Dai primi di novembre 2020 curo una piccola rubrica settimanale su “Radio Marconi“: ogni mercoledì, in novanta secondi, spiego la declinazione antropologica di una parola nella serie “Parole per capirsi”. L’appuntamento è alle 6:40 la mattina e alle 16:05 il pomeriggio, in FM in Lombardia e Piemonte, oppure in streaming in tutto il mondo.
E’ una collaborazione di cui sono molto contento e per la quale sono grato al direttore Fabio Brenna e al giornalista e conduttore Marco Casa.
Ogni puntata resta una settimana sul sito della radio (cliccate su “Mercoledì”), ma qui sul mio “Taccuino” (o sul mio profilo SoundCloud) potete recuperarle tutte.
Buon ascolto.

In ordine di uscita:
- Antropologia, 11 novembre 2020
- Cultura, 18 novembre 2020
- Morte, 25 novembre 2020
- Identità, 2 dicembre 2020
- Parentela, 9 dicembre 2020
- Razza, 16 dicembre 2020
- Sacro, 23 dicembre 2020
- Rito, 30 dicembre 2020
- Dono, 13 gennaio 2021
- Altro, 20 gennaio 2021
- Colonialismo, 27 gennaio 2021
- Magia, 3 febbraio 2021
- …continua…
Tutta la playlist su SoundCloud:
In ordine alfabetico:
Altro, Antropologia, Colonialismo, Cultura, Dono, Identità, Magia, Morte, Parentela, Razza, Rito, Sacro, …continua…
Trascrizione dei lemmi, in ordine alfabetico:
ALTRO
Chi è l’altro? Com’è? Perché l’altro è come è? Cosa pensa l’altro? Perché fa quel che fa? Gli esseri umani si pongono da sempre queste domande e, dunque, da sempre tentano di rispondere in maniera convincente. Come abbiamo visto con i termini “Antropologia” e “Cultura”, è però solo da 150 anni che esiste una disciplina e un concetto, dunque anche una serie di metodi, per cercare quelle risposte. Inizialmente l’altro è il “diverso da me”, anzi “da noi”, come ad esempio chi non parla la nostra lingua, come i “barbari” dei greci, cioè i balbettanti la lingua greca. L’altro è lo straniero, a cui di volta in volta si attribuiscono qualità che ne indichino la differenza con noi, per cui è “selvaggio”, “primitivo”, “irrazionale”, “superstizioso”, “pagano”, “infedele” oppure, ad un estremo opposto, è “innocente”, “puro”, “incorrotto”, cioè un “buon selvaggio”.
In tutte queste declinazioni, l’altro è inteso come “diverso”, cioè difforme da quel che siamo noi, quindi c’è un termine di paragone che, implicitamente, costruisce una gerarchia. In termini antropologici, invece, si usa “altro” o “alterità”, perché questi termini non oppongono, non formano una relazione verticale e disequilibrata, ma sottolineano una relazione orizzontale. La sfumatura di senso non è sulla diversità, bensì su un’altra possibilità di stare al mondo, egualmente degna e ricca di storie e significati.
Evidentemente, anche noi siamo altro rispetto agli altri, anzi l’altro sono io. Questo passaggio aiuta a relativizzare lo sguardo, a frenare i giudizi e i pregiudizi, dunque aiuta ad assumere una postura di ascolto e alla costruzione di una reciproca comprensione. Dal diverso mi separano e distinguono molte cose, mentre con l’altro ho molte più somiglianze e cose in comune.
ANTROPOLOGIA
L’antropologia è un insieme di scienze piuttosto recente, ma le domande che si pone sono antichissime, probabilmente nate con l’umanità stessa. Il termine può riferirsi a due grandi settori: l’antropologia fisica o biologica e l’antropologia culturale o sociale. Secondo una definizione intuitiva, l’antropologia studia l’essere umano, ma ad una lettura più precisa, si occupa delle differenze tra i gruppi umani.
Perché gli altri sono come sono? Perché fanno quel che fanno? Perché sono così diversi da noi?
Queste sono domande che ci si pone da sempre, eppure solo nel 1871 vengono raggiunte le condizioni storiche e intellettuali per l’emergere di un concetto nuovo che aiutasse a rispondere, ossia la cultura. L’antropologia culturale ci dice che le diversità tra le società umane sono culturali. Il punto, dunque, è capire cosa sia la cultura, ma questo sarà oggetto di un’altra puntata. In questi 150 anni dalla pubblicazione di “Primitive culture” di Edward Burnett Taylor, dove per la prima volta si parla di cultura come bagaglio di conoscenze e non come titolo di studio, l’antropologia ha compiuto molti passi in avanti, attraversando anche delle crisi profonde nella seconda metà del Novecento. Oggi con gli strumenti antropologici proviamo a porci al di fuori della nostra stessa cultura, in modo da osservare l’altro senza pregiudizi o, almeno, limitandoli il più possibile. Gli esseri umani hanno grosso modo le stesse problematiche, ma elaborano soluzioni diverse. L’antropologia, dunque, offre un ventaglio di possibilità osservate nel tempo e nello spazio, per cui possiamo dire che è più di una scienza, perché è anche l’arte di immaginare l’esistenza, la convivenza, il futuro.
COLONIALISMO
Si tratta di una specifica forma di imperialismo in cui i territori annessi da una potenza dominante sono caratterizzati da uno status subordinato. Ciò significa che il “colonialismo” è anche l’ideologia che legittima la dominazione politica e lo sfruttamento economico di un territorio o di una nazione ad opera di uno stato straniero.
Il colonialismo è praticato fin dall’antichità, in cui esistevano varie forme di migrazioni accompagnate ad appropriazioni di territori: è successo nel Mediterraneo con fenici, greci e romani; è avvenuto in Nord-Africa con l’espansione araba e in tante altre zone del mondo, non di rado praticando anche la schiavitù. Ma il colonialismo a cui si fa riferimento in antropologia culturale è quello ottocentesco, sia perché la disciplina nacque in quel periodo, sia perché le dimensioni che assunse allora condizionarono e continuano a condizionare la filosofia e la politica, l’economia e la reciproca conoscenza tra i popoli.
A partire dalla fine del XV secolo, Spagna, Portogallo, Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda, Germania e anche Italia hanno progressivamente occupato altre regioni del mondo, spesso praticando genocidi ed etnocidi, fino a dominarlo quasi per intero tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo. Solo negli anni ’60, infatti, i movimenti di liberazione dei popoli sottomessi raggiunsero l’indipendenza politica. Questo è certamente un dato storico importantissimo, tuttavia da allora le instabilità locali sono esplose, spesso culminando in sanguinosissimi conflitti etnici.
Inizialmente, dunque, il termine colonialismo era neutro, perché descriveva una situazione di fatto, ma con il tempo è diventato carico di significato politico e teorico, in particolare con l’emergere degli “studi postcoloniali”, che si focalizzano sulla portata etico-politica, storico-sociale, psico-antropologica del colonialismo e del neocolonialismo.
CULTURA
Quello di cultura è un concetto complesso, che è mutato molto nel corso del tempo e che, ancora oggi, resta di difficile definizione.
Il suo significato moderno viene elaborato tra il XVIII e il XIX secolo, ma è nel 1871 che appare una definizione unitaria, quando sir Edward Burnett Tylor usa quel termine non come sinonimo di sapere, ma come bagaglio di conoscenze locali e di concezioni collettive. Per lui la cultura era un insieme di credenze, arte, morale, diritto. Questa versione, però, risente della sua epoca, dunque di idee positiviste ed evoluzioniste, infatti fa sembrare la cultura qualcosa di concreto e di immutabile, qualcosa che non si fa, ma che si riceve per il solo fatto di essere membro di un determinato gruppo umano.
Agli inizi del XX secolo, però, Franz Boas apre quel concetto e lo rende plurale: per lui esistono le culture, nel senso che ciascuna di esse è storica e dunque può cambiare.
Dopo profonde crisi e riflessioni, nella seconda metà del Novecento il concetto di cultura si apre ulteriormente e, a seconda degli studiosi, è una “rappresentazione”, un “discorso”, una “relazione”.
Quel che sappiamo oggi è che la cultura è un “processo storico” e “sociale”, dunque è qualcosa in continuo movimento e mutamento, qualcosa che in parte ci portiamo dietro e che dunque usiamo, ma che quotidianamente trasformiamo e, anzi, costruiamo e inventiamo nell’interazione con gli altri.
In altre parole, la cultura è un ibrido ricco di varianti e adattamenti, qualcosa che sfugge alle definizioni, sebbene in tanti provino a bloccarla dentro la loro visione di parte.
DONO
Uno degli argomenti più importanti nella storia dell’antropologia culturale è quello del “dono”, almeno a partire dal famoso studio che gli dedicò Marcel Mauss negli anni Venti del Novecento. Analizzando gli studi etnografici sull’anello Kula nel Pacifico e sul Potlatch lungo la costa occidentale del nord-America, Mauss teorizzò che il dono è possibile grazie ad una specie di etica elementare della reciprocità. Successivamente, Lévi-Strauss utilizzò queste basi per sviluppare la sua teoria dell’alleanza, con cui molti studiano le differenti forme di economia. In altri termini, il dono si basa su tre obblighi: dare, ricevere e contraccambiare, così creando dei rapporti non solo tra gli individui, ma anche tra i gruppi, e implicitamente riducendo il loro tasso di conflittualità.
In questa relazione è molto importante il contraccambiare, che è il passaggio in cui si esplicita il legame spirituale con il donatore. Nel ciclo del dono, cioè, entrano in gioco l’identità, lo status e il prestigio sociale.
Questo tipo di scambio esiste anche nella nostra parte di mondo, naturalmente, ma con un elemento in più che ne appesantisce il senso generale, ossia il mercato, che predomina nel nostro tipo di società e ne condiziona le dinamiche. Lo scambio dei doni esiste anche ad un livello simbolico, come nel caso del Natale, dell’Epifania o, perché no, di Halloween. In questi casi, i doni sono portati da entità misteriose, ultraterrene o dagli avi defunti. In cambio di un dolcetto o di una letterina si riceve un gioco, un gioiello o, per stare nella dimensione del simbolico, della saggezza.
IDENTITA’
In ambito sociale e culturale, l’identità è un ossimoro, sia perché presuppone che si sia “identici” in una comunità, dove invece si è chiaramente tutti diversi, sia perché è una costruzione collettiva sempre in divenire, e dunque votata al continuo cambiamento. A livello sociale, pertanto, “identità” si avvicina di più a “rassomiglianza” o a “similitudine”, quindi ha soprattutto una funzione di metafora, perché è un termine ampiamente interpretabile e tutt’altro che definito.
Come abbiamo già visto per il termine “etnia”, anche per “identità” il significato che gli vogliamo dare non ha un senso precostituito e inamovibile, altrimenti staremmo essenzializzando, cioè staremmo riducendo una complessità e imbalsamando una realtà dinamica.
L’identità non è un oggetto storico, ma è un oggetto mentale: è un’invenzione che può avere conseguenze storiche reali, ma è comunque qualcosa che vale solo qui e ora, è una rappresentazione che dipende da relazioni, reazioni e interazioni. L’identità è il collante che sentiamo ci tiene insieme in questo momento o che ci differenzia dagli altri, ma è impossibile da definire, anche perché nel momento in cui lo si fermasse, si trasformerebbe in una gabbia, dunque in un’aggressione, in una violenza.
L’identità è una ricerca senza fine, una necessità di equilibrio in un percorso – quale è la vita, e la vita collettiva in particolare – che è pieno di crisi e rotture, di deviazioni e ostacoli.
MAGIA
Quando proviamo a controllare le forze della natura attraverso un qualche sapere esoterico, facciamo magia. È qualcosa di razionale? È una truffa? Dipende da dove e quando ci posizioniamo.
La categoria “magia” è ampia perché vi rientrano tanti aspetti diversi, ma è anche mutevole, perché, a seconda dei periodi storici e delle varie società, è stata valutata in modi molto diversi, talvolta opposti, perché considerata come una forma di conoscenza superiore, oppure rifiutata come impostura e condannata dalle autorità.
Quel che è di particolare interesse per le scienze sociali è qualcosa che precede la magia, ossia il ‘pensiero magico’ e la struttura sociale che vi sottende. Il simbolismo, l’esoterismo, lo sciamanesimo, la veggenza e, appunto, la magia sono sistemi comunicativi collettivi di condivisione del sapere, oltre che strutture psichiche individuali. Sono tantissimi gli studi nel vasto campo delle magie e, tra i massimi contributi, vi sono quelli di Ernesto de Martino. Studiando la cosiddetta “bassa magia cerimoniale lucana”, cioè una forma di magia contadina degli abitanti di alcuni paesi della Basilicata tra gli anni ’40 e ’60, de Martino capì che le pratiche per affrontare la “fascinazione”, cioè per togliere il legame malevolo gettato sul malcapitato da un qualche potere negativo, erano innanzitutto un modo per resistere all’angoscia di una vita senza prospettive, erano una risposta collettiva alla fatica di vite dominate da subalternità, povertà e malattia.
Ci sono, naturalmente, maghi che vendono speranze impossibili, cialtroni che sfruttano il dolore, ma ci sono anche maghi che tengono insieme delle comunità fragili e fragilizzate, e lo fanno mescolando magia, religione, scienza e tecnologia. Non sono personaggi del passato, ma molto più attuali di quel che si immagini.
MORTE
La morte è il destino comune degli esseri umani, anzi di tutti gli esseri viventi. Gli umani sanno di dover morire e questo rende la morte un evento non solo biologico, ma culturale.
In effetti, il concetto di morte va declinato al plurale: non c’è solo la morte fisica, ma anche quella sociale e, quindi, politica, economica, lavorativa.
In questa pluralità ci sono le modalità con cui sopraggiunge la morte: ovviamente naturale per vecchiaia o malattia, per violenza assassina o per incidente, ma anche la morte eroica e quella vigliacca, quella per scelta (come suicidio o eutanasia), quella che si veste di giustizia perché decisa da un tribunale o da un potere.
Vi sono poi diversi tipi di morte in base all’entità: dall’ecocidio di determinati ecosistemi al genocidio di un’intera popolazione, fino all’etnocidio, che punta a cancellare una cultura.
La morte, però, è plurale anche in sé, nel senso che è un processo, come mostrano chiaramente le celebrazioni annuali dei trapassati o i vari rituali funebri che prevedono diversi livelli di separazione dal defunto. Per alcuni, questo può addirittura non avvenire mai, perché si continua a sognare i morti, a pregarli, a ritenerli presenti.
Quando questo processo si interrompe per qualche ragione, come ad esempio durante la quarantena decretata per far fronte alla pandemia, quel distacco può essere lacerante, dunque insostenibile; e questo significa che, come comunità nazionale, dovremo costruire prima o poi una celebrazione collettiva che, in qualche modo, ci aiuti a elaborare i tanti lutti che stiamo vivendo.
NATURA
Questo termine sembra il più lontano dall’ambito antropologico, infatti spesso natura e cultura sono citate in antitesi l’una all’altra, dal momento che è naturale ciò che si produce indipendentemente dall’azione umana, mentre è culturale quel che si produce GRAZIE all’azione umana. Tuttavia, dalla seconda metà del Novecento, e soprattutto in questi primi decenni del Duemila, lo sguardo antropologico sulla natura è cambiato e ci si è resi conto che tra le varie comunità umane – considerate nel tempo e nello spazio – esistono diverse concezioni della natura.
Per fare un esempio, il mio cane o il mio gatto non sono semplici animali, ma sono membri della mia famiglia, e, così facendo, attribuisco loro un carattere assimilabile a quello umano. Oppure l’albero che piantò mio nonno quando nacqui è molto più di un vegetale, perché è un legame quasi spirituale con lui che ormai non c’è più. Oppure consideriamo il paesaggio, che non è semplicemente una bella veduta, ma un pezzo della mia identità.
Per certi popoli dell’Amazonia o per gli aborigeni d’Australia, piante, animali e umani appartengono alla stessa specie, sebbene abbiano forme diverse. Per gli europei, invece, la natura è qualcosa di altro da sé, quindi da misurare e conquistare, per cui, soprattutto dal Seicento, è andato consolidandosi un atteggiamento gerarchico e antropocentrico che, purtroppo, ha spesso condotto ad abusi molto gravi. In altre società vi sono ulteriori sfumature; ad esempio, nella recente Costituzione dell’Equador, la Pachamama, cioè la Madre Terra, è un soggetto di diritto, ma in sempre più sistemi giuridici si stanno riconoscendo dei diritti agli animali e si istituiscono zone di tutela ambientale.
Questo ci aiuta a capire due caratteristiche della natura, osservata in modo antropologico: da un lato esistono diverse concezioni di natura, e dall’altro queste idee non sono fisse, ma mutevoli.
PARENTELA
La parentela è l’insieme dei legami che uniscono geneticamente o volontariamente un certo numero di individui. Il legame genetico riguarda la filiazione o la discendenza, mentre quello volontario si riferisce ad affiliazioni e alleanze. Essere parenti, dunque, è una qualifica essenzialmente relativa: dipende da cosa teniamo in considerazione.
Esistono diversi tipi di parentela: vi è quella classificatoria, in cui ci si fissa su un determinato ruolo (quello di padre, di madre, di fratello, di sposa…); vi è poi la parentela del sangue, in cui ci si unisce in un patto inalienabile (come accade in talune sette o organizzazioni ai margini della legalità) che, tuttavia, non necessariamente presuppone il versamento del sangue perché può anche bastare un rito simbolico, come nel caso del patronaggio e del comparatico.
A seconda del sistema di riferimento, cambia il tipo di parentela e la sua struttura. Possono esistere, ad esempio, l’endogamia, l’esogamia, il lignaggio per via paterna o materna, la filiazione unilineare o bilineare, il matrimonio eterosessuale o omosessuale, e così via.
L’atomo di parentela, come diceva Claude Lévi-Strauss, è una grande invenzione dell’umanità, è l’insieme dei legami di affinità necessari ad organizzare la vita collettiva del gruppo. Quindi nel tempo e nello spazio possiamo individuare innumerevoli forme di parentela, ciascuna delle quali ha ben poco di “naturale” e molto, invece, di “storico”, “sociale”, “politico” e, appunto, “culturale”.
RAZZA
Il termine “razza” ha una storia relativamente recente. Lo si trova usato a partire dal Cinquecento per indicare una discendenza, un lignaggio o gruppo di parentela. L’etimologia è abbastanza incerta: probabilmente dal latino (gene)ratio. Ma solo nel XIX secolo il termine ha assunto l’attuale significato – un gruppo umano caratterizzato da specificità sia somatiche sia intellettuali e comportamentali che si suppongono fondate biologicamente e trasmesse per via ereditaria.
Nell’Ottocento, cioè, si ritiene che le differenze culturali tra i gruppi umani affondino nella biologia e quindi, dalla biologia, gli scienziati sociali dell’epoca traggono il concetto di razza per “ordinare” le differenze umane in una gerarchia evolutiva che si ispira al darwinismo. Ciò presuppone almeno tre livelli di sviluppo: lo stadio “selvaggio”, quello “barbarico” e, in cima, lo stadio “civilizzato”, che naturalmente apparterrebbe ai popoli europei, ma neanche tutti, per la verità. Tecnicamente, questo è “razzismo scientifico”, cioè la scienza dell’epoca giustifica il dominio coloniale, lo sfruttamento schiavistico, la violenza dell’indrottinamento forzato, fino ai genocidi del Novecento.
Oggi le scienze sociali non usano più il termine “razza”, ma continua a sopravvivere a livello politico e sociale, talvolta nascosto dietro altre parole meno connotate, come “etnia” e “identità”, usate per categorizzare, stigmatizzare, inferiorizzare, ma anche segregare ed essenzializzare.
Le differenze tra gli esseri umani esistono, ma non sono biologiche, non sono razziali (al limite sono superficiali, come il colore dell’epidermide o il tipo di capelli e così via); le differenze tra gli umani sono invece storiche, economiche, sociali o, per usare un unico termine, sono diversità di potere.
RITO
La definizione stretta di rito è quella di un complesso di norme, prestabilite e vincolanti, che regola lo svolgimento di una cerimonia, che può essere religiosa o secolare. Il rito è un insieme di pratiche, azioni, formule, preghiere fissate da una tradizione scritta o orale, spesso utilizzate da una comunità per entrare in relazione con entità soprannaturali, come ad esempio i riti della Settimana Santa e le feste patronali per i cattolici, oppure il pellegrinaggio a La Mecca per i musulmani o, ancora, la festa di Sukkot per gli ebrei; oppure i riti hanno la funzione di ribadire il legame ad una specifica istituzione, come la festa della Repubblica italiana il 2 giugno o quella della Liberazione il 25 aprile.
Esistono innumerevoli forme e tipologie di riti, come i riti legati al ciclo della vita o al ciclo dell’anno. Tra i primi, per fare qualche esempio, ci sono il battesimo e il compleanno, il matrimonio e il funerale, mentre tra i secondi ci sono la festa patronale della propria città o il Capodanno, il Ferragosto, Halloween o Yom Kippur, Ramadan o il Kumbh Mela induista, o il 14 luglio francese.
La varietà di riti, però, è molto più ampia e, soprattutto nel corso dell’ultimo secolo, molti studiosi hanno proposto classificazioni sempre più precise, per cui oggi distinguiamo, ad esempio, tra riti di passaggio e riti di guarigione, riti di iniziazione e riti di fondazione. Oppure c’è chi analizza i riti apotropaici e i riti in emergenza, cioè l’insieme di pratiche messe in atto da chi attraversa una crisi profonda, come un disastro o, per stare all’attualità, una pandemia. In questo modo sono più comprensibili atti apparentemente irrazionali, come trasportare in processione la statua di un santo durante un’eruzione vulcanica o l’applauso dai balconi contro il coronavirus.
SACRO
Il significato originario del termine “sacro” è “separato”, cioè qualcosa da cui bisogna stare lontani perché straordinario e potente, ma che in certe declinazioni può significare anche maledetto o pericoloso. Il sacro non è una condizione spirituale o morale, ma è una qualità che riguarda la relazione che gli umani hanno con potenze che non possono essere dominate e che, dunque, sono ritenute superiori, per cui spesso la sacralità viene ulteriormente definita come “divina”. Sacri possono essere dei luoghi – come le chiese o i cimiteri – e dei tempi – come quello di una messa o, più ampiamente, quello di Natale. Sacre, però, sono anche delle parole, come quelle di una preghiera o una formula, oppure quelle scritte in determinati libri, che in questo caso diventano il fondamento di un’intera religione.
Secondo Rudolf Otto, agli inizi del Novecento, il carattere essenziale del sacro è il “numinoso”, ossia l’esperienza extra-razionale ed emozionale di una presenza invisibile e maestosa che ispira terrore, ma allo stesso tempo attira. Poco dopo, invece, per Emile Durkheim il sacro si caratterizza per l’opposizione al profano: sacro è tutto ciò che è diverso e superiore all’ordinario, il quale appunto appartiene alla sfera del “profano”. Tra sacro e profano non c’è nulla in comune, perché sono dimensioni radicalmente diverse e incommensurabili, incomparabili.
Il sacro non può mischiarsi al profano senza smettere di essere se stesso, per cui profanare il sacro significa privarlo dei suoi attributi costitutivi. Nonostante ciò, esistono forze ambigue, perché capaci di essere positive e negative, propizie e infauste, utili e pericolose. A volte, le stesse cose, sacre per alcune religioni, in altre sono ritenute impure o profane. Questo porta a distinguere tra puro e impuro, appunto, oppure a stabilire dei tabù o dei culti specifici.
SIMBOLO
Noi esseri umani siamo animali simbolici, cioè conviviamo perché condividiamo lo spazio della cultura, che è ampiamente organizzato e composto da immagini. Attraverso questi elementi, che formano la comunicazione, esprimiamo determinati contenuti. Un segno, un gesto, un oggetto o un’altra entità sono tutti simboli quando sono in grado di evocare un concetto diverso da quel che essi sono fisicamente. Ad esempio, la croce è il simbolo del Cristianesimo, il leone è il simbolo della forza, mentre la volpe rappresenta l’astuzia e così via.
Gli esseri umani, dunque, producono i simboli, comunicano con i simboli e pensano attraverso i simboli. È una caratteristica straordinaria della nostra specie, che ci permette di relazionarci, ma, com’è intuibile, anche di scontrarci. Bruciare una bandiera non è solo dare fuoco ad un pezzo di stoffa, ma in un certo senso è equiparabile ad una dichiarazione di guerra.
Nei simboli ci si identifica e per i simboli ci si può immolare. In nome di un simbolo ci si aggrega o disgrega, infatti perché un segno diventi simbolo è necessaria una condivisione sociale del suo significato. In altre parole, i simboli sono prodotti storici, perché valgono in un determinato tempo e in specifiche condizioni, ma anche perché hanno una loro vita più o meno longeva: il Vesuvio, ad esempio, è un simbolo dai molteplici significati che si stratificano da almeno 4 secoli, mentre la Tour Eiffel lo è da meno di un secolo e mezzo e Diego Maradona lo è stato per alcuni decenni, almeno per la comunità dei tifosi del calcio.
La disciplina che studia i simboli è la semiotica, ma le attiguità con l’antropologia sono molte, perché l’uso dei simboli è chiaramente legato all’attribuzione di senso, cioè alla costruzione di orizzonti comunitari e di visioni collettive.
TRADIZIONE
Pratiche, costumi, credenze, valori, conoscenze e comportamenti che si tramandano nel tempo, sono quel che chiamiamo “tradizione”. La “tradizione” è un filo che lega le generazioni tra passato e futuro, e che unisce la comunità nel presente. “Tradizione”, cioè, è quando ci si dice “Noi siamo quelli che fanno questa cosa da sempre”.
Ciò, in passato, ha causato vari fraintendimenti, infatti la parola “tradizione” talvolta è stata impiegata quasi come sinonimo di “cultura” e ancora oggi la si usa in determinati contesti, come ad esempio “tradizione popolare” o “tradizione orale” (cioè la “cultura folklorica”), oppure “tradizione istituzionale” (come le consuetudini e i rituali degli apparati del potere, politico, militare, religioso…). In realtà, è preferibile maneggiare con molta cautela il concetto di “tradizione”, perché non bisogna mai trascurare il rapporto tra persistenza e mutamento, anzi bisogna essere consapevoli che le tradizioni sono sempre “inventate” o “rivitalizzate” o “trasformate”, nel senso che sono prodotti umani, dunque storici.
La tradizione è una continua tensione tra nostalgia e innovazione. In alcuni momenti è una espressione rivoluzionaria e di contestazione al potere, mentre in altri è una forma reazionaria e di conservatorismo. Ciò significa che la “tradizione” è facilmente strumento di controversie politiche e di negoziazioni locali. La “tradizione”, cioè, può diventare un grimaldello identitario, dunque escludente, ma le tradizioni più longeve sono invece al contempo coerenti con la propria storia e abbastanza duttili da trasformarsi per includere nuovi membri e nuovi percorsi.