La “cultura della paura” si alimenta di se stessa e consolida l’élite al potere. In questo senso lo stragista che periodicamente si presenta nelle scuole, nei cinema, nei centri commerciali statunitensi è funzionale al mantenimento dello status quo. La paura è una forma di controllo sociale che entra in una spirale autogenerantesi, eppure distruttiva per la società stessa.
La paura sociale è il segno di una crisi del sistema; crea ansia e sospetto, acuisce la sorveglianza come nel Panopticon di Bentham, moltiplica la pressione e la vulnerabilità.
Si potrebbe fare una storia della fine delle civiltà partendo dal concetto di paura.
Invertire la tendenza e cambiare il percorso già avviato è difficile, numerose forze spingono in senso contrario: si ripete spesso che le armi fanno parte della “cultura americana”, come se si trattasse di un dato di natura; ma chi lo dice e perché? Una società avvolta nella paura – in questa paura che non è una strategia di sopravvivenza (quella “utile” che ci fa scappare quando ci troviamo davanti ad un pericolo) – è una società malata, a rischio implosione. Evidentemente, la sola possibilità di salvezza (per i singoli, come per il corpo sociale nel suo insieme) è nello spezzarne il movimento degenerativo, nell’immaginare e intraprendere un cammino diametralmente opposto a quello della paura.
E’ arduo da realizzare, certo, ma non da pensare, come d’altra parte molti e da tempo ripetono: vietare la vendita delle armi, innanzitutto, in vista di una proibizione della loro detenzione, come durante la tregua di un conflitto o nei processi di smilitarizzazione dei gruppi rivoluzionari o delle bande ribelli; organizzare una rete di sostegno clinico-psichico (il buon vecchio sistema sanitario pubblico) e far in modo che in una comunità sempre più frammentata e individuale si ritessino i legami sociali; alimentare l’accoglienza dell’altro e conoscerne la diversità, avere la pazienza di comprenderne la logica “incomprensibile” e rendersi disponibili a visioni alternative.
Si tratta di un mutamento epocale, o forse del recupero di “sogni americani” altri, oggi marginalizzati in un angolo buio dell’immaginario nazionale. D’altra parte, però, è su questo che si misurano i grandi politici. Se la paura è chiusura, il suo antidoto è l’apertura.
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Visualizzare il problema. Ecco alcuni grafici sulle armi negli Stati Uniti:
“Il Post”, 21 luglio 2012, QUI
Le armi negli Stati Uniti in 5 grafici
Da cui si scopre, ad esempio, che negli USA i civili sono più armati che dove c’è la guerra.
Gianni Riotta su “La Stampa” (15 dicembre 2012) ha scritto un editoriale dopo la strage nella scuola elementare di Newtown, Connecticut. Dopo una ricostruzione di ciò che si sa dell’eccidio, ha aggiunto una spiegazione che non mi convince:
«[…] Ma leggi strettissime sulle armi, consultori psichiatrici diffusi, «le riforme» che ieri notte da internet tanti invocavano dalla Casa Bianca, basterebbero a evitare che Newtown sia solo una nuova stazione della Via Crucis delle stragi? No: e le lacrime in diretta del presidente Obama testimoniano questa frustrazione, è tra noi una violenza che non sappiamo reprimere con il diritto e la polizia, non sappiamo sradicare con la psichiatria libera che sognavano i medici ribelli Cooper e Basaglia, non riusciamo a isolare con le comunità solidali. I credenti parlano del Maligno, della lotta che oppone il Bene e la Luce al Male e al Buio nella nostra vita e nel nostro destino. I laici propongono leggi e pianificazioni, ma infine avvertono un limite oscuro, drammatico, che la razionalità del diritto non sa oltrepassare e civilizzare: il male. […]»
Il male è un tema serio, evidentemente non si può ridurlo a categoria degli arresi e dei superstiziosi o ad ambito dell’irrazionalità e dell’incoerente. Ma, per carità, Riotta non fa questo tipo di banalizzazione, tuttavia si limita ad evocare il male senza definirlo. Si, certo, anche in questo caso è da specificare che forse il male non lo si può definire in maniera precisa ed univoca (o, comunque, si tratta di un notevole sforzo intellettuale ed emotivo, certamente non pensabile nello spazio ristretto di un articolo giornalistico), però nelle parole di Riotta avverto un sapore disfattista, qualcosa del tipo: “ogni sforzo è comunque inutile“. Non bisogna illudersi che la legge – così come un qualsiasi piano di emergenza, nell’ambito dei disastri, ad esempio – possa evitare il male, che venga dagli uomini o dalla natura. In ogni caso, però, la legge – e, per continuare il parallelo, la preparazione, la prevenzione, l’assistenza, la comunicazione – contribuiscono a limitare l’entità del dramma, abbassano la vulnerabilità e, in una certa misura, riducono la sofferenza.
Ma stasera non voglio essere severo con Riotta, ho semplicemente colto un punto del suo discorso in cui avvertivo un cedimento. La sua (più o meno) sfiducia è pienamente comprensibile: scrivere con l’angoscia nel cuore, sentendosi impotenti e incapaci di trovare una ragione in tanto dolore, è un lavoro ingrato.
“Internazionale”, 15 dicembre 2012, QUI
Venerdì c’è stato anche un attacco in una scuola elementare cinese
Un uomo di 36 anni ha aggredito 22 bambini e un adulto. Ma rispetto alla strage in Connecticut c’è una differenza fondamentale: nessuno è morto. Perché l’uomo aveva solo un coltello.
Chinese man attacks 22 children, 1 adult with knife outside primary school – NY Daily News
“Internazionale”, 17 dicembre 2012, QUI
L’UNICA LEGGE CHE SERVE
L’unica legge che servirebbe per mettere fine a stragi come quella avvenuta a Newtown è quella che probabilmente nessuno avrà il coraggio di scrivere e applicare: mettere al bando tutte le armi.
La maggior parte degli statunitensi ritiene antidemocratico il divieto di possedere un’arma. Forse è lecito. Ma, osservando i dati, la relazione tra detenzione di armi e tasso di omicidi commessi con un’arma da fuoco appare in tutta la sua chiarezza.
The gun control that works: no guns
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