L’insegnamento di un naufragio: cosa resta a Meta di Schettino e della Costa Concordia

La sera del 13 gennaio 2012 una nave immensa, con più di 4000 persone a bordo, colpì uno scoglio a pochissima distanza dal litorale dell’isola del Giglio, nel mar Tirreno toscano; alcuni minuti dopo, in seguito ad una manovra che alcuni giudicarono eroica, altri azzardata, altri ancora casuale, la nave da crociera Costa Concordia capitanata da Francesco Schettino si adagiò sul fianco destro, evitando l’affondamento completo. Morirono 32 persone e ci furono 110 feriti, nonché gravi conseguenze economiche e ambientali. L’altro giorno, il 12 maggio 2017, la Corte di Cassazione ha definitivamente condannato a 16 anni di galera il comandante. Probabilmente è stato il fatto italiano con più eco internazionale dopo il terremoto dell’Aquila; entrambi disastri. Quella tragedia è entrata immediatamente nell’immaginario collettivo («Sembrava il Titanic») e la sua dimensione simbolica ad un certo punto si è quasi imposta sui meri fatti di cronaca: quel meraviglioso gigante del mare – gioiello tecnico e di una certa estetica – è divenuto metafora di uno stupendo Paese in declino, governato da irresponsabili sfacciati e abitato da pavidi che – seduti in poltrona – urlano agli altri «Vada a bordo, cazzo!».
[Allegorie simili, però, sono state fatte anche all’estero per biasimare l’Unione Europea e l’euro o la politica francese, specie durante la presidenza Sarkozy, per fare qualche esempio].
Quel “come se” sarebbe poi tornato un anno e mezzo dopo, ma di segno diametralmente opposto, ossia quando le complesse e rischiose operazioni di parbuckling avrebbero raddrizzato la nave, in modo da permetterne il rimorchio fin nel porto di Voltri, a Genova: quel notevole intervento di risollevamento è stato un riscatto per l’immagine dell’Italia nel mondo, nonché – come commentò Aldo Grasso – «da un lato un’operazione mediatica grandiosa, ma dall’altro è stata soprattutto un’operazione che riguardava ciascuno di noi: era un’operazione attraverso la quale potevamo liberarci dello Schettino che è in noi».

Alcune vignette internazionali che prendono di mira il comandante Schettino.

Il trauma di un paese
Accanto ai fatti brevemente esposti, va aggiunto il paese di appartenenza del comandante Schettino, Meta, che è il centro di quanto voglio argomentare qui. Il comune della Penisola Sorrentina da allora è entrato in una sorta di limbo, in un tempo di latenza in cui sembra contemplare con stupore l’immensità di quanto accaduto, come se l’enorme scafo della Concordia si fosse arenato davanti alla sua marina e i morti fossero stati portati sulla grande spiaggia: un trauma da tragedia, certamente, ma in parte dovuto anche alla vergogna, che in pochi hanno saputo cogliere.
Specie nei giorni immediatamente successivi al naufragio, Meta fu presa d’assalto da media italiani e stranieri: microfoni e telecamere si aggirarono per i vicoli del centro alla ricerca di parenti, amici, vicini di casa del famigerato comandante («Il più odiato dagli italiani»), con la violenta invadenza di chi ha urgente bisogno di riempire il vuoto di una diretta televisiva pomeridiana. Pochi abitanti risposero alle domande, molti si sottrassero abbassando il capo e tirando dritto, alcuni difesero il loro concittadino. Ne passò un’immagine campanilstica di piccolo borgo chiuso in se stesso:

«Schettino torna a casa, il paese lo difende. Il parroco: lo stanno uccidendo» (qui)

«Il paese difende Schettino e l’assessore lo chiama eroe» (qui).

L’impressione diffusa fu di una protezione acritica, di un reticente a priori, ma la questione era decisamente più articolata: conoscendo la comunità locale, parlando con amici, ascoltando conversazioni al bar, intrattenendosi con i soci della gloriosa Casina dei Capitani, il quadro appariva più variegato, sebbene sempre all’interno di un approccio fortemente garantista nei confronti del concittadino imputato. La ragione di tale atteggiamento non andava individuata in uno sterile provincialismo, ma in una serie di piani identitari (individuali e collettivi: l’uomo, il comandante, la famiglia, la categoria, il paese) che si sono intrecciati e sovrapposti proprio in conseguenza del naufragio: dalla difesa corporativista a quella più utilitaristica:

«Noi gente di mare non meritiamo tutto questo fango che ci sta piovendo addosso» (qui),

«Dal giorno della tragedia, siamo ripiombati nel buio e nella paura. Una volta squalificati agli occhi del mondo, chi ci prenderà più a bordo di una nave? Chi ci affiderà più incarichi di responsabilità?» (qui);

dalla minimizzazione alla rivendicazione orgogliosa:

«Un incidente che poteva capitare a tutti» (qui),

«È una persona degnissima, purtroppo già tutti lo hanno condannato, ma nessuno dice che ha salvato oltre 4 mila persone» (qui).

A ritenersi esposto alla “gogna mediatica” è stato l’intero paese:

«L’accanimento mediatico su questo caso sta mettendo a dura prova la resistenza di una famiglia e di una comunità fortemente “stressate” da questo fulmine a ciel sereno che le ha colpite» (qui);

a sentirsi sul banco degli imputati è stata tutta la marineria metese e la sua storia:

«Meta di Sorrento e la penisola sorrentina hanno fornito da secoli alle flotte navali ufficiali e marinai di alto profilo professionale e di grande esperienza lavorativa» (qui).

Identificazioni concentriche
I marinai si sono identificati col comandante, il paese coi marinai; e il motivo di una tale equazione va ricercato nella storia di Meta, le cui testimonianze sono leggibili e visibili nella toponomastica come nell’orografia del territorio, nei palazzi storici come nelle chiese: dallo stemma comunale a quelli familiari sui portoni, dagli ex-voto pittorici alle targhe commemorative. Tutto racconta di mare e di quel che comporta il lavoro sul mare e col mare: fatica, creatività, ricchezza, tracollo, pericolo, solidarietà.
Messo in discussione da un evento così critico e denigratorio, il senso di appartenenza a Meta (e, in una certa misura, agli altri comuni della piana peninsulare: Piano di Sorrento, Sant’Agnello e Sorrento) si è sedimentato nel corso degli ultimi secoli, profondamente legati alla marineria, appunto: armatori, capitani, marinai, ingegneri navali, maestri d’ascia, cantieri di velieri, scuole nautiche, società di commercio transoceanico, agenzie di assicurazione marittima, associazioni di uomini di mare in pensione hanno il loro centro proprio a Meta. Gli incidenti in mare sono sempre accaduti e lo testimoniano ampiamente anche i quadri votivi conservati all’interno della basilica della Madonna del Lauro, ma il caso del capitano Francesco Schettino si distingue per un episodio: non essere rimasto a bordo fino alla fine, non essere stato l’ultimo ad abbandonare la nave. Quel “Capitan Codardo” con cui è stato indicato ovunque, perfino a Taiwan, è dunque innanzitutto una vergogna collettiva, una drammatica macchia all’interno di un’epopea fatta di acume e orgoglio, di onore e sacrificio. Fino alla sera del naufragio, questa narrazione veniva trasmessa e celebrata (a ragione, in tanti casi) come il percorso unico e luminoso di una comunità che si distingue da qualsiasi altra per essere riuscita – con il contributo di tutti i suoi membri – in successi straordinari su qualsiasi mare e in ogni oceano del pianeta. La fierezza e l’integrità dei comandanti e degli armatori sono sempre state raccontate come la faccia più scintillante di un’identità radicata nella solidarietà interclassista tra ricchi e poveri, tra colti e popolani, tra potenti e subalterni. Si tratta di una solidarietà organica che, per quanto organizzata gerarchicamente, ha permesso un’alta specializzazione dei saperi e una forte divisione del lavoro, ma che non ha frammentato il corpo sociale. Anzi, ufficiali e mozzi, artigiani di cantiere e cappellani erano considerati (e lo sono tutt’ora) membri di un unico equipaggio: un equipaggio “comunale”.
In quelle settimane post-incidente, la comunità metese difese innanzitutto se stessa dall’onta mondiale, tentando di riassorbire lo squarcio che, come sullo scafo dell’immensa nave da crociera, si era aperto nel tessuto identitario locale.

Schiacciate l’infame!
Adultere, traditori, disertori, apostati sono i meschini della storia; donne e uomini indegni e pericolosi, dunque da marchiare e allontanare. I concittadini di Schettino avrebbero potuto ripudiarlo per aver deturpato il lustro conquistato nel corso dei secoli dai lupi di mare metesi, invece lo hanno riaccolto perché il dramma ha coinvolto tutto il paese, tanto nella sua dimensione sociale e culturale, quanto in quella emotiva più profonda. Schettino non è stato assolto a prescindere, anzi ha scontentato molti per la sua viltà (che lui ha sempre negato), tuttavia nessuno ha mai dimenticato di trovarsi dinnanzi ad un uomo, non ad un feticcio del male: «Certo mi ha deluso, ma sono convinto che la sua è stata una reazione dettata dallo choc» (qui). Il paese si è sottratto innanzitutto alla costruzione del mostro: «Non mettiamo in dubbio che ha sbagliato, vogliamo difenderlo dai continui attacchi e dalla gogna mediatica di cui è ormai vittima» (qui).
Dunque, Schettino deriso e insultato ci può stare, ma accusato oltremisura no: è stato descritto come «ubriaco fradicio» e con «coca sui capelli», è stato sospettato di trafficare esseri umani e di essere un fedifrago. Tutte notizie non vere o, comunque, non attinenti al caso.
È, pertanto, in questo solco che va inteso il silenzio della Casina dei Capitani e di buona parte del paese: quello di una vicinanza umana in cui l’umiliazione e il turbamento sono stati sentimenti di tutti, quello della condivisione di una profonda crepa con cui la comunità metese e peninsulare dovrà continuare a fare i conti nel futuro, per assorbirla o rimuoverla, per nasconderla o guardarla in tutta la sua profondità.
A Meta, dopo cinque anni, l’altra sera la sentenza che ha definitivamente condannato Schettino a 16 anni di reclusione è stata accolta con sollievo e mestizia:

«Sono metese. E mi dispiace per Franco. Aperta e chiusa parentesi»;
«Che sia colpevole, nessun dubbio. Che NON sia il solo colpevole, nessun dubbio»;
«Purtroppo quando si assume il comando di una nave se ne assumono tutte le responsabilità ed anche se c’è stato chi lo ha aiutato a sbagliare, non ci poteva essere altro epilogo»;
«Come ai metesi tutti, spiace anche a me che lo conosco, ma era l’epilogo naturale delle cose»;
«Credo che la sentenza sia stata giusta, però, un po’ mi dispiace»;
«È triste umanamente che debba andare in galera ma non c’è altra possibilità per quello che ha combinato»;
«Giustizia è fatta… a metà».

(Questi commenti sono apparsi sulla mia timeline di Facebook, mentre altri – anche delle istituzioni locali – sono stati raccolti da “Metropolis”).

Perché coinvolta direttamente nel turbinio del tribunale mediatico, Meta ha compreso che il grido di Voltaire – «Schiacciate l’infame!» – non va rivolto ad un uomo, bensì al fanatismo, all’intolleranza, al giustizialismo. Ora non ci resta che verificare nel futuro quanto questa tragica storia – e, più di tutto, le sue 32 vittime causate dalla negligenza e dalla spavalderia – sarà stata interiorizzata nella comunità: quell’incidente e tutto ciò che ne è derivato, avranno insegnato empatia e cautela dinnanzi a tutti gli imputati, di qualsiasi processo? Sarà maturata la consapevolezza che la galera è sempre un’atrocità, anche per chi ha causato la morte di decine di innocenti? Avremo riconosciuto in noi stessi – noi, abitanti di quel posto e di quella storia – la fragilità, la viltà, il tradimento, le bugie, gli abbandoni, la propensione autoassolutoria, le nostre (ir)rimediabili leggerezze e i nostri (auto)inganni?

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INTEGRAZIONE del 16 maggio 2017:
Questo post è stato ripubblicato su “Corso Italia News“, di cui ringrazio il direttore Antonio Fienga.

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Studio il rapporto tra gli esseri umani e i loro luoghi, soprattutto quando si tratta di luoghi "a rischio"
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