Il 23 gennaio 2015 gli antropologi biologici dell’Istituto italiano di antropologia (Isita) e gli antropologi culturali dell’Associazione nazionale universitaria antropologi culturali (Anuac) hanno chiesto l’abolizione del termine «razza» dalla Costituzione, in una giornata di studi tenuta presso l’Università La Sapienza di Roma.
Tra i relatori dell’incontro: Giovanni Destro Bisol, Pier Giorgio Solinas, Anna Maria Rivera.
Il deputato del Pd Michele Anzaldi ha chiesto al governo di recepire la proposta, cui hanno aderito il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche Renzo Gattegna e il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni.

Illustrazione di Massimo Caccia.
Il 1° febbraio ne hanno scritto su “La Lettura” del “CorSera” anche Adriano Favole e Stefano Allovio:
RAZZA. UN’INVENZIONE NEFASTA SENZA VALORE SCIENTIFICO. «ABOLIAMO IL TERMINE»
La proposta degli antropologi: eliminare la parola dal testo della Costituzione perché alimenta ancora suggestioni pericolose.
di Adriano Favole e Stefano Allovio
Il concetto di «razza» non ha più alcun valore scientifico per lo studio dell’essere umano: né per l’antropologia fisica o biologica né per l’antropologia culturale. Non solo le differenze fisiche più o meno evidenti (colore della pelle, statura, forma cranica) non hanno relazione con le capacità cognitive, i comportamenti sociali e le qualità morali — e questo è assodato da molto tempo; ma gran parte delle differenze genetiche interindividuali si osservano già all’interno delle singole popolazioni. Il progresso delle scienze biologiche ha di fatto spazzato via i ripetuti ordini tassonomici, basati sulla variabilità morfologica dell’umanità, che dalla fine del Seicento avevano contribuito a fornire autorevolezza scientifica al termine «razza» quale sostituto del termine «varietà» adottato dallo scienziato Linneo (Gianfranco Biondi, Olga Rickards, L’errore della razza, Carocci, 2011).
Da decenni, antropologi e genetisti non smettono di ricordarci che gli esseri umani condividono il 99,9% del patrimonio genetico e che il restante 0,1% non rimanda necessariamente a distinzioni discrete e misurabili fra popolazioni; coloro che studiano il patrimonio genetico degli esseri umani indagano la variazione statistica di singoli gruppi di geni, una prospettiva in cui la nozione «classificatoria» di razza non ha più diritto di cittadinanza.
Allo stesso modo, le differenze e le somiglianze tra le società umane che sono al centro degli interessi degli antropologi culturali, sono, per l’appunto, di ordine culturale, legate cioè a conoscenze e pratiche «acquisite dall’uomo in quanto membro di una società», per evocare la celebre definizione di «cultura» che Edward Tylor (un quacchero inglese che per primo insegnò l’antropologia sociale a Oxford) diede già nel 1871 con il libro Primitive Culture. Se la razza è stata l’indubbia protagonista delle grandi tragedie del XX secolo, la scoperta di quanto sia importante la cultura nella fabbricazione dell’essere umano (dalla definizione del genere alla strutturazione delle emozioni) è una delle maggiori rivoluzioni scientifiche dello stesso secolo breve. A questa rivoluzione hanno contribuito in modo decisivo gli antropologi culturali — da Franz Boas a Claude Lévi-Strauss — che favorirono non poco la revisione radicale del paradigma razziologico (F. Boas, L’uomo primitivo, Laterza, 1972; C. Lévi-Strauss, Razza e storia. Razza e cultura, Einaudi, 2002).
È perlomeno curioso notare che il termine «razza» viene utilizzato in ambito zoologico solo in riferimento ad animali addomesticati (cani, mucche da latte o da carne ecc.), che sono il frutto di selezioni genetiche operate dall’uomo: per gli animali non addomesticati si parla invece di sottospecie. Concetto inventato e oggi irrilevante nello studio dell’uomo, «razza» indica così nel campo animale solo i frutti ibridi di fabbricazioni artificiali.
Scomparsa (o quasi) dalla scienza, la nozione di razza è purtroppo ben presente nell’immaginario collettivo e spesso nella retorica politica, dove serve tuttora da strumento di stigmatizzazione della diversità culturale. Gli effetti distruttivi dello tsunami otto e novecentesco della razza non hanno finito di far sentire i loro nefasti effetti. È per questo che un gruppo di antropologi fisici e culturali, stimolati dalla proposta di abolizione del termine «razza» dalla Costituzione italiana avanzata da Gianfranco Biondi e Olga Rickards attraverso una lettera aperta alle più alte cariche dello Stato (www.scienzainrete.it), si sono recentemente confrontati e hanno convenuto sulla necessità di eliminare tale termine dalla Carta fondamentale e dai documenti amministrativi. Come è noto l’articolo 3 della Costituzione recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Con tutta evidenza, i costituenti citarono la razza per ragioni antidiscriminatorie, in un’epoca in cui essa, tuttavia, aveva ancora una certa vitalità scientifica. Se oggi questa è venuta meno, non sarà il caso di seguire l’esempio della Francia, la cui Assemblea nazionale ha approvato nel 2014 la proposta di eliminazione del termine dalla Costituzione e da ogni documento pubblico?
L’operazione, a parere di chi scrive assai improbabile nel clima politico attuale, sarebbe simbolicamente molto forte come presa di posizione contro ogni forma di razzismo, xenofobia e discriminazione. Essa presenta alcuni rischi e molti vantaggi. Tra le critiche che si potrebbero portare vi è quella di chi teme un semplice maquillage: abolire il termine «razza» non significa certo abolire il razzismo. La discriminazione verso piccoli o grandi gruppi di individui ha preceduto storicamente l’invenzione scientifica della razza e persiste nell’epoca post razziale: termini come «etnia», «religione» e persino «cultura» sono a volte usati strumentalmente a fini discriminatori. Si può negare l’esistenza delle razze e attribuire comportamenti criminali all’appartenenza culturale o alla fede religiosa (come è comune di questi tempi), consapevoli del fatto — più volte rimarcato nei suoi scritti da Anna Maria Rivera (Regole e roghi. Metamorfosi del razzismo, Dedalo, 2009) — che qualunque gruppo umano può essere «razzializzato» per mezzo di uno stigma che si costruisce in termini sociali, culturali e simbolici. L’antisemitismo è un caso paradigmatico.
Da un punto di vista strettamente giuridico si potrebbe obiettare che i principi affermati dalla Costituzione sono anche oggi pienamente condivisibili e che, se si tocca il termine «razza», occorrerebbe allora riflettere anche sull’uso di «sesso» (a cui molti preferirebbero «genere»), sulle discriminazioni che avvengono in base all’orientamento sessuale e così via. La Costituzione esprime valori comuni persistenti, ma è ovviamente un prodotto storico: eliminare la «razza» vorrebbe aprire un dibattito ben più ampio.
I motivi a favore dell’abolizione costituzionale del termine «razza» sarebbero tuttavia molteplici e giustificano pienamente l’ambiziosa proposta degli antropologi. Basterebbe ancora una volta ricordare che, dal punto di vista genetico, la razza è un’invenzione (Guido Barbujani, L’invenzione delle razze, Bompiani, 2006), un’invenzione terribilmente pericolosa che sedimenta un potenziale discriminatorio e violento così forte (per la storia che il termine ha avuto in Occidente e altrove) da poter essere facilmente riattualizzato. L’ondata retorica di razzismo biologico che, poco più di un anno fa, si scatenò in Italia e in Francia contro le ministre Kyenge e Taubira ne è una dimostrazione eloquente. Inoltre, la forza simbolica dell’operazione potrebbe dare sostegno a un’azione culturale e formativa sui reali motivi delle differenze e somiglianze tra società e culture. È infatti veramente sorprendente l’assenza di insegnamenti di ambito interculturale nei corsi curricolari della scuola italiana, dal momento che, attorno a questi temi, ruotano alcune delle maggiori questioni del mondo contemporaneo. Se il pregiudizio è un virus che può innestarsi su molteplici vettori (anche di tipo culturale), è indubbio che la razza è uno dei più potenti.
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Com’è scritto anche nell’articolo, in Francia la parola “race” è stata eliminata dalla Constitution nel 2014, ma l’iter è cominciato nel maggio 2013: Le Monde, La Stampa, Frontiere News.
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INTEGRAZIONE del 9 febbraio 2015:
A commento dell’assoluzione, da parte di una Giunta parlamentare, degli insulti razzisti rivolti dal vicepresidente del Senato Roberto Calderoli all’allora Ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge, l’antropologa Annamaria Rivera ha scritto questo articolo:
«Nel corso del 2013 abbiamo assistito al ritorno della “razza” […] Sarebbe stato ovvio che le istituzioni repubblicane stigmatizzassero, almeno ex post, una tale barbarie […]. E invece no […]. Ora il Pd sembra pentito e cerca di ribaltare quel voto indecente. Cosa che – è quasi certo – non avverrà: il voto segreto permetterà agli “ascari” del Pd di salvare Calderoli ancora una volta e definitivamente» (qui o qui).
Sul “Taccuino” ci sono alcuni post su questo argomento: 1) cosa successe, 2) una raccolta di commenti di allora.
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INTEGRAZIONE dell’8 marzo 2015:
Annamaria Rivera ha pubblicato sul “Corriere delle Migrazioni” un piccolo breviario intitolato “Del parlar male, anche a sinistra“, a proposito dell’uso – talvolta inconsapevole, talaltra strumentale – di particolari parole o espressioni che producono razzismo, il quale, come si sa, “poggia su una montagna costituita anche da cattive parole“.
Tra i commenti degli internauti ne segnalo alcuni davvero notevoli (per incapacità cognitiva). Li copio da “La Lettura” del “CorSera”, ma il primo viene da un noto “webjournal” xenofobo di Imola:
“Corriere delle Migrazioni”, 8 marzo 2015, QUI
DEL PARLAR MALE, ANCHE A SINISTRA
di Annamaria Rivera
Per ciò che riguarda migrazioni e diritti dei migranti, razzismo e antirazzismo, il discorso pubblico italiano, anche nelle sue varianti non-razziste, spesso sembra atteggiarsi come se ogni volta fosse la prima volta: gli antefatti e lo sviluppo di questo o quell’accadimento, questo o quel problema, questa o quella rivendicazione, questo o quel concetto sono semplicemente rimossi.
Una tale smemoratezza non riguarda solo le retoriche pubbliche maggioritarie, ma talvolta influenza l’atteggiamento e il discorso delle minoranze attive, riflettendosi anche nel linguaggio e nel lessico, influenzati dalla vulgata mediatica e perfino dal gergo del senso comune.
Mentre li credevamo archiviati grazie a un lungo lavoro critico, tornano in auge formule e vocaboli legati a schemi interpretativi, anche spontanei, del tutto infondati. Non potendo farne l’intero catalogo, ci soffermiamo solo su alcuni.
Razza-razziale
Il razzismo è anzitutto un’ideologia, quindi una semantica: è costituito da parole, nozioni, concetti. Sicché l’analisi critica, la decostruzione e la denuncia del sistema-razzismo hanno obbligatoriamente un versante lessicale e semantico. Così se tu parli di discriminazione razziale, invece che razzista, puoi finire inconsapevolmente per legittimare la nozione e il paradigma della razza, suggerendo l’idea che a essere discriminate siano persone differenti per ‘razza’.
A incorrere in sbavature lessicali di tal genere possono essere anche locutori antirazzisti, per di più colti; perfino istituzioni e associazioni deputate a contrastare il razzismo o addirittura a promuovere il rispetto di codici deontologici nel campo dell’informazione. Questo appare oggi tanto più paradossale se si pensa che pure in Italia, per iniziativa di un gruppo di antropologi-biologi, poi anche di antropologi culturali, è in corso una campagna per la cancellazione di ‘razza’ dalla Costituzione e dai codici .
Etnia-etnico
Frequente, anche in ambienti antirazzisti, è l’abuso di locuzioni quali ‘società multietnica’, ‘quartiere multietnico’, ‘corteo multietnico’… Sebbene qui usate in senso intenzionalmente positivo, formule di tal genere rinviano pur sempre a ‘etnia’: una nozione assai controversa, poiché basata sull’idea che esistano gruppi umani fondati su qualche principio ancestrale, su qualche identità originaria (Cfr R. Gallissot, M. Kilani, A. Rivera, L’imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari 2012).
Nei contesti discorsivi mainstream, ‘etnici’ sono sempre gli altri, i gruppi considerati particolari e differenti dalla società maggioritaria, ritenuta normale, generale, universale. Non è raro che ‘etnia’ sia adoperata, in riferimento alle minoranze, ai rom, alle popolazioni di origine immigrata, come sostituto eufemistico di ‘razza’. Tanto che perfino nella cronaca della migliore stampa italiana è possibile imbattersi in locuzioni paradossali quali individui di etnia latinoamericana o addirittura di etnia cinese; mentre mai ci è capitato di leggere di etnia europea o di etnia nordamericana.
In ogni caso, che sia per pregiudizio o intento discriminatorio, per incompetenza o sciatteria, quando si tratta di qualificare cittadine/i di origine immigrata o appartenenti a minoranze sembra non valere il criterio neutro, o almeno simmetrico, della nazionalità.
Guerra tra poveri
E’ una delle retoriche più abusate, anche a sinistra, perfino in quella che si pretende colta. Di solito la si adopera in riferimento a due categorie di presunti belligeranti, immaginati come simmetrici, una delle quali è costituita da qualche collettività di migranti o di rom.
L’abuso di questa formula è indizio di un tabù o di una rimozione: si ha difficoltà ad ammettere che il razzismo possa allignare tra le classi subalterne, così da scatenare guerre contro i più poveri. Guerre asimmetriche, non solo perché di solito gli aggressori sono i nazionali, ma anche perché essi, per quanto disagiati possano essere, godono pur sempre del piccolo privilegio della cittadinanza italiana, che conferisce loro qualche diritto in più.
Un tale razzismo – che nella letteratura sociologica è detto “ordinario” o “dei piccoli bianchi” – spesso attecchisce tra coloro che patiscono qualche forma di disagio sociale e/o di marginalità anche spaziale. Favorito da dissennate politiche abitative, urbanistiche, più in generale sociali, spesso è anche fomentato ad arte dagli imprenditori politici del razzismo.
A volte, la formula passe-partout di ‘guerra tra poveri’ non ha la minima base che ne giustifichi l’utilizzo, come nel caso dei ripetuti assalti armati al Centro per rifugiati di Viale Morandi, nel sobborgo romano di Tor Sapienza, a novembre del 2014. Il tentato pogrom contro adolescenti fuggiti da guerre e altre catastrofi fu spacciato come espressione spontanea della rabbia dei residenti esasperati dal ‘degrado’, quindi come un episodio della ‘guerra tra poveri’ . In realtà, a dirigere gli assalti, cui partecipò un numero di residenti limitato, fu una squadraccia di ‘fascisti del Terzo Millennio’, a loro volta probabili esecutori, di mandanti legati a Mafia Capitale.
Poco tempo prima, di ‘guerra tra poveri’ si era parlato, anche a sinistra, a proposito di un crimine particolarmente odioso, accaduto il 18 settembre 2014 alla Marranella, quartiere romano del Pigneto-Tor Pignattara: il massacro a calci e pugni di Muhammad Shahzad Khan, un pakistano di ventotto anni, mite e sventurato, per mano di un bullo di quartiere, un diciassettenne romano, istigato dal padre fascista.
Numerosi sono i precedenti di questo pigro schema interpretativo. Che di volta in volta è stato applicato ai pogrom contro i rom di Scampia (2000) e di Ponticelli (2008), istigati dalla camorra e da interessi speculativi; alla strage di camorra di Castelvolturno (2008); ai gravi fatti di Rosarno (2010), anch’essi fomentati da interessi mafioso-padronali.
Tutto ciò è indizio di un’avversione crescente per le interpretazioni complesse, favorita dal chiacchiericcio socialmediale, che a sua volta contribuisce al crescente conformismo che caratterizza il dibattito pubblico. Il razzismo, si sa, poggia su una montagna costituita anche da cattive parole. Decostruirle e abbandonarle non è fare esercizio astratto di ‘politicamente corretto’ (sebbene quest’ultimo non sia affatto disprezzabile), bensì intaccarne il sistema ideologico e semantico.
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