolarità della legge elettorale locale, i candidati erano tre e non due). Maréchal Le Pen – il cui nonno è Jean-Marie e la cui zia è Marine – era ritenuta la prossima generazione a capo del partito di estrema destra, magari con ambizioni presidenziali. Oggi si è dimessa da tutto e, come scrive “Le Monde”, si tratta di un “sisma dalle conseguenze ignote“.

Infine, ho parlato più volte in questo post di sconvolgimenti. Ebbene, ecco altri quattro esempi, sempre di oggi, su fronti opposti:

  • i partiti della sinistra radicale (“France Insoumise” e “Partit Communiste”) non trovano un accordo per le (importantissime) elezioni legislative del prossimo giugno;
  • il partito di centro-destra “Les Républicains” domani si riunirà in congresso e, da quanto dichiarato da alcuni, i sostenitori di Alain Juppé si scinderanno e formeranno un gruppo indipendente che sosterrà il governo di Macron;
  • l’ex-premier Manuel Valls – socialista, candidato alle primarie del suo partito, ma sconfitto da Hamon – ha annunciato che lascia la sua compagine (che ha definito “morta”) e si è lanciato col neo-presidente Macron (il quale, però, ha risposto freddamente);
  • il candidato socialista alle recenti presidenziali Benoît Hamon, infine, ha annunciato che il prossimo 1° luglio nascerà un suo nuovo movimento transpartitico per rifondare la gauche.

[Edit, 10 maggio 2017: in Francia le novità politiche in questi giorni si succedono di ora in ora; oggi è la volta di Hidalgo, Arthus-Bertrand, Taubira e altre 200 personalità che hanno lanciato un «movimento d’innovazione per una democrazia europea, ecologica e sociale»]

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Come ha concluso Bernardo Valli il suo editoriale (dal titolo chiarissimo: “La Francia che sparisce“), siamo di fronte ad una transizione epocale come all’inizio della Quinta Repubblica:

Dall’anno della fondazione della Quinta Repubblica, il sistema politico francese non ha subito una ricomposizione come quella che si annuncia. Che anzi è già in corso a Parigi. A sconvolgere il panorama politico, nel 1958, fu de Gaulle, in piena guerra d’Algeria; adesso è l’elezione a capo dello Stato di un giovane tecnocrate senza partito, che non solo ha sconfitto l’avversaria di estrema destra ma ha frantumato le formazioni politiche tradizionali, i socialisti e il centro destra, su cui si basavano gli equilibri politici da più di mezzo secolo.

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INTEGRAZIONE del 10 maggio 2017:
C’è un livello di analisi dell’elezione di Macron che fa ampio riferimento alla simbologia. La prima parte dell’ultima newsletter di Francesco Maselli (disponibile anche su “IL Magazine“) è un’affascinante lettura dei tanti riferimenti che il nuovo Presidente della République ha voluto lanciare a partire dalla sera stessa dell’elezione, davanti al Louvre. Un piano simile è stato affrontato da “Le Monde”, che con questo video di Asia Balluffier rivela i principali simboli giocati da Macron:

Ovviamente, però, c’è anche il fronte di coloro (Claudio Borghi Aquilini, Mario Adinolfi, Maurizio Blondet) che i simboli li leggono come tracce del complotto, per cui il nuovo presidente sarebbe chiaramente massone a causa della piramide alle sue spalle. Di questi deliri ha scritto efficacemente Giovanni Drogo.

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L’Oasi di Sant’Agnello: un giardino per il futuro

Una settimana fa, domenica 30 aprile, a Sant’Agnello, in Penisola Sorrentina, è stata inaugurata l’Oasi in città “Patrizia Veniero”, un parco urbano di 4.000 mq che è anche giardino botanico, nonché hortus conclusus contemporaneo, cinto com’è dai palazzi del centro cittadino. A realizzarlo sono stati il WWF “Terre del Tirreno” e l’amministrazione comunale presieduta da Piergiorgio Sagristani, in particolare il presidente dell’associazione ambientalista, Claudio d’Esposito, e il giardiniere municipale, Giovanni Ferraro. La prima caratteristica dell’Oasi è che sorge sul tetto di un’autorimessa, una più che allegorica rivincita del verde sul grigio; la seconda è che si tratta di un prontuario didattico della natura vegetale (e, in prospettiva, faunistica) della Penisola Sorrentina, sia di origine spontanea che agricola; la terza, infine, è che l’opera è pubblica, situata al di sopra di uno spazio privato, per cui assume un particolare significato politico e programmatico. (Per una descrizione più minuziosa dello spazio verde, rimando ad un articolo e ad un video di Ilenia De Rosa pubblicati su “Il Mattino” il 3 maggio 2017, nonché ad una galleria fotografica di Pasquale Raicaldo su “La Repubblica” del 22 aprile 2017).

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La foto è di Aniello de Rosa (clicca sull’immagine per accedere all’album completo su Fb).

Per un nuovo spazio collettivo
La mattina dell’apertura è stata una festa popolare: i bambini sugli scivoli, i trampolieri coi palloncini, Topolino e Minnie per le foto, l’orchestra d’archi e il sacerdote benedicente, per non parlare del taglio del nastro e dei discorsi delle autorità. Decine di famiglie, centinaia e centinaia di persone sono arrivate dall’intera Penisola per partecipare ad un evento ormai raro: il battesimo di uno spazio collettivo (e a poco è valsa la fastidiosa protesta a colpi di sirena da parte di un dirimpettaio che voleva avere il potere di far fallire la festa, per chissà quale torto subito). A memoria, negli anni più recenti ricordo solo la riapertura di piazza Andrea Veniero nel centro di Sorrento, nel 2010, rimasta poi sostanzialmente abbandonata, senza una prospettiva, né un’identità; ma questo è un altro discorso, anzi no, e ci tornerò dopo. Per un comprensorio turistico come quello sorrentino, che vive anche di eventi, trovarsi sui giornali e sulle televisioni regionali per qualcosa che non sia uno spettacolo o un premio di una serata, ossia non per un episodio effimero sebbene gratificante, è una sensazione quasi inebriante: domenica scorsa a Sant’Agnello si respirava entusiasmo, lo sguardo si proiettava nel futuro perché era stato realizzato qualcosa di stabile e duraturo. Inoltre, era stato sperimentato anche un nuovo modello di amministrazione condivisa, se così posso dire: il WWF peninsulare, una delle associazioni ambientaliste più impegnate contro gli scempi – legali e illegali –, frequentemente critica contro tutte le Amministrazioni comunali dell’area, aveva realizzato un’opera unica proprio grazie alla collaborazione con gli enti pubblici locali. (Un progetto senza pari anche per l’impegno economico che ha richiesto: addirittura 900.000 euro di fondi europei, diversi in più dei 735mila annunciati dalla Regione nel 2014). Da un lato princìpi, fermezza e anche denunce contro i danni ecologici e l’ingiustizia ambientale, dall’altro lato dialogo, negoziazione e supporto reciproco per realizzare nuovi spazi e spazi nuovi, ma soprattutto politiche durevoli e avvedute («L’oasi ha una grande funzione simbolica: rappresenta un esempio di come la natura può essere ricreata anche a seguito della distruzione legata a motivi di sviluppo sostenibile», ha spiegato il sindaco). In un solo colpo – e in una sola mattinata –, cioè, i protagonisti di questa scommessa sono apparsi sotto una luce inedita: concilianti (gli uni) e convertiti (gli altri).
Dopo pochi giorni, però, qualcosa è repentinamente cambiato. O forse no, qualcosa di sfiancante si è riaffacciato ancora una volta. L’Oasi è stata chiusa perché non è stato ancora incaricato un gestore e questo fa addensare nubi proprio sulla lungimiranza del progetto. Ci si domanda che ruolo sociale debba avere quel parco nelle intenzioni dell’Amministrazione comunale, specie dopo che si è variato il progetto iniziale da agrumeto ad Oasi; fino a che punto il sindaco creda in quell’investimento se non ne ha preventivamente pianificato orari e custodia; come si inserisca l’opera realizzata nel sistema territoriale complessivo; se si sia considerato opportuno articolare un piano cultural-paesaggistico per il comune nel suo insieme.
Tali quesiti sorgono dall’osservazione del caso specifico, evidentemente, eppure riguardano anche una visione più ampia dello spazio urbano attuale. Per affrontare problematiche del genere, dunque, è necessario individuare percorsi storici e, conseguentemente, un phylum di idee intorno ai concetti di paesaggio e, più nello specifico, di giardino, soprattutto quello delle nostre città odierne. A questo proposito, nelle righe seguenti apro una doppia parentesi storico-interpretativa.

All’origine del giardino
Quando 10-12mila anni fa – tra la Mezzaluna Fertile, l’Iran e la Cina – delle donne (è l’ipotesi più probabile) incisero la terra e diedero origine all’agricoltura coltivando orzo, grano, lenticchie e riso, inventarono anche qualcos’altro: il paesaggio. L’interazione tra l’azione umana e l’habitat naturale produce, da sempre, una sorta di linguaggio territoriale: il paesaggio è un prontuario di bisogni e desideri, un archivio di memorie e visioni. In altre parole, il lavoro agricolo – faticoso e bestiale per millenni – ha un’esteticità implicita: dal punto di vista filosofico è fonte di bellezza e di potere, perché crea quasi un’altra natura, dal momento che scava laghi, raddrizza fiumi, sposta piante, smuove terra… L’agricoltura, cioè, dà inizio ad un’arte, quella appunto del paesaggio. Questa consacrazione è avvenuta con l’innesto della vite, ossia con quella che Venturi Ferriolo chiama «la pianta simbolo del genio, che rivela la cultura e il conseguente incanto di un paesaggio: è la metafora dell’arte, della mano dell’uomo o del dio» (in: “Etiche di paesaggio. Il progetto del mondo umano”, 2002). Pertanto, la coltura della terra è cultura in senso pieno, è capacità di imprimere segni umani sull’ambiente preesistente – creato dalla divinità, secondo tutte le religioni -, è possibilità di realizzare paesaggi, appunto. Quando, però, i bisogni primari vengono finalmente soddisfatti, tale abilità comincia ad essere applicata in nuance differenti: gli esseri umani costruiscono paesaggi speciali, destinati ad un’altra forma di benessere, quello estetico, che ovviamente ha anche declinazioni spirituali e politiche: vengono infatti modellati i giardini, cioè degli artifici apparentemente selvatici che riflettono le idee del tempo.
Nel solco di questa lunghissima storia, qui brevemente accennata, l’Oasi in città rappresenta la tappa più recente di un movimento che sta riportando il verde negli spazi urbani, un proposito che intende letteralmente far fiorire il cemento. Com’è chiaro, si tratta di un riscatto fittizio della natura sulla deriva antropica degli ultimi decenni, ma che ha già esempi di grande suggestione, i cui effetti sull’immaginario collettivo e sulla vita quotidiana, tuttavia, dobbiamo ancora verificare in maniera approfondita. Mi riferisco, per fare qualche esempio, all’ambizioso progetto di Boeri di riforestazione metropolitana col “Bosco verticale” di Milano, al giardino delineato da Gilles Clément come parte integrante dell’esposizione del Musée du quai Branly di Parigi, al “Giardino tropicale” dentro la parte più antica della stazione ferroviaria di Atocha a Madrid o, ancora, ai binari della “High Line”, la ex ferrovia sopraelevata di New York riconvertita a parco botanico panoramico.

All’origine dell’Oasi
Realizzato negli ultimi due anni, il parco verde di Sant’Agnello affonda le radici, non solo simbolicamente, nel 2001, quando l’allora Giunta di centro-sinistra della Regione Campania varò la legge 19 che, poi, avrebbe reso possibile una nuova speculazione cementizia, quella dei parcheggi interrati pertinenziali. Tale norma ha avuto effetti soprattutto in Penisola Sorrentina, dove ha consentito frequenti e imponenti scavi per realizzare box-auto sotto gli agrumeti. Con la motivazione della diminuzione del traffico automobilistico (rivelatasi del tutto mendace), è stata avviata una vera e propria liberalizzazione del settore edilizio in una zona come l’area sorrentina altamente vincolata (dal punto di vista paesaggistico e idrogeologico) fin dalla metà degli anni Ottanta. Più precisamente, la questione prende forma intorno all’articolo 6 di quella legge, il quale prevede alcune limitazioni relative alla tutela naturalistica (commi 7 bis e 7 ter) che, però, sono stati sempre ritenuti inefficaci, se non fallaci, da chi vi si è opposto, come le associazioni ambientaliste del territorio, da quelle storiche come Italia Nostra e WWF, fino a nuovi movimenti di cittadinanza attiva come “Stop Boxlandia”. (Per un approfondimento, rimando ad un mio intervento presso un convegno dell’ISPRA sul consumo di suolo: “Parcheggi d’arancio. Se una legge permette di consumare gli agrumeti e il sottosuolo della Penisola Sorrentina”, 2015).
In particolare, in merito all’obbligo di copertura vegetale dei garage di cui a quell’articolo, gli ecologisti hanno più volte denunciato l’inadeguatezza della norma dal punto di vista botanico, oltre che la sua pressoché costante non applicazione sul piano pratico, col risultato che agrumeti ed oliveti raramente sono stati ripristinati nello stato precedente l’apertura del cantiere e, comunque, non sono mai tornati ad essere produttivi, riducendosi ormai a puri elementi ornamentali: secondo un rapporto del 2011 del WWF locale, su tale aspetto a Sorrento sono ben 7 su 11 i parcheggi che non rispetterebbero la legge.

Per un nuovo fulcro territoriale
Entro questa cornice storico-filosofica, legislativa, economica e urbanistica, dunque, il parco di Sant’Agnello sul tetto della grande autorimessa assume una particolare valenza strategica. L’impegno – finanziario e non solo – di una riconversione verde della città non può limitarsi alla piantumazione e all’estetica di una porzione dello spazio urbano, perché va necessariamente accompagnata da un’etica: ogni giardino è una creazione artificiale, un’interpretazione del mondo, ma è anche un’utopia, un sogno visionario che va oltre la rappresentazione. L’Oasi potrebbe restare una circostanza fugace, ma sarebbe un vero peccato, perché la sua vocazione autentica è quella prototipale, cioè propulsiva. Il giardino santanellese, speranza di riscatto ecologico contro la cementificazione selvaggia presente e passata, è appena nato e necessita ancora di cure, se non lo si vuole vedere appassire tra i miopi applausi del momento. Quel parco è solo apparentemente botanico, perché il suo ruolo, piuttosto, è culturale: deve essere innanzitutto frequentato (dunque i suoi orari di apertura richiedono certezza e stabilità), ma deve essere anche fulcro di una nuova socialità, sia attraverso puntuali occasioni d’incontro, sia – e a maggior ragione – come centro di documentazione del paese. Le aree tematiche in cui è suddiviso il giardino, infatti, sono spunti per percorrere il resto del territorio santanellese e peninsulare, sono il nodo, cioè, di una serie di sentieri che conducono là dove realmente risiedono l’oliveto, l’agrumeto, il bosco e la macchia mediterranea; sono la sintesi e la presentazione degli iconemi primari del paesaggio sorrentino, frutto del lavoro agricolo plurisecolare delle genti di questa Contrada, indici ecologici e culturali di quello che in altra sede ho definito “Ecomuseo della Costiera Sorrentino-Amalfitana” (si veda la mia postfazione al libro di Antonino De Angelis, “Li Cuonti. La collina degli uccelli di passo”, 2015).
In questo senso, la funzione che personalmente attribuisco all’Oasi è di tenere insieme le emergenze del territorio con i suoi itinerari, i beni storico-culturali e naturali con le persone che vi abitano, gli sguardi sul passato con quelli rivolti al futuro. Se la caratteristica dei battesimi è di stabilire un inizio, allora l’Oasi inaugurata una settimana fa può avere due tipi di vita davanti a sé: quella breve e limitata di una passerella per imprenditori politici e morali interessati ad un consenso immediato, oppure quella lunga e proficua che cambia il destino di un luogo e contagia virtuosamente il circondario. Come una stella al centro di una galassia, l’Oasi deve diventare il cuore di relazioni che stimolino la partecipazione attiva dei residenti, l’intreccio di transiti che poi vadano effettuati al di là dell’omologata cinta urbana, ossia nei luoghi in cui natura e cultura dialogano ancora in maniera armonica e coerente. Con l’apertura del parco non c’è stato ancora alcun concreto riscatto della natura sul cemento, né avverrà mai una conversione ecologica delle nostre città se l’Oasi resterà soltanto un’oasi nel deserto. C’è ancora molto da mettere a punto: tanto l’amministrazione ordinaria, quanto la tessitura di una trama col territorio. Soprattutto, però, c’è da sperare nella continuità e nella costanza, senza le quali il domani non arriverà.

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INTEGRAZIONE del 9 maggio 2017:
Pierre Horwitz ha scritto su “The Conversation” degli effetti positivi del verde urbano (il bosco, più che il parco), anche a livello sanitario.
Tuttavia, come giustamente ha commentato Giuseppe Forino (riferendosi in particolare alla situazione australiana), è necessario riflettere seriamente su quanto tali spazi siano sostenibili e quanto siano, invece, legati all’investimento sul mattone.

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Presidenziali francesi: i tormenti del ballottaggio

Come è arci-noto, domenica 7 maggio si terrà il ballottaggio presidenziale in Francia: a sfidarsi saranno Emmanuel Macron e Marine Le Pen. La quantità di articoli pubblicati ogni giorno è enorme, per cui è difficile stare dietro a tutto: come ad ogni elezione, ci sono editoriali d’ogni tipo, da quelli storici sui programmi a quelli psicologici sulle personalità dei candidati, fino a quelli che delineano scenari futuri (es: «se votate per l’uno, l’altra avrà via libera fra 5 anni»; e a mio avviso questo esprime solo una gran fiducia nel domani, dal momento che si ritiene che si sarà presenti alle prossime elezioni e che il pianeta sarà ancora al suo posto, quando invece un meteorite, dopodomani, potrebbe farci fare la fine dei dinosauri) (sì, sono sarcastico, ma ora torno serio).

Ebbene, in un tale bailamme di parole sento l’esigenza di fare un po’ d’ordine, per cui questo post è una sorta di “rassegna stampa” (che nei prossimi giorni continuerò ad aggiornare) in cui segnalo alcuni link utili non tanto a capire la situazione politica o le individualità in campo, quanto il racconto mediatico che se ne fa e l’interpretazione sociale che se ne ha.

Prima di procedere all’elenco, è necessaria una doppia premessa.

La prima riguarda il sistema elettorale francese che, prevedendo un sistema di governo presidenziale eletto con doppio turno, ha delle peculiarità ignorate pressoché da tutti: dai francesi perché lo danno per scontato e dagli stranieri (dagli italiani, in particolare) perché non vedono le (talvolta enormi) differenze con le proprie modalità di voto. Giusto per fare un esempio: se in Francia ci fosse il sistema statunitense, oggi sarebbe già presidente Marine Le Pen.

La seconda premessa è che, per quanto interessanti e condivisibili, taluni discorsi sono spesso eccessivi: il ballottaggio è tra lui e lei, non ci sono altre opzioni, per cui domenica sera uno dei due sarà alla testa della République e, piaccia o meno, inciderà sulla vita di tutti. Argomentare ora sul «meno peggio», dunque, è un esercizio poco pertinente (valeva decisamente di più al primo turno): per quanto si possa fare fatica a cogliere le differenze tra l’uno e l’altra (sto tendendo una mano, eh, perché per me le differenze ci sono e sono pure enormi), la scelta è innanzitutto dentro se stessi: si è disposti a prendersi la responsabilità che una fascista diventi Capo di Stato?

Bene, partendo da quest’ultima domanda, ritengo che la questione sia trattata in maniera efficace da “Charlie Hebdo” (un giornale decisamente poco incline ai compromessi), che questa settimana non ha disegni in copertina, ma solo una grande domanda: « Second Tour : Faut vraiment vous faire un dessin ? » (“Secondo turno: è davvero necessario che vi facciamo un disegno?”). All’interno c’è una ulteriore presa di posizione, con una vignetta di Coco molto esplicita: se Le Pen dovesse essere eletta, le lacrime di coccodrillo non serviranno a nulla; un concetto che ripete anche Gérard Biard in un breve editoriale in cui dipinge il “Front National” come «un pericolo mortale per la democrazia»:

«[…] Sì, il Front National è la peste. Ma Macron non è il colera. E’ al massimo una grande diarrea. E’ tutt’altro che gradevole, ci storce lo stomaco, ma possiamo combatterlo, può essere alleviato e curato se facciamo quel che è necessario. Mi spiace, ma possiamo, dobbiamo scegliere tra la peste e la diarrea. Questa non è solo una questione di buon senso, è una questione di sopravvivenza».

Il tema di fondo che, personalmente, trovo preponderante è come mai questo secondo turno in cui un candidato frontista si trova ad un passo dall’Eliseo non abbia mobilitato come nel 2002, quando lo sfidante di Jacques Chirac al ballottaggio fu Jean-Marie Le Pen, padre di Marine. La ragione principale è che durante questo periodo il FN è stato “normalizzato”: 15 anni fa ci fu stupore, oggi c’è banalizzazione, argomenta Faustine Vincent su “Le Monde”, ma le ragioni sono anche altre: «Ci si è progressivamente abituati alle alte percentuali del FN; la sinistra è troppo divisa per opporsi con un fronte comune; la vittoria di Macron è data per certa; a molti elettori Macron fa paura».
Chi ha fatto più i conti con il dilemma su chi/cosa votare tra pochi giorni è la galassia di sinistra radicale guidata da Jean-Luc Mélenchon, il movimento “France Insoumise” (arrivato quarto al primo turno, a pochissima distanza dal terzo, François Fillon), che ieri ha espresso le sue posizioni con una consultazione online: il 36% è per un voto bianco, il 29% per l’astensione, il 35% per Macron.
Il dibattito è furente anche tra gli intellettuali: ci sono quelli «né-né», come lo storico Emmanuel Todd e il filosofo Michel Onfray, ma anche quelli come Edwy Plenel, cofondatore di “Médiapart”, che chiede di «evitare il disastro».
Il voto in favore di qualcuno è una forma di adesione a un programma politico; votare per chi non si sostiene, invece, è un processo complesso, talvolta lacerante. D’altronde, è esattamente questa la caratteristica del ballottaggio. Tuttavia, possiamo sostenere l’equivalenza tra i candidati quando uno dei due appartiene ad una storia di razzismo, xenofobia, antisemitismo, islamofobia e nazionalismo pétainista?

Alcuni giorni fa ho letto una singolare analisi del “Complesso di Edipo” della politica francese: Olivia Goldhill ha scritto di Macron e di Le Pen su “Quartz”: «Uno ha sposato sua madre, l’altra ha ucciso suo padre» (c’è anche un sunto in francese). Ora, al di là del contenuto, la domanda che si pone è sempre la stessa: i freudiani ci prendono in giro?
Non avendo conoscenze approfondite per rispondere, chiudo tornando ad un piano più vicino. Speranta Dumitru su “Slate.fr” ha scritto che il programma di Macron è ispirato a due filosofi: John Rawls e Amartya Sen. I due intellettuali sarebbero all’origine, cioè, del «libéralisme égalitaire» del candidato di “En marche”, il quale nei suoi comizi ha ripetuto spesso la necessità di maggiore «égalité des chances» (come raggiungerla, però, è ancora tutto da vedere). Nell’articolo, inoltre, sono pubblicate le ultime righe dei ringraziamenti che Paul Ricœur scrisse per il suo libro “La mémoire, l’histoire et l’oubli” (un testo del 2000 che conosco, ma che non ricordavo per questo dettaglio):

«Emmanuel Macron [che all’epoca si occupava di filosofia], a cui devo una critica pertinente della scrittura e la messa in forma dell’apparato critico di quest’opera».

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Segnalo, inoltre, un video in cui sono messi a confronto due discorsi di Fillon (del 15 aprile) e di Le Pen (del 1° maggio): sono identici, parola per parola, inflessione per inflessione (e c’è da capire il perché di una tale scelta da parte di lei: il ghost-writer ha fatto sciopero o, più realisticamente, i voti di Fillon fanno gola?):

Per concludere, ricordo che stasera [3 maggio 2017] ci sarà il confronto televisivo tra i due candidati e, per arrivarci preparati, consiglio questa intervista a Francesco Maselli.

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AGGIORNAMENTO del 4 maggio 2017:
Ieri sera il dibattito televisivo tra Macron e Le Pen è stato accesissimo, talvolta inascoltabile, con i due moderatori pressoché spariti (qualcuno ha ironizzato che fossero stati rapiti). Fin da subito, l’impressione è che i due candidati abbiano parlato soprattutto al proprio elettorato e che, nel complesso, Macron (per quanto “ingessato”) sia andato meglio di Le Pen (parecchio superficiale e aggressiva): un sondaggio istantaneo tra i telespettatori di BFMTV dice che il 63% degli intevistati ha ritenuto Macron più convincente, contro il 34% a favore di Le Pen.
Secondo Franck Tapiro, esperto di comunicazione, «Marine Le Pen ha commesso un errore incredibile, quello di non aver parlato agli altri, ma solo ai propri elettori». Tuttavia, secondo Emmanuel Berretta di “Le Point”, la strategia della candidata del “Front National” è stata di scoraggiare gli elettori al fine di indurli all’astensione.
Come già durante i precedenti dibattiti televisivi, i principali giornali hanno pubblicato in diretta i fact-checking degli argomenti trattati dai candidati. In particolare, “Le Monde” e “Libération” hanno elencato e spiegato tutte le affemazioni false o sbagliate di Le Pen (il primo ne ha contate 19, il secondo 25). Naturalmente, ce n’è qualcuna anche per Macron – ma molte meno -, come mostrano “Le Figaro” e “Le JDD“.

Parallelamente, continua il dibattito sull’atteggiamento di certa sinistra «né-né», orientata cioè per l’astensionismo al ballottaggio. Come ho spiegato ieri all’inizio di questo post, il sistema elettorale francese favorisce un doppio atteggiamento: di adesione al primo turno (si vota per sostenere qualcuno) e di esclusione al secondo turno (si vota per eliminare qualcuno). La consapevolezza di tale particolarità sembra essere stata smarrita da una parte dell’elettorato gauchista e da taluni intellettuali, come osservano Matthieu Croissandeau su “L’Obs” ed Ezio Mauro su “La Repubblica“.

Il primo – Matthieu Croissandeau – si dice stupito di come:

«la confusione dei valori [sia] tale, la spinta populista così forte, gli appelli a fare tabula rasa così pressanti che oggi [si debba] prendere la penna e scrivere nero su bianco che no, Emmauel Macron e Marine Le Pen, non sono uguali. […] Esiste il rischio di vedere il “Front National” vincere le presidenziali. E questa sarebbe una tragedia per il nostro Paese, per i suoi valori e soprattutto per i suoi cittadini. […] Il fronte repubblicano non ha mai impedito la progressione del FN, è vero. Ma ha permesso, ogni volta che quest’ultimo si avvicinava, di scartarlo fermamente dal potere. Questa è l’immensa responsabilità di Nicolas Dupont-Aignan, ma anche di Jean-Luc Mélenchon. […] Astenersi o votare in bianco quando il “Front National” è al secondo turno, non è rifiutarsi di sottomettersi, ma rischiare il proprio asservimento. Uno spettacolo triste».

Il secondo – Ezio Mauro – osserva che, nell’elettorato di Mélenchon, oltre alla ribellione contro lo strapotere della finanza, delle banche, dell’Europa, c’è qualcosa di più:

«Non un progetto alternativo, un’obiezione culturale, un’idea che metta in movimento una politica diversa, di cui avremmo bisogno. C’è quasi un odio antropologico – che non ha nulla a che fare con la politica – per la figura fisica e insieme fantasmatica del tecnocrate che gioca la sfida del governo, mettendo le sue carte sul tavolo, senza camuffare la sua cultura e i suoi programmi nell’opportunismo della rincorsa populista. Così, mentre l’indebolimento degli anticorpi repubblicani e la rabbia popolare facilitano la dediabolisation di Le Pen, un moderno diavolo borghese sale sul trono vacante e diventa il bersaglio della sinistra delusa, dispersa, furiosa. È il politico che crede nella vocazione europea della Francia, nella funzione storica di guida che il Paese ha giocato nella Ue con la Germania, nei vincoli della responsabilità, nella modernizzazione post-ideologica».

Per avere un’idea della confusione e dei turbamenti a sinistra, segnalo l’intervista che Anais Ginori ha fatto allo storico – anti-europeista – Emmanuel Todd, il quale sostiene che

«il lepenismo e il macronismo sono due facce della stessa medaglia. Le Pen è il razzismo, non si può scegliere il razzismo. Macron è la sottomissione alle banche, alla Germania, a tutto ciò che ci ha portato nella crisi di oggi. Per questo mi astengo con coerenza, anzi con gioia, aspettando che nasca un mondo migliore. Non sarà per questa volta, perché sono convinto che adesso vincerà Macron».

Ben più pramatica, invece, è la posizone di Lilian Thuram – ex-calciatore e da anni impegnato in progetti sociali e anti-razzisti -, il quale spiega a Stefano Montefiori che

«Emmanuel Macron e Marine Le Pen non sono uguali. Non capisco quelli che domenica non andranno a votare pensando che il risultato finale sarà indifferente. […] Con l’estrema destra al potere tante cose potrebbero cambiare in peggio. […] Oltre sette milioni di francesi hanno votato per Marine Le Pen al primo turno, è già troppo. Tanti amici francesi bianchi sono preoccupati quanto me. Quanto agli altri, forse per capire il pericolo rappresentato da Marine Le Pen devi sentirti straniero. Ha paura il mio amico ebreo, hanno paura i musulmani, i neri. Per loro l’idea di Marine Le Pen all’Eliseo non è un gioco intellettuale, loro rischiano davvero qualcosa, sulla loro pelle. Lei vuole dividerci, sta già creando il “noi” e “loro”».

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INTEGRAZIONE del 4 maggio 2017:
Ho letto un post di Luca Sofri intitolato “Turarsi il nez” e, onestamente, oggi non lo capisco. Come ho scritto in questo post: «il sistema elettorale francese favorisce un doppio atteggiamento: di adesione al primo turno (si vota per sostenere qualcuno) e di esclusione al secondo turno (si vota per eliminare qualcuno)». Per cui – continuo a citarmi, scusate – «per quanto si possa fare fatica a cogliere le differenze tra l’uno e l’altra (sto tendendo una mano, eh, perché per me le differenze ci sono e sono pure enormi), la scelta è innanzitutto dentro se stessi: si è disposti a prendersi la responsabilità che una fascista diventi Capo di Stato?».
Certo, come dice Sofri, il giorno dopo la sua (probabile) elezione Macron dovrebbe tener conto che è stato votato da gente che s’è turata il naso, ma dovrebbe capirlo ancor di più Mélenchon, che da quel momento – dopo aver responsabilmente evitato di far piombare la Francia nel lepenismo – avrebbe il dovere di costruire una sinistra vincente e unita fra 5 anni. Io non credo alla cura per shock, non credo che passando per Le Pen, poi ci sarà una fantasmagorica sinistra luminosa e progressiva. Non lo credo perché non credo che il meglio nasca attraversando il fascismo, non credo perché chi lo dice è chi sa di essere al sicuro (il fascismo devasta innanzitutto chi è debole e fragile), non lo credo perché in Italia l’abbiamo già vissuto: Montanelli disse «facciamo governare Berlusconi, così gli italiani vedranno e capiranno», invece non hanno capito niente e, in particolare, non ha imparato niente la sinistra, che con Bertinotti affondò l’unico governo riformista degli ultimi 20 anni, quello di Prodi, regalandoci un altro decennio di berlusconismo, dal quale poi è nato qualcosa di ancora peggio, ovvero il grillismo.
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Diversi commenti su Fb al post di Sofri sono critici, in linea con quanto ho espresso in questo aggiornamento. Ne copio alcuni:

Giacomo Jack Giudici: “turarsi il naso” esiste in un sistema come il nostro, dove non c’è il ballottaggio e quindi si pone davvero il problema se dare un voto convinto ma “inutile”, o un voto strategico (quindi meno convinto) ma “utile”. In un sistema con un ballottaggio il problema non esiste: si vota il proprio candidato al primo turno con convinzione per farlo pesare il più possibile, poi si sceglie il meno peggio tra i due senza pensarci un attimo. Se i sostenitori di Melenchon non preferiscono Macron a LePen, o sono per il “tanto peggio tanto meglio” (atteggiamento irresponsabile) o sono, in fondo, lepenisti di segno diverso. Non c’è una terza via, ed è inutile nascondersi dietro improbabili dilemmi etico-politici, basta dire le cose come stanno.

Stefano Di Piazza: Perdonami Luca Sofri, ma credo ti sfugga un elemento importante. Per gran parte dei sostenitori di Melanchon “votare turarandosi il naso” significherebbe votare la Le Pen. Quest’ultima, pur essendo fascista, avanza proposte di politica economica e di politica estera che corrispondono esattamente a quelle di Melanchon. Ovunque l’estrema sinistra è di gran lunga più vicina all’estrema destra che alla sinistra liberale.

Federico Donelli: E infatti chi (destra o sinistra) non vota Macron, accettando di fatto Le Pen, va chiamato col suo nome senza grandi giri di parole: fascista. Il fatto che molti a sinistra non lo ammettano denota la stessa ipocrisia della quale accusano chi vota Macron turandosi il naso.

Zeno E Cozeno: Il paragone con la cena non regge però, perché qualcuno sarà eletto e mi governerà per 5 anni indipendentemente dalla mia astensione. Di fronte a vermi e prugna ammuffita, l’opzione di rinunciare alla cena non è data: posso solo scegliere il meno peggio oppure lasciare che altri scelgano per me quel che dovrò mangiare a forza.

Omar Degoli: parlane con Costa 🙂 “Elogio del meno peggio” [articolo del 29 maggio 2011]. Secondo me la non scelta al voto non ha nessun senso, mai, a meno che non si tratti di elezioni pilotate, ma non è questo il caso dei paesi europei.

Stefano Pevarello: Permetterà che saltare la cena una sera non ha le le stesse conseguenze di quello di cui stiamo parlando. Il paragone non regge a meno che non sei disposto a saltare il pasto per i prossimi 5 anni.

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Aggiungo, infine, il link all’articolo di Pierre Haski su “L’Obs”, tradotto da “Internazionale”, intitolato “Quell’Europa che spera nella vittoria di Marine Le Pen“, ovvero la Polonia di Jarosław Kaczyński e l’Ungheria di Viktor Orbán, ovvero di due “democrazie illiberali” (secondo l’espressione formulata dal saggista americano Fareed Zakarya) che perseguono «una progressiva erosione dello stato di diritto e l’introduzione di nuove strutture di controllo delle istituzioni e del pensiero». Haski cita Edgar Morin, che alcuni giorni fa su “Le Monde” ha analizzato così il fenomeno: «Ovunque, anche in Europa, la politica reazionaria ha dato vita a delle postdemocrazie autoritarie, malamente definite ‘populiste’, e in questo momento storico noi stessi siamo minacciati. Sappiamo dove ci porta il Front national. La postdemocrazia autoritaria, quella di Putin, di Orbán, avanza sul continente».

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AGGIORNAMENTO del 5 maggio 2017:
Come dicevo, ieri sono uscite varie analisi del dibattito Macron-LePen. Qui ne segnalo tre: di Francesco Maselli, di Gianluca Briguglia, di Daniel Gascón.

La prima spiegazione, quella di Francesco Maselli in una diretta-Fb, è che l’aggressività della candidata frontista va interpretata come una strategia per accreditarsi in quanto leader dell’opposizione, avendo assunto che perderà le elezioni (dal minuto 7):


La seconda analisi, di Gianluca Briguglia, sottolinea le enormi differenze tra i due contendenti e di come quel dibattito potrebbe essere uno spartiacque:

La grande sorpresa, per me, ma credo anche per molti francesi, è stata l’assoluta mancanza di un programma da parte di Le Pen, l’incompetenza mostrata più volte e anche l’incapacità di mostrare una qualsiasi idea della Francia. Sapevamo della provenienza di Marine, del suo partito, di tutte le ambiguità che si porta dietro, non sapevamo della sua assoluta impreparazione. […] Sui due punti forti della sua campagna, il terrorismo islamista e l’uscita dall’euro, è andata forse peggio che in tutto il resto del dibattito. […] Sia chiaro, dopo Trump e Farage tutto è possibile, e girano studi sulla possibilità che l’astensionismo, da solo, possa dare la vittoria alla figlia di Jean-Marie Le Pen, ma se Marine è la rappresentante più importante, più simbolica, più evocativa dell’armata dei populisti europei, forse il dibattito di ieri può essere uno spartiacque importante (altra cosa è capire perché milioni di persone diano credito alle panzane più diverse e soprattutto altra cosa è capire come trasformare questa forza distruttrice in forza creativa e in trasformazione positiva ed è il tema più importante e più essenziale di tutta la faccenda). […] In ogni dibattito presidenziale c’è una frase storica, che retrospettivamente fissa l’andamento e la svolta della discussione. [Dinnanzi ai continui attacchi violenti di Le Pen, Macron ha detto:] «Le si dà carta bianca per parlare di quello che vuole e lei lo usa per sporcare (…). E questo perché il paese non le importa, non ha un progetto per il paese, il suo progetto è di dire al popolo francese “questa persona è atroce”. (…) Il suo progetto è la paura e la menzogna. È questo ciò che la nutre, che ha nutrito suo padre per decenni, che ha nutrito l’estrema destra, è questo che ha fatto di lei quello che è. La Francia che voglio vale più di questo».

Il terzo editoriale, di Daniel Gascón sulla rivista messicana “Letras Libres“, argomenta come quella di Le Pen fosse una lucida strategia:

Le Pen a ratos parecía presentarse como la verdadera oposición al futuro presidente. Utilizaba tropos recalentados: la sensación de miedo ante el cambio, la idea de la pureza cultural amenazada, las apelaciones a camarillas de élites imprecisas que roban a los franceses lo que es suyo, la mención amenazadora de los extranjeros (que no se limitaba a los inmigrantes, sino que incluía a los alemanes y a los italianos), la deliberada malinterpretación de las palabras del adversario, el desdén ante los datos. Presentaba a Macron como el propagandista de la “Francia sumisa”: promueve la rendición ante la globalización, la Unión Europea, las grandes corporaciones y el fundamentalismo islámico porque, de un modo u otro, es cómplice de la globalización, la Unión Europea, las grandes corporaciones y el fundamentalismo islámico. […] Los errores factuales, las inexactitudes, las provocaciones personales y las falsedades descaradas de Marine Le Pen pueden parecer errores, pero quizá tengan otra función: crean ruido y hacen la discusión ininteligible. Los datos o el conocimiento técnico son en el mejor de los casos opiniones como otra cualquiera. Y en el peor, instrumentos que los privilegiados sin corazón utilizan contra el pueblo. Para que el antipluralismo de la extrema derecha prospere, necesita extender primero un relativismo cínico: el que dice que todas las opciones son iguales, el que justifica la abstención.

Per chiudere, una nota simpatica. Il dibattito presidenziale è stato trasmesso in tutto il mondo e tradotto in numerose lingue straniere. Come suggerisce la trasmissione-tv “Quotidien” di Yann Barthès, questa è stata l’occasione per ascoltare Marine Le Pen in arabo:

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FOCUS sulla Costa Azzurra (5 maggio 2017):
In Costa Azzurra 19 sindaci hanno firmato un appello contro Marine Le Pen; gli altri 30, invece, non volendo scontentare il proprio elettorato, preferiscono l’omertà. Inoltre, Christian Estrosi, Presidente della Regione PACA e della Città Metropolitana, ha indirizzato una lettera aperta ai cittadini di Nizza per invitarli a votare per Emmanuel Macron:

Voi siete preoccupati per il vostro futuro e per quello dei vostri figli, ma il Front National non è una risposta ai problemi della Francia. […] Il 7 maggio, al momento di inserire la vostra scheda nell’urna, vi chiedo di pensare a Nizza, di pensare alla Francia, all’eredità che non desideriamo lasciare ai nostri figli, che già guardano al mondo in modo differente da noi.

Allo stesso tempo, a Nizza i rappresentanti cattolici, protestanti, ortodossi, musulmani ed ebrei hanno firmato un documento per sostenere Macron, con la motivazione che il programma del Front National di Marine Le Pen è:

incompatibile con la fede, la dottrina, i valori e la tradizione delle loro rispettive confessioni. [In particolare, costoro dicono] no all’esasperazione della paura, alla xenofobia, e sì alla ricerca di una coesione sociale e nazionale della fraternità e dell’integrazione delle differenze, con un progetto fedele alla storia, alla cultura e alla vera identità della Francia.

Infine, va segnalata una manifestazione dei “né-né” di sinistra radicale per domenica 7 maggio 2017, dalle 18h00 alle 22h00, in place Garibaldi a Nizza, con – tra l’altro – le seguenti ragioni (ai miei occhi non esattamente rassicuranti e consapevoli):

On est là pour être ensemble, pour discuter, pour écouter de la musique, pour dénoncer cette élection atroce. Par contre, on est pas là pour tout casser, ni pour casser du faf, encore moins pour casser du flic, etc… […] Cette élection est dure pour toutes les forces de gauche et ce n’est pas le moment de se diviser (et encore moins à cause d’un banquier, j’ai envie de dire…).

[Questo post è presente anche sul mio Fb: qui].

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AGGIORNAMENTO del 7 maggio 2017:
Il ballottaggio c’è stato e ha decretato la vittoria di Emmanuel Macron, nuovo Président de la République. Il suo discorso, davanti alla Piramide del Musée du Louvre è qui:

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Sulle prime conseguenze di questa storica elezione ho scritto questo post: “Politica francese: strategie per sopravvivere alla sparizione“.

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