Questo articolo è apparso sul numero di maggio 2020 di “Sireon”.

Promuovere il territorio per salvare il turismo
Giovanni Gugg
L’11 maggio scorso Vera Viola ha firmato un importante articolo sul “Sole 24 Ore” dedicato a Sorrento, dove «l’87% delle famiglie vive di turismo», ossia l’attività economica più colpita dalla pandemia, nonché quella con minori prospettive di recupero; fino a fine giugno sono state cancellate il 95% delle prenotazioni negli alberghi.
Un mese prima, l’11 aprile, ho lanciato una discussione dal mio profilo Facebook proprio su questo tema, e forse avrei potuto farlo anche prima, perché già dalla fine di febbraio, cioè dai primissimi giorni di crisi sanitaria in Italia, in Penisola Sorrentina si è avuta l’immediata percezione della voragine economica che il coronavirus stava scavando nel tessuto sociale locale, parallelamente alla sua propagazione sul piano medico. Il mio post ha avuto molta visibilità, venendo ripreso da altri organi di stampa e, soprattutto, venendo commentato da tanti cittadini e operatori del settore. Turismo significa compagnie aeree, agenzie di viaggi e catene alberghiere, ma anche b&b e agriturismi familiari, ristoranti e agricoltori, cuochi e camerieri, guide ambientali e archeologiche, traduttori e portieri, musei e parchi tematici… E tutto ciò non è distribuito in maniera uniforme dappertutto, perché ci sono località che da due secoli hanno fondato il loro benessere (e ora la loro sopravvivenza) sull’accoglienza turistica, come la Penisola Sorrentina, la Costiera Amalfitana, le isole del Golfo di Napoli, alcune zone intorno al Vesuvio e lo stesso Centro Storico di Napoli negli ultimi anni. Ciò significa che gli effetti del gorgo recessivo non sono e non saranno uguali per tutti e per ogni luogo. Per cui, per una località così votata al turismo come l’area sorrentina, la stagnazione avviata dalla pandemia ha una serie di effetti molto più profondi che in altre zone: in pochi giorni migliaia di persone hanno visto evaporare la loro attività e, ponendo lo sguardo sul futuro, si sono rese conto di quanto fosse preoccupante l’avvenire, perché i tempi di ripresa si preannunciano più lunghi rispetto ad altri campi.
La crisi sanitaria ha desertificato tutto, e lo ha fatto in un baleno: non i grandi capitali, che resisteranno anche con la cancellazione della stagione 2020, ma i risparmi di migliaia di famiglie che vivono di questa attività o innumerevoli aziende, spesso piccolissime o addirittura individuali, che non hanno più un lavoro, ma che sono la trama socio-culturale alla base del fascino esercitato dal nostro territorio. In altre parole, insieme ai beni storico-culturali, alle bellezze paesaggistiche, alle testimonianze archeologiche e ai sapori, ai gusti e ai profumi, la Penisola Sorrentina ha nel fattore umano un attrattore ineguagliabile, ossia il savoir-faire, la qualità dell’accoglienza, il senso di ospitalità.
La sera di sabato 16 maggio la Confcommercio e l’Amministrazione Comunale di Sorrento hanno lanciato un’iniziativa dal forte valore simbolico: “Riaccendiamo Sorrento”, che, come in un rito di passaggio, ha voluto segnare la fine dei due mesi di quarantena e l’inizio di un futuro che si spera torni pulsante e movimentato. Al di là delle intenzioni e degli entusiasmi, è chiaro che questo non basterà, tuttavia è un passo, per cui va sostenuto e incoraggiato. Ma ne servono necessariamente altri, come i contributi pubblici di sostegno ai lavoratori in cassa integrazione o rimasti disoccupati, o le sovvenzioni per le attività più piccole che dovranno riconvertirsi o adattarsi a volumi più contenuti. Accanto a tutto ciò, però, è essenziale prendere consapevolezza che il turismo sorrentino ripartirà solo proponendo una nuova narrazione, una nuova offerta, un nuovo progetto.
I numeri straordinari raggiunti negli ultimi anni dal turismo sorrentino non sono una “normalità” a cui tornare; è necessario recuperare un rapporto più equilibrato con il territorio, evitando una pressione antropica che ha soffocato i luoghi e gli abitanti. In varie città del bacino mediterraneo – come Barcellona, Nizza, Venezia… – negli ultimi anni sono aumentate le proteste contro il turismo, anzi contro l’industrializzazione del turismo, che produce inquinamento e disuguaglianza, erosione della qualità della vita e fragilità individuali e sociali. Il malcontento stava crescendo anche a Sorrento e nell’intera Penisola, dove da più parti sono sorti comitati, associazioni e movimenti di tutela e riequilibrio sociale e ambientale. Sia da un punto di vista ecosistemico, sia da uno socio-culturale, la nostra terra non stava reggendo l’impatto con il numero crescente di turisti in uno spazio fisiologicamente ridotto e delicato, infatti da anni stava producendosi un disastro a bassa intensità, con una duplice frattura del valore naturale e del valore culturale del territorio. La Penisola Sorrentina è via via diventata faticosa, a tratti insostenibile, e la terribile ma necessaria pausa della quarantena va considerata come una parentesi di riflessione, come un periodo di latenza presente in ogni disastro, ossia come quel momento particolarmente forte dal punto di vista emotivo in cui c’è sconcerto e sofferenza, ma anche nuove idee, dibattiti, riflessioni e, in buona sostanza, nuove intraprendenze.
Il disastro sanitario, che per Sorrento ha avuto l’effetto a cascata di un disastro economico, deve indurre a una profonda riflessione sull’idea di sviluppo perseguita negli ultimi decenni, perché di ogni crisi bisogna cogliere la sua capacità di illuminare l’ordinario, imponendone un ripensamento.
Tornando all’articolo del “Sole 24 Ore”, la giornalista giustamente scrive che Sorrento «dovrebbe innanzitutto ripensare il modello di turismo, quello che negli anni scorsi ha determinato affollamento, calo di qualità dei servizi, inquinamento. E potrebbe optare per un sistema più sostenibile e di qualità». Intervistato su questo punto, l’agente di viaggio e albergatore Gino Acampora si è mostrato particolarmente consapevole, affermando che «la crisi può essere anche una opportunità», nel senso che bisognerà organizzarsi per accogliere un minor numero di turisti e tentare di allungare la stagione turistica.
Si tratta di un’osservazione che va nella giusta direzione, ma di cui va capito il modo in cui si intende attuarla. La modalità più lungimirante punta ad un’unione, o almeno ad un coordinamento, delle realtà istituzionali, economiche, sociali e culturali dell’area sorrentina, dunque al superamento di campanilismi e interessi particolari. È necessario cooperare, magari consorziandosi, così da puntare tutti insieme sulla sola ragione che attrae turisti italiani e stranieri: il territorio. Non esiste ripresa senza tutela e comunicazione dell’intera Penisola, non c’è operazione di marketing che funzioni senza una promozione di tutta la Terra delle Sirene, non c’è futuro possibile senza una nuova narrazione che abbandoni i vecchi codici e, al contrario, offra nuove storie, nuove conoscenze, nuove sensazioni. Bisogna studiare e inventare, immaginare percorsi inediti e ricostruire servizi sociali, ferocemente ridimensionati negli anni, come i presidi ospedalieri e la mobilità alternativa. Bisogna investire nel territorio, rafforzandone i sistemi di assistenza e cura, perché se il territorio è sicuro e sostenibile, lo sono anche i suoi abitanti e, di conseguenza, i suoi ospiti.
Nessun turista al mondo prenota un hotel prima di aver scelto la regione in cui viaggiare: ognuno di noi prima valuta una località, la sua offerta e i suoi servizi, e solo dopo sceglie la struttura più adatta alle proprie esigenze. Bisogna avere ben chiaro il processo decisionale del viaggiatore, a maggior ragione in una condizione delicata come quella che stiamo attraversando, per cui bisogna essere consapevoli che se ognuno va da sé, non ci sarà ripartenza; se non si dà una possibilità ai tanti tesori nascosti – e tutelarli con cura e comunicarli come meritano –, non ci sarà riequilibrio; se non ci si impegna insieme a elaborare pratiche inclusive, non ci sarà superamento della paura. Prima dei turisti, devono essere gli abitanti della Terra della Sirene a dover sognare il proprio luogo e a permettergli di tornare a parlare al mondo, offrendo quelle emozioni che non si possono provare altrove.
E se il turismo tornasse ad essere accessorio?
“…l’87% delle famiglie vive di turismo…”la tragedia è tutta in questo numero aldilà di ogni legittima o meno visione turistica. Non penso che un territorio possa fondare la sua ricchezza, che difatti investe l’87% ca delle proprie risorse umane e economiche, in un unico comparto, che sia esso turistico, industriale, agricolo etc etc.
Un tempo il turismo era accessorio, sia nel senso strettamente letterario sia nel senso di “porta di accesso” ad un territorio che sapeva vivere di altro. Porta di accesso che mostrava come l’agricoltura, la piccola industria manifatturiera dell’intarsio, delle barche e del legno fossero in gradi di costruire l’immagine di un territorio altro, di un unicum difficilmente replicabile.
Ora, pur rifuggendo da inutili forme di passatismo, possiamo pensare di favorire la nascita di attività ad alto valore aggiunto possibilmente sganciate dal turismo locale?
Possiamo produrre beni e conoscenza esportabili e vendibili anche in altri territori turistici magari lontani da noi?
Sganciati dalla logica di un turismo come unica fonte di ricchezza forse potremmo avere, e quindi raccontare, un territorio diverso.
Marco
E se il turismo diventasse accessorio?
Il dramma è tutto in quel 87% di famiglie le cui sorti dipendono dal turismo. Pur non essendo un economista, mi chiedo se è possibile che un territorio investa l’80% ca delle sue forze lavoro ed economiche in un unico comparto, che sia quello turistico o industriale poco conta .
Senza voler essere inutilmente passatista nell’evocare i tempi che furono, credo che le fortuna del primo turismo sia da attribuirsi, come tu evidenzi, al territorio. Territorio plasmato da diverse attività che lo rendevano incredibilmente romantico: l’agricoltura, la pastorizia, il manifatturiero dell’intarsio e dei piccoli cantieri navali rendevano il turismo accessorio. Accessorio sia nel senso letterario del termine sia inteso come porta di accesso per chi volesse ammirare un unicum, accessorio anche perché le micro realtà economiche diffuse sul territorio non lo rendevano indispensabile.
Ovviamente l’industrializzazione del turismo ha generato un benessere diffuso inimmaginabile fino al secolo scorso. Ma ora la scommessa, secondo me, è far tornare il turismo ad assere accessorio, abbiamo conoscenze, savoir-faire e ricchezze che potrebbero essere travasate in altri comparti. E’ impossibile pensare di creare prodotti ad alto valore aggiunto, sia materiali che immateriali, da vendere ed esportare in tutto il mondo (come una volta si faceva con le nostre arance)?
Possiamo pensare di creare un hub turistico virtuale/reale con scuole di formazione anche per imprenditori di altre nazioni emergenti? Potremmo diventare la Milano del turismo internazionale?Potremmo produrre un olio di alto livello da promuovere, consorziandoci, in tutto il mondo? Un olio ad alto costo e di alta qualità consentirebbe di garantire la manutenzione dei terrazzamenti. E così altre decine di esempi. Ma ricostruire e lavorare per la cultura e il territorio costa fatica e cooperazione e visione…
Marco