Tre giorni fa una ragazza palermitana ha postato su Facebook una sua foto con un cartello: «Ogni volta che viene usata l’espressione “famiglia naturale” un antropologo muore fra atroci sofferenze». Dopo 24 ore, probabilmente in seguito alla condivisione che ne hanno fatto due personaggi pubblici come Piero Vereni e Loredana Lipperini (poi anche Ciro Pellegrino), l’immagine ha cominciato a circolare enormemente: a fine giornata i “like” erano oltre 1.750 e le condivisioni superavano le 1.300 (dopo altre 24 ore, nel momento in cui pubblico questo testo, i “like” sono oltre 2.500 e le condivisioni più di 1.700).
Considerato il successo della fotografia, l’autrice – Vevuska Alovna – ha eliminato alcune restrizioni del suo profilo Facebook personale, dando la possibilità a qualunque utente del social-media di commentare, così ritrovandosi con decine e decine di opinioni. Questa operazione l’ha esposta a molti apprezzamenti, ma anche ad alcune critiche, talvolta al limite dello hate-speech, che, nel pomeriggio di ieri, l’hanno indotta a spiegare il senso del suo cartello.
Sono essenzialmente due le cose che mi hanno colpito di questo piccolo fenomeno “social”: la prima è una specie di sospiro di sollievo da parte di tanti antropologi dinnanzi a questa iniziativa, la seconda è un particolare commento insultante. Ma andiamo con ordine.
Al di là degli entusiasmi sulla battuta («geniale!», «fantastica!» «brava!» e così via), i commenti di chi ha studiato o studia o pratica antropologia culturale e, in generale, scienze umane sono i più indicativi sullo stato d’animo e sulla condizione che vivono tali persone (io vi faccio parte, per cui queste considerazioni sono anche autobiografiche). Ne prendo qualcuno come esempio:
G.C.: «Essendo studentessa di storia a indirizzo antropologico e avendo fatto 3 esami di antropologia, il fegato mi diventa amaro ogni giorno di più»;
R.D.: «Matteo sono di nuovo un po’ felice»;
M.M.: «Cara Professoressa Amalia Signorelli… guardi un po’ qui che coscienze critiche sforna l’antropologia. Un caro saluto».
Ci troviamo all’interno di un sapere marginale (un po’ per l’essenza stessa della disciplina), ignorato da stampa e istituzioni (benché queste facciano un uso abnorme e distorto di concetti antropologici, nonché dello stesso termine “antropologia culturale”) e professionalmente quasi inesistente (al di fuori dell’accademia, soprattutto in Italia), eppure grazie a questa ragazza tutti i miei contatti con cui condivido passione e impegno antropologico hanno vissuto una sorta di “attimo di liberazione”, un piccolo ma intenso “anthropological pride”: il riscatto di un momento, che è possibile cogliere anche nelle centinaia di ulteriori condivisioni che quella foto ha avuto sul web. Quel cartello e quei commenti esprimono un’idea elementare, ma ferma e risoluta: esistiamo e siamo necessari a comprendere la complessità che ci circonda, una pluralità che è snervante e scioccante per molti, ma che – se letta e interpretata con gli strumenti giusti – può essere dipanata e compresa, magari diventando addirittura una ricchezza e un’opportunità per gli stessi che ne erano intimiditi. Ci chiediamo di continuo a cosa serva l’antropologia e come la si potrebbe applicare, poi un giorno una sconosciuta utente Facebook lo mostra a tutti in maniera semplice e brillante: l’antropologia è un paio di occhiali con cui mettere a fuoco la realtà, che altrimenti leggiamo in modo confuso e deformato a causa della miopia prodotta dalla troppa vicinanza a noi stessi; l’antropologia è un periscopio con cui osservare quel che c’è oltre il nostro mondo, così da capire meglio la condizione in cui noi stessi viviamo: come nella storiella di David Foster Wallace, dove se sei un pesce che è sempre stato in acqua, non ti accorgi che tutto quel che ti circonda è, appunto, acqua. L’antropologia, dunque, serve a mettere un po’ di distanza tra noi e le nostre convinzioni, tra noi e quel che riteniamo “naturale”, “ovvio” e di “buon senso” perché conosciamo solo quello o perché vi siamo abituati o, ancora più banalmente, perché ci conviene. L’antropologia difficilmente fornisce risposte, piuttosto pone migliori interrogativi: all’inizio il suo contributo pare andare addirittura in direzione opposta, perché sembra rendere ulteriormente difficile la comprensione del mondo (prendere le distanze da sé è doloroso, oltre che ostico), ma poi – una categoria dopo l’altra – la “cassetta degli attrezzi” si riempie e lo sguardo antropologico diventa una postura, un atteggiamento, un vero e proprio modo di essere. Chi studia determinati elementi sociali e culturali (parentela, istituzioni, religione, sacro, identità, etnia, tradizione… fino ad altri affrontati più di recente, come paesaggio, migrazione, superdiversità, rischio, sicurezza, resilienza, paura…) ne è consapevole, ma sa anche di non avere potere contrattuale, né evidenti chance lavorative; o, perlomeno, sa di avere una voce molto flebile e isolata nel nostro sistema sociale (politico, lavorativo, economico).
E questo ci porta al secondo punto che mi ha colpito. Vi sono stati alcuni commenti critici, come ho già scritto, i quali hanno generato delle sotto-discussioni (è qualcosa che accade di frequente sui social-media, specie per argomenti “sensibili”), ma sono stato colpito da una frase specifica:
F.A. (riferendosi all’autrice del cartello): «Questa in quale Mc Donald lavora?».
Dinnanzi agli insulti non bisogna mai offendersi perché esprimono la mentalità di chi li pronuncia, non supposte caratteristiche dell’altro che ne sarebbe destinatario, ma questo, in particolare, non può ledere in nessun modo perché non contiene alcuna ingiuria: lavorare al Mc Donald’s è estremamente dignitoso, benché ritenuto (e forse a ragione) un mestiere temporaneo, “non all’altezza”, magari routinario e, in qualche misura, alienante. Quel commento, tuttavia, esprime un disprezzo classista verso un lavoro e una categoria di lavoratori i quali, a saper guardare la realtà, invece rivelano più di altri – metaforicamente e non solo – la sorte a cui è stata relegata un’intera generazione, forse due. Tra gli altri utenti, qualcuno ha provato a spiegare e a ribattere:
R.R.: «Riguardo la battuta del McDonald’s (innanzitutto complimenti, non la sentivo dal 2008 il vintage va, quest’anno), è vero, in Italia le possibilità lavorative per un antropologo sono abissalmente inferiori rispetto che all’estero (dove spesso la disciplina è sfruttata in molti campi, dalle ONG alle aziende, dall’archeologia al turismo, dalla mediazione politica alla medicina e alle professioni di cura, e persino in maniera efficace quanto controversa e per molti inaccettabile in conflitti bellici…) il che dice di più sullo Stivale che sulla disciplina».
L.T.: «Possibile che sia una studentessa universitaria che al Mc ci lavora per pagarsi gli studi, o dottoressa che ci va per campare, o magari da antropologa per studiare da vicino l’umanità che ci passa. A me non interessa: può anche avere fatto la terza media e friggere patatine tutta la vita. Lei, ha comunque scritto una cosa intelligente».
È, però, ancora una volta l’autrice stessa del post, Vevuska Alovna, a esprimere, con molta lucidità, la sua personale condizione precaria e marginale (exemplum di tutti noi, suoi colleghi), così come la rivendicazione orgogliosa del proprio sapere, che è declinato anche in chiave etica e sociale (un modo di essere, come dicevo più su):
«Sì, presto servirò patatine al McDonalds. Ma non credo di avere bisogno di due lauree per avere un minimo di coscienza civile ed onestà intellettuale per comprendere la differenza fra natura e cultura».
Ebbene sì, siamo destinati a non lavorare nel campo in cui abbiamo studiato, in cui abbiamo sudato, in cui abbiamo creduto; rispetto ai rampanti da selfie autocompiaciuto e da after-hour appagato, noi siamo i falliti sul ciglio del mondo dell’impiego, i perdenti della produzione economica, i subalterni del discorso pubblico. Sì, sebbene personalmente continui a resistere in maniera cocciuta e tendenzialmente suicidaria, va così per me e va così per quasi tutti gli studiosi di antropologia che conosco. Ho studiato nell’unica Scuola di Dottorato di Napoli (vogliamo discutere di quanto sia un posto stimolante per un antropologo?) e sono entrato con l’ultimo concorso, bandito nel 2009 (conclusosi nel 2013-2014); da allora non c’è un solo nuovo phd in antropologia culturale nella città partenopea (meglio così, penso tra me e me, se poi costui deve vivere il tormento e le umiliazioni di un titolo la cui pergamena non appendiamo nemmeno più alla parete, tanto ne siamo frustrati). Del centinaio di dottori di ricerca in scienze antropologiche formatisi a Napoli in un trentennio, che io sappia solo un paio sono strutturati all’interno dell’università italiana (potrei sbagliarmi, potrebbero essere di più, ma non credo che si vada oltre i 5 o 6). Vorrei tanto avere delle statistiche sull’impiego a breve e a lungo termine degli addottorati in antropologia culturale a Napoli e in Italia, vorrei che questi dati fossero resi pubblici e sbattuti in faccia a professori, rettori, parlamentari e ministri. Vorrei che venissero nei fast-food o nei call-center dove lavoriamo per offrire loro una porzione di patatine e una telefonata a scrocco, e poi discutere serenamente di solidarietà organica e meccanica, di Gemeinschaft e Gesellschaft. Vorrei mostrare loro cosa hanno fatto alla ricerca scientifica italiana e ad un’intera generazione persa in un Paese sempre più analfabeta e cinico, arrogante e menefreghista, sempre più chiuso nei propri piccoli, meschini pseudovalori etnocentrici. Nel frattempo, il resto del mondo si colora, si allarga, si protende verso il futuro (anche) perché inserisce insegnamenti di antropologia culturale nelle scuole e nei licei, perché prevede l’impiego di scienziati sociali negli ospedali e nelle unità di crisi, perché chiede consulenza agli storici del paesaggio all’interno delle commissioni di pianificazione territoriale, perché prova a svecchiare i musei trasformandoli da depositi impolverati a mezzi di comunicazione attraverso l’ausilio di esperti di cultura visuale e multimediale, perché…
Vabbè, è inutile che vada avanti: in Italia un antropologo muore fra atroci sofferenze ogni giorno, per mille ragioni.
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PS: Tornando al cartello di Vevuska Alovna, questa è la sua spiegazione circa l’implausibilità dell’espressione “famiglia naturale” (complimenti e grazie ancora, davvero):
«Mi sono presa l’incosciente responsabilità di rendere pubblica questa foto, ora mi prenderò la responsabilità di spiegare cosa intendo con quel cartello. Spero di non dire troppe castronerie e che qualche collega studente, studioso o antropologo di professione mi dia manforte perché le mie conoscenze di antropologia della famiglia sono davvero base.
La procreazione è un atto biologicamente determinato. La storia dell’ape e del fiore la conosciamo tutti e, nonostante un certo progresso tecnologico nel campo della procreazione assistita, ancora oggi abbiamo bisogno di uno spermatozoo e di un ovulo perché nasca un bambino. Fin qui mi sembra che siamo tutti d’accordo.
La famiglia E’ TUTTA UN’ALTRA COSA. La famiglia è una modalità attraverso la quale si stabiliscono legami di parentela per consanguineità (padre e figlio, nonno e nipote) o per affinità (rapporto di coppia, per intenderci). Ci sono altri fattori che vengono indicati da alcuni studiosi come indicatori di famiglia, come la coresidenza e la cooperazione economica.
Non sto qui a tediarvi con le concezioni locali che alcune popolazioni hanno (avevano) in merito alla procreazione, perché altrimenti dovremmo addentrarci nel concetto di metafora in antropologia e visto che siamo ancora all’ABC della differenza fra naturale e culturale, direi di riservarlo ad altri momenti.
Scegliere chi fa parte della famiglia e chi no è un costrutto totalmente culturale. Forse se procediamo per esempi è più facile da capire.
Fra i Samo del Burkina Faso, le future spose passano un periodo di “concubinato” con un uomo che non è il promesso sposo (entrambi scelti fra gruppi “autorizzati”). Se ne nascerà un figlio, questo sarà considerato figlio del legittimo marito. Punto.
Fra i Wahehe della Tanzania, dopo lo svezzamento, il bambino viene affidato alle cure della nonna materna, la quale assolve tutti quei compiti che noi consideriamo prerogativa dei genitori. Senza che questi siano più legittimati a fare nulla, né hanno intenzione di avere questa “legittimità”.
In molte altre società, inoltre, la figura autoritaria che noi generalmente riteniamo propria del “padre” viene assunta dal fratello della madre. In altre, invece, il fratello della madre è sì molto presente nella vita del nipote, ma assume un ruolo più vicino al campo affettivo e della cura emotiva.
Infine, nell’ambito europeo la forma della famiglia è cambiata di secolo in secolo e di regione in regione. Gli studi che si concentrano su un’indagine storica della famiglia sono numerosissimi.
Ora, se non ci siete arrivati attraverso gli esempi a capire come la forma della famiglia vari di cultura in cultura, io non ho le forze in questo momento per farvi entrare nella capoccia la nozione di antropologia.
Se avete un minimo desiderio di informarvi, vi do due suggerimenti di lettura di livello davvero base.
Il primo è Antropologia Culturale di R.H. Robbins, che è il testo su cui io stessa ho studiato per la prima volta antropologia e che procede per “problemi”. Inoltre, è il testo su cui mi sono basata per fare gli esempi.
Il secondo è Elementi di antropologia culturale di Ugo Fabietti, un importante manuale in uso nella maggior parte delle università.
Se ancora credete che esiste una famiglia naturale e continuate ad uscire fuori dal vostro cappello da mago stronzate come il fatto che io non sarei nata se non fosse stato per i miei genitori (non ci avevo mai pensato, sai?), sui processi di riproduzione e accoppiamento (ho superato la fase dell’ape e del fiore da un bel po’ di tempo), allora fatemi la cortesia di ammettere il fatto che vi pesa troppo il culo per leggere dei libri che potete tranquillamente trovare nelle migliori biblioteche del vostro comune.
Grazie e arrivederci».
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AGGIORNAMENTO:
Senza che me ne accorgessi prima, ieri, 25 gennaio 2016, Vevuska ha pubblicato un post in cui spiega come è nato il cartello che tanto successo ha avuto su fb: QUI, a cui ha lasciato un commento addirittura Amalia Signorelli:
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INTEGRAZIONE del 1° febbraio 2016:
Solo oggi ho scoperto che lo scorso 26 gennaio “La ventisettesima ora” del “Corriere della Sera” ha pubblicato un ricco articolo di Vincenzo Matera, in cui il noto antropologo spiega perché la famiglia naturale non esiste:
[…] la famiglia composta da un uomo, una donna e i loro figli [è] solo una delle forme, molteplici, che ha assunto e che può assumere l’istituzione matrimoniale. Non c’è quindi nulla di naturale in essa, tale da farne la forma di famiglia per eccellenza, e tanto meno «la famiglia voluta da Dio», rispetto a altre forme di unione.
[…] la parentela è un sistema simbolico che avvolge, nasconde in molti casi, e riveste di senso il dato biologico, conferendogli l’apparenza di «fatto naturale».
[…] Al di là dei legami biologici, reali o presunti, la parentela, questa partecipazione delle persone l’una all’esistenza dell’altra, si costruisce attraverso una grande varietà di modi, significativi.
[…] Sono tanti i fattori che contribuiscono alla creazione sociale e culturale di relazioni di parentela fuori dalla nascita. Oltre alla convivialità, contano moltissimo il vivere insieme, la condivisione di esperienze e di ricordi […], il lavorare insieme, l’adozione, l’amicizia, le sofferenze comuni.
[…] Per quanto mi riguarda, è sufficiente per ribadire che una cosa come la «famiglia naturale» non esiste… A meno che non si vogliano rispolverare le vecchie teorie razziste e evoluzioniste secondo le quali quelle degli altri sono concezioni errate, superstizioni, bizzarrie, stranezze concettuali, ingenuità, scemenze mentre la verità sta dalla nostra parte.
“La 27esima ora” (“Corriere della Sera”), 26 gennaio 2015, QUI
PERCHE’ LA FAMIGLIA NATURALE NON ESISTE
di Vincenzo Matera
Esiste la «famiglia naturale»? Pongo questa domanda perché mi pare che siano ancora moltissimi coloro che non hanno alcun dubbio sulla risposta. Per esempio, le «Sentinelle in piedi», che hanno organizzato veglie in molte città italiane sabato 23 gennaio, a mo’ di contrappunto dei cortei «svegliatitalia», sono persone che non dubitano minimamente del valore «naturale» della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Una famiglia, affermano convinti, è quella fatta da un uomo e una donna. I bambini hanno diritto a una famiglia in cui crescere.
Questa posizione discende da un’altra convinzione, più profonda: esiste una sola natura cui appartenere, la natura umana, e l’unica differenza in natura è quella fra maschile e femminile. L’unica differenza la cui unione può generare la vita. Quindi, va proclamata senza timori l’evidenza, cioè che due omosessuali non possono avere figli, che l’omosessualità ha delle cause psicologiche – mi chiedo, per inciso, quindi è una malattia? Un disagio? – infine, che l’omosessualità non è necessariamente una condizione immutabile – si può «guarire»? Ci sono omosessuali sposati e che possono così appagare il loro desiderio di paternità o maternità – e, infine, che affermare che solo un uomo e una donna possono concepire un figlio non è sintomo di odio.
D’altronde, in questi giorni anche Papa Francesco ha ribadito la posizione della Chiesa sul punto: «Per la Chiesa non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione», afferma il Pontefice spiegando, tuttavia, che chi vive altre forme di unioni è oggetto della «misericordia» della Chiesa.
In sostanza, la Chiesa non è omofoba. Quindi, cari omosessuali, rilassatevi, nessuno vi odia (o quasi), comunque la Chiesa è misericordiosa, ma voi accettate e vivete la vostra condizione anomala con serenità e con la coscienza delle rinunce che questa condizione inevitabilmente comporta.
Credo, al contrario, che la famiglia composta da un uomo, una donna e i loro figli sia solo una delle forme, molteplici, che ha assunto e che può assumere l’istituzione matrimoniale. Non c’è quindi nulla di naturale in essa, tale da farne la forma di famiglia per eccellenza, e tanto meno «la famiglia voluta da Dio», rispetto a altre forme di unione. Di conseguenza, la legge sul riconoscimento delle unioni civili, che estende alcuni diritti (diritti previdenziali e lavorativi, il diritto alla reversibilità della pensione del partner o all’eredità, la possibilità di essere considerati parenti quando i loro compagni o compagne finiscono in ospedale e infine, forse, l’adozione da parte del partner del figlio biologico di uno dei due, già prevista dal 1983 per le coppie eterosessuali unite in matrimonio e dal 2007 per le coppie di fatto eterosessuali) non è un attentato alle fondamenta della società e della convivenza civile, perché il valore della famiglia naturale, quella fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, non è un valore assoluto.
In ciò che segue intendo sostenere la mia convinzione, ben consapevole della difficoltà di smontare qualcosa che è parte del nostro senso comune, di quella comprensione quotidiana di come funziona il mondo, estremamente resistente a ogni scetticismo.
Parlare di «famiglia», quale che sia la sua forma, significa entrare nel campo della parentela, ambito di enorme importanza per le società umane, e per questo molto studiato, in modi anche molto approfonditi e articolati, dagli antropologi. L’argomento principe delle posizioni a favore della «famiglia naturale» è dunque l’evidenza di cui sopra, l’evidenza del rapporto di procreazione. Per molto tempo gli stessi antropologi sono rimasti intrappolati in questa evidenza, difficile da scalfire, e hanno sostenuto che la «vera parentela» è quella che viene stabilita a partire dalla nascita, nonostante gli studi empirici attestassero che in molti gruppi umani in molti luoghi si attribuisse lo status di parenti a persone con le quali non sussisteva alcuna relazione biologica. Tuttavia, alla lunga è poi emerso in modo molto netto che qualsiasi relazione di parentela – persino quella, udite, udite, genitoriale – può essere costruita anche dopo la nascita, attraverso azioni o procedure simboliche appropriate culturalmente.
Come ha scritto l’antropologo Marshall Sahlins in un libro molto bello (La parentela: cos’è e cosa non è, Eleuthera 2014), «[…] contro questo sedimentato senso comune – l’evidenza della procreazione – dobbiamo sforzarci di capire che le categorie di parentela non sono rappresentazioni o metafore delle relazioni di nascita; piuttosto, è la nascita a essere una metafora delle nostre relazioni di parentela».
In altre parole: nessuno mette in discussione che per procreare ci vuole l’unione di un uomo e di una donna. E’ un fatto biologico. Ma è altrettanto evidente che la famiglia, l’insieme di persone che partecipano intimamente gli uni delle vite degli altri, è una costruzione sociale culturalmente significativa che include, certo, le determinazioni biologiche, ma si estende molto al di là della biologia, fino al punto in cui le relazioni «extra nascita”, non biologiche, diventano preponderanti rispetto a quelle di procreazione.
In altre parole ancora, la parentela è un sistema simbolico che avvolge, nasconde in molti casi, e riveste di senso il dato biologico, conferendogli l’apparenza di «fatto naturale». Per questo sono così tenaci le nozioni del senso comune relative ai parenti, alla famiglia, al «sangue» e così via. La letteratura antropologica dimostra ampiamente che si tratta di varianti locali – non universali – di formazioni culturali e norme sociali che risolvono il grande problema di assegnare un individuo al momento della nascita a un gruppo, che si prenderà cura di lei/lui, gli/le conferirà diritti e doveri, lo sosterrà in caso di necessità, ecc. ecc.
Soprattutto, sarà il gruppo che gli/le fornirà sostegno al momento del matrimonio, cioè quando il nostro individuo (maschio o femmina) si unirà a un altro individuo secondo le procedure e le norme sociali appropriate.
In tutte le società umane, infatti, il matrimonio è un’istituzione sociale finalizzata a disciplinare secondo il modello culturale la riproduzione e l’assegnazione dei figli a un gruppo piuttosto che a un altro. Che si tratti di una costruzione sociale, tra l’altro, lo dimostra la grande flessibilità che caratterizza l’unione matrimoniale, e che consente per quanto possibile di porre rimedio a eventuali «scherzi» della natura garantendo la finalità riproduttiva: fra gli Igbo della Nigeria, in caso di sterilità del marito, una donna è autorizzata a avere rapporti sessuali con un altro uomo, e i figli procreati saranno legalmente figli del primo (il padre sociale) e non del secondo (il padre biologico). Fra i Nuer del Sudan, come ha documentato il grande antropologo inglese Evans-Pritchard (I Nuer. Un’anarchia ordinata, 1948), è documentato il matrimonio con il fantasma, per cui, qualora un uomo muoia senza figli oppure prima di sposarsi, un fratello o un cugino può sposarsi con una donna in nome del defunto in modo che i figli siano legalmente figli del defunto. Sempre fra i Nuer, esiste il matrimonio fra donne (privo di connotazioni omosessuali): una donna sterile può contrarre matrimonio con un’altra donna, sceglierle un amante e i figli nati da questa unione saranno figli socialmente riconosciuti della donna-marito, membri del gruppo di quest’ultima. Ci sono anche i fratelli della madre chiamati «madri maschi» (Radcliffe-Brown) e le donne agiate Lovedu che cedono il loro bestiame per acquistare «mogli» e diventare così «padri» dei loro figli. Ancora, i Karembola del Madagascar considerano fratelli e sorelle la stessa cosa, e un uomo può così rivendicare la maternità di un bambino. Come gli uomini possono essere madri, le donne possono essere padri. Niente è impossibile nella parentela della procreazione.
Le innumerevoli concezioni culturali della procreazione – tutti «sensi comuni» locali – infatti esprimono idee altamente differenziate del ruolo di genitore e di genitrice. La letteratura attesta per esempio casi di misconoscimento parziale: nelle società patrilineari, in cui cioè ai fini della discendenza conta solo la linea maschile, spesso il ruolo della madre è assai svalutato o non riconosciuto. All’opposto, nelle società matrilineari, in cui cioè ai fini della discendenza conta solo la linea femminile, si rileva l’indifferenza verso il contributo maschile al concepimento (è celebre l’ignoranza del ruolo del padre nelle isole Trobiand attestata dal grande etnografo polacco Bronislaw Malinowski). Ma sono documentati anche casi limite dell’esclusione di entrambi.
Sono infatti molteplici le persone che si possono incarnare in un neonato, inclusi gli antenati del clan o del villaggio, mentre può capitare che la madre naturale venga esclusa. Nonostante sia parte integrante del senso comune che i legami di sangue sono naturali, la verità è che sono costruiti per convenzione.
La casistica sarebbe infinita. Riporto solo alcuni esempi tratti dalla letteratura etnografica. In Amazzonia, una nascita può anche non coinvolgere alcun tipo di parentela, se quello che la donna porta in grembo è il figlio di un animale (spirito / animale). I Kamea della Nuova Guinea ignorano le connessioni fra i nati e chi li ha concepiti. Fra gli Inuit della Groenlandia, quando un bambino è chiamato con il nome del nonno materno, inizia a chiamare figlia la madre che lo ha partorito, marito di mia figlia il padre e moglie la nonna.
Insomma, spessissimo la parentela per procreazione si rivela sostanzialmente uguale alla parentela creata socialmente. Un bell’esempio di questa uguaglianza è riportato da Sahlins nel libro citato sopra: per gli abitanti della Nebilyer Valley (in Nuova Guinea) la parentela è creata dalla trasmissione di kopong, «grasso», materia essenziale di tutti gli organismi viventi. Il kopong, trasmesso dallo sperma del padre e dal latte della madre, crea una relazione sostanziale fra il bambino e i suoi genitori biologici. Bene. Però, dato che il kopong si trova anche nelle patate e nel maiale, lo stesso risultato si può ottenere tramite la condivisione delle vivande. In questo modo, aggiungo un inciso interessante, un figlio o un nipote di stranieri immigrati può essere completamente integrato come parente.
C’è di più: le relazioni «biologiche» costruite simbolicamente a volte funzionano meglio di quelle «effettivamente» tali; per esempio, due fratelli germani possono essere più affiatati, vicini e solidali di due fratelli per nascita. E’ sufficiente per affermare che la parentela non discende dalla nascita in quanto tale.
Al di là dei legami biologici, reali o presunti, la parentela, questa partecipazione delle persone l’una all’esistenza dell’altra, si costruisce attraverso una grande varietà di modi, significativi. In moltissimi casi, la condivisione del cibo ha la potenzialità di creare parentela.
Sono tanti i fattori che contribuiscono alla creazione sociale e culturale di relazioni di parentela fuori dalla nascita. Oltre alla convivialità, contano moltissimo il vivere insieme, la condivisione di esperienze e di ricordi (la parentela è basata su un alto grado di vita fianco a fianco, giorno per giorno, e sullo scambio reciproco di atti di affetto), il lavorare insieme, l’adozione, l’amicizia, le sofferenze comuni (secondo gli Ilongot delle Filippine coloro che condividono una storia di migrazione, condividono un corpo), ecc. Le modalità sono pressoché infinite (legate a particolari logiche culturali di relazione), secondo il principio che se una relazione di parentela non esiste, la si crea. Sempre tra gli Inuit, ultimo esempio, i nati nello stesso giorno sono parenti e così alcuni individui, qualora i loro genitori in passato abbiano avuto una relazione sessuale.
Quindi, i legami di sangue hanno un valore solo se sono riconosciuti culturalmente, ma in questo diventano uguali in tutto e per tutto ai legami di vita, creati culturalmente.
Per quanto mi riguarda, è sufficiente per ribadire che una cosa come la «famiglia naturale» non esiste… A meno che non si vogliano rispolverare le vecchie teorie razziste e evoluzioniste secondo le quali quelle degli altri sono concezioni errate, superstizioni, bizzarrie, stranezze concettuali, ingenuità, scemenze mentre la verità sta dalla nostra parte.
Il resto lo lascio alle riflessioni, in un senso o nell’altro, di ciascuno.
Altro contributo interessante di Matera è del 6 gennaio 2016, sempre su “La 27esima ora” (QUI), a proposito della violenza contro le donne, che “non è un fatto nuovo, ciò che è nuovo è il riconoscimento crescente che gli atti di violenza contro le donne non sono eventi isolati ma piuttosto formano un modello di comportamento“.
NON NASCIAMO MASCHI O FEMMINE. È UN’IMPOSIZIONE CHE PORTA ALLA VIOLENZA
di Vincenzo Matera
Il mondo è attraversato da un conflitto. Non un conflitto locale, contingente, ma uno globale, basato su una motivazione fondante il nostro vivere sociale. Mi riferisco al conflitto generato dal fatto che una metà del genere umano da sempre e ovunque domina l’altra metà. I dati parlano chiaro. Senza spingersi troppo in là nel tempo o nello spazio, per esempio, metà delle donne assassinate a Parigi negli ultimi anni è stata uccisa dal coniuge. In Gran Bretagna ci sono dati che parlano di una donna uccisa ogni tre giorni. La sequenza di fatti di cronaca avvenuti in Italia in cui un uomo uccide una donna è incessante (più di una ogni tre giorni, 152 nel 2014, di cui 117 in ambito familiare). Per non dire delle violenze fisiche e psicologiche non mortali, le cui percentuali sono impressionanti.
Si tratta di un conflitto senza confini e costante nella storia dell’umanità. Basti pensare, per limitarsi a un solo esempio, alla pratica del delitto d’onore, diffusa in tutta l’area del Mediterraneo, ma anche in Brasile, in Uganda, in Israele, in Libano. Si calcola (fonti ONU) che ogni anno più di 5000 donne sono uccise nel mondo da padri, mariti, fratelli, figli, cugini perché accusate di aver disonorato la famiglia con comportamenti illeciti (reali o presunti poco importa).
Tali dati, oltre che in diversi rapporti dell’Istat, trovano conferma nel Rapporto pubblicato nel 2013 dalla WHO (World Health Organization), intitolato Global and regional estimates of violence against women.
Nel mondo, denuncia il Rapporto, il 30% delle donne impegnate in una relazione ha subito violenza dal partner; percentuale che sale al 38% in alcune aree. Quasi il 40% delle donne ammazzate su scala globale è stato ucciso da una persona (maschio) a loro vicina.
È un rapporto importante, che non ha avuto la risonanza che avrebbe meritato. Questo è del resto un segno del problema. In ogni caso, ben vengano il riconoscimento della gravità del problema da parte della WHO, il fermo invito ai governi a rafforzare le politiche di prevenzione e i servizi di supporto per le vittime, gli auspici: «Che questo rapporto serva come un appello all’azione per coloro che operano per un mondo senza violenza contro le donne». Del resto, va detto, non mancano le prese di posizione ufficiali a tutti i livelli, non mancano le giornate contro la violenza sulle donne e tutte le altre iniziative finalizzate a sensibilizzare l’opinione pubblica.
Tuttavia, nella maggior parte dei casi, ci si ferma sulla soglia, senza entrare dentro il problema che, al di là di tutte le ricadute (di salute pubblica, di civiltà, di rispetto dei diritti umani, ecc.), ha una matrice culturale.
La violenza contro le donne, infatti, è una conseguenza della gerarchia maschile/femminile, una gerarchia protetta da un’impalcatura culturale, eretta «in nome di un principio simbolico conosciuto e riconosciuto dal dominante come dal dominato», come ha scritto un grande studioso in un classico del tema – Pierre Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli, 1989 – un’impalcatura che ognuno di noi, uomo o donna, in molti casi senza esserne consapevole, contribuisce a sostenere e riprodurre con le parole, i comportamenti, i consumi, lo stile di vita.
Combattere la violenza contro le donne, dunque, richiede una lettura delle sue componenti culturali, per arrivare a snaturalizzare una gerarchia che appare viceversa come la più naturale dell’ordine sociale, e a smascherarne il principio in nome del quale si esercita.
Per una tale lettura, occorre (ri)percorrere alcuni itinerari concettuali importanti. Il primo conduce al superamento della diffusa convinzione che le persone sono maschi o femmine, punto.
La celebre affermazione di Simone de Beauvoir – «non si nasce donna, lo si diventa» (Il secondo sesso, ed. or. 1949, prima ed. it. Il Saggiatore, 1961) – cela già l’intuizione, da parte della grande «ragazza perbene», del concetto di genere. Vale a dire del fatto che la gerarchia fra uomini e donne è radicata culturalmente e non nella differenza sessuale. Tale affermazione, nel pensiero femminista «della differenza», è interpretata come un invito a riabilitare la specificità femminile e a farne il principio sovversivo. Diventare «autenticamente» donne è la strada che porta alla liberazione dal dominio. L’interpretazione si inserisce in un quadro psicanalitico. La visione di Freud della donna è in termini di «carenza» rispetto alla «completezza» dell’uomo. Le donne sarebbero uomini castrati, soffrirebbero della famosa – e oltremodo, diciamo, abusata «invidia del pene» – e di un complesso di inferiorità. Nell’ordine patriarcale (si veda Luce Irigaray, per esempio Io tu noi. Per una cultura della differenza, Bollati Boringhieri, 1992; e, più di recente, Speculum. L’altra donna, Feltrinelli 2010) la donna è priva di parola e di pensiero a causa della frattura radicale del legame figlia-madre provocata dal padre. L’amore della figlia per la madre non ha trovato (non trova) forme per esprimersi: è un legame non contemplato nell’ordine della dimensione culturale patriarcale di dominio. Spezzare il dominio richiede la costruzione di un ordine simbolico che esprima l’esperienza femminile, nuove parole, nuove modalità di relazione (Luisa Muraro, Il dio delle donne, Il Margine, 2004; più recente Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna, Carocci, 2011). Non un’omologazione al maschile, come invece è richiesto da altre correnti, più politiche che culturali, del movimento femminista.
Un’interpretazione successiva del «donne lo si diventa» ci porta a fare un altro passo. I maestri del pensiero post-moderno hanno mostrato la fragilità di tutte le categorie in precedenza (nella modernità) pensate come omogenee e compatte, fra queste anche di quella di genere (o si è uomini o si è donne): si può nascere femmine, ma voler diventare uomini, o viceversa; il passo è verso la decostruzione del genere, al centro delle riflessioni di Judith Butler (per esempio in Scambi di genere, 2004, Sansoni, e La disfatta del genere, Meltemi 2006). Sesso, vita sessuale, genere sono costruzioni culturali che vivono perché prodotte e riprodotte dall’agency – l’agire degli individui secondo gli orientamenti contingenti della società. Maschile e femminile non sono categorie fisse, che lo siano è un’illusione imposta dal dominio, teso a dividere nettamente i modi di diventare umani per riprodurre un sistema di differenze gerarchico e perpetuarsi. Questa struttura denigra il femminile e idealizza il maschile. Così la società «normalizza» culturalmente la vita sessuale e il genere, ed esclude, bolla come individui contro natura, chiunque esprima una differenza trasversale rispetto ai generi imposti.
Dietro le apparenze, i «valori della famiglia», ci sono le vite reali delle persone, complesse, disordinate, in trasformazione; l’agency degli individui è lacerata, paradossale, è quella di un io disgregato e molteplice, che dipende dalle norme sociali e dai principi culturali, ma al contempo si sforza di trasformarli.
Questa complessità è stata di recente riconosciuta da Papa Francesco, che ha finalmente anteposto la «persona» alla categoria che le è imposta: non più categorie, non peccatori o individui contro natura, ma «persone». Chissà se il buon Giovanardi saprà fare lo stesso. La portata culturale delle parole del Papa potrebbe essere enorme. Molto più vasta e profonda del Rapporto della WHO.
Arriviamo così al terzo e ultimo itinerario concettuale. Sempre secondo Bourdieu, mostrare il carattere paradossale della gerarchia richiede il punto di vista dell’antropologo.
Françoise Héritier, etnologa francese, si è dedicata allo studio dei rapporti fra maschile e femminile. La sua lunga riflessione (avviata con Maschile e femminile, Laterza, 1997) rende esplicita la matrice a un tempo simbolica e materiale del dominio maschile, una costante della condizione umana, che emerge sempre e ovunque anche se nella variabilità di forme e contenuti.
Il punto di partenza di Héritier è il modo in cui la differenza fra i sessi, che sul piano biologico non comporta alcuna gerarchia, è stata pensata fin dall’origine. Un’ampia documentazione storica e etnografica conduce ineluttabilmente a una scoperta: ovunque e in qualunque epoca gli uomini hanno pensato la differenza e l’hanno tradotta in una gerarchia. Perché l’umanità ha sviluppato sistemi di pensiero che valorizzano il maschile e svalutano il femminile, mettendoli poi in pratica in azioni e situazioni di violenza, di controllo, di segregazione, di sfruttamento ecc.?
Leggere il libro successivo di Héritier (Dissolvere la gerarchia, Raffaello Cortina, 2004), significa intraprendere un appassionante percorso intellettuale attraverso una molteplicità di sistemi ideologici rintracciabili al cuore di pratiche, istituzioni, usanze, modi di parlare, ma anche di speculazioni filosofiche, universi letterari, leggi, risoluzioni politiche, concezioni religiose, ciascuno dei quali mostra una costante nel legittimare il dominio maschile. Quanto messo in luce dal pensiero femminista, di cui ho schematicamente detto sopra, costituisce un esempio di come, accanto a e a sostegno di sistemi sociali di appropriazione delle donne da parte di padri e fratelli (i matrimoni combinati, per dirne una), esistano sistemi concettuali che legittimano quelle pratiche. Spossessano la donna della capacità di pensiero razionale, relegandola nell’ambito dell’irrazionale e dell’emotivo (lo affermava già Aristotele) e la attribuiscono all’uomo, o della sua capacità di procreare, attribuendo all’uomo il ruolo principale nella fecondazione.
Ci avviciniamo così alla matrice della gerarchia, che Héritier colloca in una conseguenza delle osservazioni primordiali fatte dai nostri lontani antenati. Osservazioni fondate su ciò che era possibile allora percepire attraverso i sensi, nell’ambiente circostante. Il pensiero nascente, durante i millenni della formazione di homo sapiens, ben prima e in maniera ben più estesa delle analisi freudiane, e soprattutto anche entro forme parentali molto lontane dal modello patriarcale, si sviluppa a partire dall’operazione cognitiva di base che consente di mettere ordine nel mondo, e che consiste nel classificare gli oggetti in base alle loro caratteristiche.
Che cosa osserva homo sapiens? Innanzitutto se stesso e i suoi congeneri nella loro varietà individuale e tutti gli animali visibili a occhio nudo da cui è circondato. Uno stesso dato si impone: tutte le specie sono divise da un elemento costante, inconfutabile: la differenza sessuata. Tra le osservazioni primordiali c’è che le donne – diverse dagli uomini – mettono al mondo esseri identici a loro stesse, non solo, ma hanno anche il potere esorbitante di produrre corpi diversi dal loro. Ecco dove si cela il motore della gerarchia: nell’appropriazione di questo potere esorbitante delle donne e nella sua spartizione fra gli uomini.
Per riprodursi nell’identico a sé l’uomo deve passare per un corpo di donna; è questa carenza biologica ciò che i maschi hanno colmato culturalmente – vale a dire simbolicamente – appropriandosi delle donne. Questa appropriazione segna il destino dell’umanità femminile. Torna qui ancora l’affermazione di Simone de Beauvoir: «non si nasce donne, lo si diventa» secondo un destino culturalmente legittimato e socialmente tracciato, in modi e forme diverse ma ugualmente segnate dalla gerarchia; è questa la necessità sociologica di un dominio del tutto contingente e arbitrario, come afferma Bourdieu.
Oggi che sono comparsi i gameti e i geni, l’umanità dispone delle conoscenze per cambiare i rapporti simbolici fra il maschile e il femminile. Tuttavia, la forza della simbolizzazione elaborata dai nostri antenati nel corso del processo di ominizzazione è ancora preponderante.
Se è tale la matrice del dominio maschile, si fa presto a individuare il meccanismo per sottrarsi allo spossessamento: il diritto alla contraccezione agisce al cuore del meccanismo con cui si è realizzato il dominio. Il resto, (riabilitazione della specificità femminile o rivendicazione di parità politica, di pari accesso all’istruzione e al lavoro, di parità salariale ecc.) non potrà sortire alcun significativo risultato se tutte le donne non avranno prima realizzato la piena libertà di disporre del loro potere esorbitante.
È questo che porta Héritier a affermare che è sbagliato sostenere politicamente le donne in quanto donne, le misure legislative finalizzate a promulgare la parità elettiva (come le quote rosa e simili) non valgono a dissolvere la gerarchia. Per dissolvere la gerarchia occorre un riequilibrio politico, intellettuale e simbolico delle categorie che fondano il sociale in direzione di una situazione più coerente con le nostre conoscenze attuali.
Nella Prefazione al rapporto della WHO che citavo prima si legge che la violenza contro le donne non è un fatto nuovo, «ciò che è nuovo è il riconoscimento crescente che gli atti di violenza contro le donne non sono eventi isolati ma piuttosto formano un modello di comportamento […]».
Un modello di comportamento si regge su configurazioni simboliche. È bene esserne consapevoli. Certo la consapevolezza critica non è una formula magica, ma ci può indicare la strada.
Va peraltro ricordato che accanto a quella simbolica esiste una dimensione materiale, che vincola la libertà di modificare il simbolico. Tanto più che quello di equilibrio è un concetto astratto che in natura non esiste, che nelle interazioni fra gli uomini (e le donne) è molto raro e che, infine, è molto difficile da concepire una prospettiva politicamente neutra, in cui maschile e femminile siano null’altro che i due poli di un’umanità in armonia e non in conflitto, differenziata sessualmente ma non ideologicamente.
La posta in gioco è la capacità riproduttiva dell’umanità, il potere esorbitante delle donne in mano agli uomini, in un futuro fatto anche di fecondazione assisitita, di clonazione, di ingegneria genetica, di cellule staminali, di forme di famiglia complesse, disordinate, trasversali: non proprio un dettaglio.
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