US elections 2016: un contributo

Già politico di alto livello, la moglie (Hillary) di un ex-presidente (Bill) non ce l’ha fatta a diventare presidente. Aveva cominciato il percorso elettorale che sembrava dovesse sfidare il figlio e il fratello (Jeb) di due ex-presidenti (George H. W. e George W.), invece s’è trovata a confrontarsi con un impresario molto ricco (Donald), a sua volta figlio di un ricco imprenditore (Fred).
Non mi permetto di fare analisi su questo quadro tutto interno all’establishment statunitense, comunque lo si guardi, né sul risultato delle elezioni presidenziali e sulle prospettive geo-politiche, primo perché è troppo presto, secondo perché non ne sono in grado e, terzo, perché vedo che il settore è piuttosto affollato. Però vorrei aggiungere alla riflessione generale (all’analisi di gruppo, mi verrebbe da dire) due elementi che emergono osservando con sguardo antropologico.

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Un tweet pubblicato durante la #ElectionNight, mentre andava materializzandosi la presidenza di Trump.

Il primo, come ho lasciato intuire dal cappello introduttivo, è che la parentela e il lignaggio hanno giocato un ruolo di primo piano; e abbiamo talmente interiorizzato questa situazione che la diamo per scontata, è così “normale” che non la vediamo più. C’è anche qualcuno – scherzando, sì, ma fino a che punto? – che ha lanciato il nome della moglie (Michelle) del presidente uscente (Barack) per le elezioni del 2020. Vabbè. Comunque sia, dopo il trauma, nella fase di elaborazione della sconfitta, come si dice in Italia, bisognerà pur parlare delle dinasty, del familismo (e del familismo amorale) ai vertici della nazione più influente del pianeta, no? O pensiamo che riguardi solo la “arretrata” provincia italiana? Per quanto possiamo considerarli emancipati, Republicans e Democrats avrebbero molto da meditare – specie i perdenti – sul legame tra parentela e politico, tanto nel meccanismo istituzionale quanto nell’immaginario collettivo americano.

Il secondo elemento riguarda il peso e il discorso relativi alle appartenenze etniche, religiose, epidermiche, sessuali, nazionali… Per tutta la lunghissima campagna elettorale si è fatto un certo uso di tali concetti da parte dei candidati, degli staff e dei media: per assicurarsene il voto, era essenziale parlare ai/sui/dei/coi disabili (tra costoro c’è chi ha paura e chi no del risultato delle urne), latinos (in particolare messicani e cubani), blacks (che da tempo stanno urlando quanto valgano anche le loro vite), musulmani (moderati, solo i moderati, qualsiasi cosa significhi), ebrei (ma quelli liberal di Brooklyn o quelli ultraortodossi della Florida, che pare abbiano votato in maniera contrapposta?), donne (che tuttavia sembra siano rimaste piuttosto fredde verso la candidata femmina, nonostante l’indecoroso avversario maschio, molestatore e misogino, che sarebbe stato votato comunque da certe fasce sociali), omosessuali (pur partendo da posizioni avverse, il candidato conservatore ha tentato di aprire a questo segmento dell’elettorato)… Immagino che localmente si sia più o meno dialogato anche con amish, sioux, sette religiose e altre tribù metropolitane o rurali. Insomma, un Paese enorme di 300 milioni di abitanti è stato frammentato in appartenenze sempre più specifiche, ciascuna con una sua identità e con sue rivendicazioni e necessità. La vittoria elettorale di Donald, un vero e proprio “cigno nero”, ha poi esplicitato un ulteriore aspetto: negli ultimi due anni il trionfatore di ieri ha parlato esclusivamente ai whites, convincendoli. Si tratta di wasp (anzi, di wasp essenzialmente razzisti [1]), di confessione religiosa evangelica, ma anche cattolica, perché ora tra i “bianchi” fanno parte alcune minoranze di una volta, come gli italo-americani. I primi dati scorporati [2a] lo stanno confermando, ma stanno anche complicando il quadro: se considerate le fasce di reddito, tali elettori non sarebbero solo poveri o impoveriti, tutt’altro, perché parrebbero anche piuttosto ricchi [2b] (sulla condizione dell’ampiamente citata working class spero di leggere analisi più approfondite di quelle in circolazione, dal momento che negli ultimi anni negli USA il reddito è aumentato e la disoccupazione è ai minimi [2c]).

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Clicca sullo screenshot per accedere ad un articolo e video di “Wired” del 3 marzo 2016.

Sui libri di scienze sociali siamo abituati a leggere per categorie estese e diagonali: i ricchi e i poveri, appunto, la classe media e la borghesia, i subalterni e i senzatetto, gli immigrati e i disoccupati, i millennials e via dicendo. La realtà (etnografica, direi) è ben più articolata: ogni nazione (gli USA in particolare, ma tutte le nazioni nella propria specifica misura) è un patchwork, un’insalata, un melting-pot. Ribadisco che in Nord-America forse è più facile accorgersene, ma è così anche in Europa: in Francia molto, in Italia sempre di più.
Quando comincio un corso di antropologia culturale pongo sempre la seguente domanda al mio uditorio: «Voi a quale etnia appartenete?». E’ un quesito che mette in crisi: non lo sa nessuno, non lo sappiamo. Non ci siamo mai posti il problema, per due ragioni. La prima è che abbiamo interiorizzato l’idea (coloniale) di etnia come qualcosa che riguardi gli altri: per il nostro immaginario, ad esempio, in Africa le guerre sono sempre “etniche”; è lì che c’è l’etnia. Per descrivere noi stessi, invece, usiamo differenti parametri, almeno dal XVIII-XIX secolo: la nazionalità e la fede (siamo italiani e cristiani), al limite le “radici culturali”, qualsiasi cosa voglia dire (siamo francesi e discendenti dei Galli). La seconda motivazione è che chiunque appartenga all’etnia maggioritaria o al potere, generalmente non sa di aderire, appunto, ad una tra le svariate “tradizioni” esistenti, ad una specifica «unità di coscienza di specie», sia essa linguistica, religiosa, territoriale, memoriale. In altre parole, ha assimilato dei privilegi che lo portano a vedere il proprio mondo come “ovvio” e non sa, non sente di essere comunque una (fortunata) minoranza tra le altre.
A questo punto è essenziale specificare due fattori: innanzitutto non si appartiene mai ad un’unica “tribù”, bensì ad una pluralità di identità da “indossare” a seconda dei casi, delle esigenze e dei momenti (due esempi: uno pro e l’altro contro Trump); in secondo luogo le etnie sono in larga parte un’invenzione dinamica e mutevole, una costruzione storica, un’elaborazione collettiva, talvolta un’arma di potere, specie quando le si vuole cristallizzare (qui, qui e qui). Un discorso simile comincia ad essere fatto anche per altre appartenenze, come quella di genere o epidermica: cosa distingue – realmente – maschi e femmine? credete sia una semplice questione anatomica? guardatevi intorno, non è così (tra l’altro, è assodato che il cervello funzioni come un mosaico maschile e femminile). Inoltre, in merito al colore della pelle, sapreste dire se Obama è nero, mulatto o bianco? direste “meticcio”, giusto? perfetto, ma allora perché passerà alla storia come «il primo presidente nero degli USA»? evidentemente per delle scelte e non per dei “dati di natura”.
Insomma, affrontare argomenti del genere significa posizionarsi: rispondere a tali quesiti implica il situarsi moralmente, geograficamente, politicamente, storicamente.

Le etnie e tutte le ulteriori forme di appartenenza/differenziazione esistono, continueranno ad esistere e ad essere prodotte/governate, per cui può essere utile porsi delle domande: parlarne significa averne cura o essenzializzarle? al contempo, non parlarne significa affrancarsi dal particolare o ignorare le sfumature? Talvolta sulle culture si manifesta un eccesso di attenzione, anzi una morbosità, com’è evidente spesso dai titoli di giornale, dimenticando che ad incontrarsi e/o a scontrarsi sono prima di tutto le persone, gli individui. Altre volte trascurare i dettagli, specie se il proprio sguardo è concentrato solo su una parte del poliedro sociale, è una manifestazione piuttosto chiara di volontà escludente, dunque di pensiero razzista.
La retorica politica vuole che l’elettore valuti in base al programma dei candidati, invece l’esperienza ci dice che il voto è frequentemente non conscio e non razionale, fondato, piuttosto, su lealtà tra individui e gruppi: si vota, cioè, per corporazioni (ampiamente intese) raramente trasversali. Spesso ciò è dovuto alle condizioni socio-economiche, che sono anch’esse per “blocchi sociali”, infatti la discriminazione e la marginalizzazione su base etnica sono ancora oggi realtà concrete negli Stati Uniti: un bambino afro-americano ha tre volte più possibilità di vivere in povertà di un bambino caucasico; le famiglie degli amerindi e degli ispanici corrono il rischio di vivere in povertà più di quelle caucasiche e asiatiche; il tasso di disoccupazione degli afro-americani è generalmente doppio a quello dei caucasici e, comunque, quando lavorano guadagnano in media un salario che è il 72% di quello di un caucasico e l’85% di quello di una caucasica; le probabilità di avere un mutuo a tasso alto variano in base all’etnia (53% per gli afro-americani, 43% per i latini, 18% per i caucasici).

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Letture post-elettorali, 9 novembre 2016.

Il discorso potrebbe continuare a lungo, ma è necessario arrivare ad una conclusione, sebbene parziale e temporanea. Osservare l’altro permette di comprendere qualcosa in più su se stessi, così le elezioni statunitensi possono aiutarci a capire qualcosa su di noi, sulla complessità della società italiana attuale, sul dominio dello storytelling in politica (sull’appartenere al sistema o sul definirsi outsider e “contro”), sull’impalpabilità degli umori, che infatti i sondaggi non riescono ad intercettare e comprendere, al contrario della “etnografia”. Soprattutto, però, ci mostrano l’influenza delle disuguaglianze e delle ghettizzazioni che, lungi dall’essere eliminate, producono alterità solo superficialmente “etniche” o “di genere”.
Senza considerare il piano economico, che aumenterebbe in modo esponenziale l’elenco, in Italia contano svariati tipi di diversità: storiche, come quella tra le singole regioni e, più ampiamente, tra Nord e Sud; geografiche, come quella tra città e campagna e tra pianura, costa e montagna; tradizionali, come quella di alcune comunità religiose (spesso orgogliosamente “non integrate”) e delle minoranze linguistiche (che, si badi, il nostro ordinamento non definisce “etniche”). Sempre più influenti sull’equilibrio generale e sul piano politico, però, sono differenze nuove, come quelle dei migranti (categoria assai generica, lo so) e delle seconde generazioni (che rivendicano un diritto di cittadinanza: qui e qui), nonché quelle delle famiglie non tradizionali (qui, qui e qui) o dei (semi)nomadi, fino a giungere ad un tipo di diversità prettamente contemporanea e sociale, quella del crescente universo antiparapseudo-scientifico, neopagano ed ecoreligioso. Come tutte le diversità, anche queste sono in perenne compimento e, per la molteplicità di prospettive e di visioni, rappresentano una ricchezza per chi vive questa terra in questo tempo. Eppure le differenze non dipendono solo dalla relazione (tra individui, tra ceti, tra lavori e lavoratori, tra etnie), ma anche dalla gerarchia (in base al ruolo sociale ricoperto da ciascuno, dall’accesso all’informazione e al fare informazione, dalla rappresentanza politica e così via). Queste asimmetrie possono essere accentuate o attenuate: ed è sulla capacità di generare equità – più che uguaglianza – che vanno giudicati i governi.

Per concludere e tornare all’attualità, se dovessimo considerare la campagna elettorale come una premessa di quel che sarà l’amministrazione di Washington nei prossimi quattro anni [3], Donald Trump – 45° Presidente degli Stati Uniti d’America – non lascia presagire nulla di buono sul piano socio-antropologico [4], nonché su quello scientifico ed ecologico (sulle questioni diplomatiche, militari, geo-politiche, macroeconomiche e lavorative non saprei, perché forse l’incognita è ancora maggiore).

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Screenshot del mensile messicano “Letras libres” con la copertina del numero di ottobre 2016, intitolata “Fascista americano”. Clicca per accedervi.

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Note:

[1] Il Ku Klux Klan ha annunciato che il 3 dicembre 2016 terrà a Pelham, in North Carolina, una “victory klavalkade Klan parade”, cioè una “parata per la vittoria” di Donald Trump alla Casa Bianca. Il motto scelto è «Trump’s race united my people», dove il termine “race” significa sia “razza” che “corsa” (e si noti che le iniziali delle parole dello slogan formano l’acronimo TRUMP, appunto). Va specificato che sul website ufficiale del gruppo non c’è più traccia dell’annuncio, che tuttavia è leggibile in questa riproduzione dell’hompage. (Un articolo in italiano è qui).

[2a] L’11 novembre 2016 Angelo Romano e Andrea Zitelli hanno pubblicato su “Valigia Blu” un lungo articolo zeppo di dati sulle elezioni presidenziali: “Trionfo Trump: cosa ci dicono i dati e le prime analisi“. Il pezzo era stato annunciato il giorno prima su Fb da Arianna Ciccone con le seguenti parole: «1) La rivoluzione, il ciclone Trump non c’è stato. I repubblicani votano il loro candidato senza farsi tanti problemi. Non come i democratici che sono un tantino più esigenti. Qui Dino Amenduni lo aveva spiegato bene riprendendo una analisi di Lakoff. 2) I voti per Trump da parte dei repubblicani sono arrivati. Dai primi dati sono comunque meno rispetto ai precedenti candidati presidenziali repubblicani Romney 2012 – che ha perso contro Obama – e McCain 2008. Rispetto a Romney, Trump ha perso oltre un milione di voti (qui). 3) I voti dei democratici, invece a quanto pare, non sono arrivati. Clinton ha perso per strada tanti voti (quasi 6 milioni in meno rispetto ad Obama 2012), dunque sembrerebbe più una sconfitta del candidato democratico che una vittoria di Trump. Questo in base ai dati provvisori. Da considerare poi dato astensione molto alto (in base agli ultimi dati quasi la metà degli aventi diritto al voto è rimasta a casa). 4) Trump vince il collegio elettorale, ma Clinton vince il voto popolare. In assoluto avrebbe lei preso più voti di Trump. La maggior parte di chi ha votato ha votato per lei. Cosa interessante perché il populista Trump, quello che emoziona e parla alla pancia perde sul voto popolare contro la razionale, ragionevole e anche un po’ pallosa Clinton. Da notare che il populista Trump prende anche meno voti in totale rispetto al non-populista Romney 2012 (qui). 5) Dopo 8 anni di democratici la gente cambia. In USA è quasi sempre così (ed è un bene democratico l’alternanza, i cittadini ne hanno bisogno altrimenti una parte rimane carica di frustrazione. Potremmo definirla “felicità psichica” degli elettori)».

[2b] [Nota aggiunta il 14 novembre 2016] Valentina Fulginiti, docente di Studi Romanzi alla Cornell University di Ithaca, nello stato di New York, ha scritto su “Giap”, il blog del collettivo Wu Ming, a proposito dei miti sul voto “popolare” (della working class) a Trump e quanto tali “fraintendimenti” rappresentino una narrazione tossica: «Quanti sanno che Trump è stato votato da una netta – anche più netta che in passato – minoranza della società americana, e la fascia di reddito dove ha ottenuto il miglior risultato è quella dai 250.000 dollari all’anno in su? A quanto pare, pochissimi».

[2c] [Nota aggiunta il 14 novembre 2016] Nella sua ultima newsletter di questa tornata elettorale americana, Francesco Costa ha scritto: «è improprio dire che in generale [Trump] sia andato fortissimo tra i bianchi. Il dato nazionale inganna. Trump è andato fortissimo tra i bianchi nei posti in cui gli serviva andare fortissimo tra i bianchi. Clinton è andata bene tra i latinoamericani e gli afroamericani ma non quanto e dove le sarebbe servito per vincere». Per completezza, aggiungo il link ad un articolo di Luca Sofri in cui viene spiegato che “l’America di Trump” (come “l’America di Clinton”) non esiste e che, numericamente, tutto è stato deciso da 107mila elettori, cioè dallo 0,05% degli americani.

[3] Intervistata alla BBC, la scrittrice nigeriana Chimamanda Adichie si è rivolta ai sostenitori di Trump per spiegare che: «If you’re a white man, you don’t get to define what racism is». Poi ha aggiunto: «The only way we can judge the kind of president he will be is based on the campaign that he ran».

[4] Traduco un brano dell’articolo linkato, “Universities Need Anthropology Now, More Than Ever” (di George Leader, “American Anthropological Association”, 20 ottobre 2016): «[…] Suggerire una struttura fisica, come un muro lungo il confine messicano, o una struttura simbolica, come una registrazione per tutti i musulmani americani, non è minimamente vicino ad affrontare le cause alla radice dei problemi. Sono soluzioni (e anche questo è discutibile) portate avanti da una mente del tutto ignorante e indisposta a fare un semplice passo: capire gli altri. […] Dobbiamo educare la nostra prossima generazione di imprenditori, medici, infermieri, ingegneri e tutti coloro che sono in carriera, verso una visione del mondo che non sia limitata, ma consapevole. L’antropologia dovrebbe essere parte integrante della formazione dei responsabili politici e le forze dell’ordine […]».

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AGGIORNAMENTO del 23 novembre 2016:
Leggo da “Il Post” che Bernie Sanders, ex candidato Democratico alla presidenza americana, durante un comizio tenuto domenica a Boston «ha parlato a lungo di come il suo partito debba superare la “politica indentitaria”, e in un passaggio ha criticato implicitamente la campagna elettorale di Hillary Clinton», con le seguenti parole:

«Il punto è questo, e credo che causerà delle divisioni all’interno del Partito Democratico. Dire “sono una donna, votate per me!” non è abbastanza. No, non è abbastanza. Abbiamo bisogno di una donna che abbia il fegato per affrontare [i finanzieri di] Wall Street, le compagnie assicurative, le aziende farmaceutiche, il business dei combustibili fossili. In altre parole, uno degli sforzi a cui assisteremo all’interno del Partito sarà capire se riusciremo o meno a superare la politica identitaria. Credo che per l’America sarà un grosso passo avanti avere un afroamericano a capo di una grande azienda».

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Studio il rapporto tra gli esseri umani e i loro luoghi, soprattutto quando si tratta di luoghi "a rischio"
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