Oggi [Ieri], 25 aprile, è anche un altro anniversario, purtroppo non festoso come quello italiano: sono due anni dalla crisi politico-sociale (e, dunque, anche economico-alimentare-sanitaria) in Burundi. Oggi, nel 2015, il presidente Pierre Nkurunziza, allora già al secondo mandato, decise di violare la Costituzione promulgata nel 2005, dopo un decennio di guerra civile, e candidarsi per un terzo quinquennio, poi confermato da elezioni sulle quali gli osservatori internazionali sollevarono diversi dubbi. Quel giorno cominciarono manifestazioni quotidiane e sempre più affollate per le strade della capitale, Bujumbura, spesso soffocate dalla polizia, ma difese dall’esercito.
Da allora c’è stato un tentativo di colpo di stato da parte di alcuni generali dell’esercito, sistematiche censure dei mezzi di informazione e comunicazione, migliaia di morti (oltre 2000, per stare alle cifre più contenute), ancor più arresti e scomparsi, numerose denunce di torture, di stupri e di fosse comuni, spedizioni punitive (nella sola notte tra l’11 e il 12 dicembre 2015 ci furono almeno 87 esecuzioni sommarie nei quartieri ribelli di Bujumbura), un continuo esodo nei Paesi confinanti che ormai ha superato il numero di 400mila rifugiati (aggiornamento del febbraio 2017 dell’UNHCR: pdf), con tutto ciò che comporta, specie sul piano sanitario ed educativo.
Come scrive oggi “RFI”, in questi due anni il Burundi è piombato in una vera impasse politico-sociale: il dialogo interburundese è del tutto fermo da mesi e la comunità internazionale sembra impotente. Tutti aspettano un summit regionale, ritenuto come l’ultima chance per trovare una soluzione diplomatica alla crisi.
Se da un lato il governo sostiene che la crisi sia «immaginaria» e che, anzi, in Burundi viga «la pace totale», dall’altro l’ONU e diverse ONG continuano a denunciare gravi violazioni dei diritti umani, nonché atti inquietanti, come: una progressiva etnicizzazione dell’esercito, la declamazione in pubblico di slogan violenti contro gli oppositori da parte degli Imbonerakure (una milizia paramilitare filogovernativa), un uso spregiudicato delle “fake news“, considerate come benzina sul fuoco della guerra civile che potrebbe scoppiare.
Sebbene non faccia notizia come due anni fa, dunque, la situazione burundese resta grave e preoccupante. Nei soli primi tre mesi del 2017, secondo quanto riportato dalla “Ligue Iteka” (un’associazione in difesa dei diritti umani), le persone uccise sono 74, i torturati 87, i desaparecidos 41 e gli arrestati 697.
Infine, amara, ma con un pizzico di speranza, è l’intervista che Gaël Faye ha fatto a Ketty Nivyabandi, giornalista, attivista e poetessa burundese attualmente rifugiata in Canada. Di Nivyabandi tengo sempre a ricordare i suoi versi che, soprattutto durante i momenti più caldi delle proteste, hanno scandito le marce e i canti per la libertà. Perché, oggi in Burundi come 72 anni fa in Italia, la lotta è contemporaneamente sempre contro i “piccoli uomini” e per la speranza:
«Des hommes aux petites idées / Des hommes aux petites actions / Des hommes aux petites ambitions / Des hommes sans imagination» [qui]
«We seek freedom / like yellow diamonds / thru dust, thru stone / our naked hands / bleed on rocks / we breathe in coal / but exhale hope» [qui]
PS: entrambe le immagini del post (la foto di apertura e l’infografica qui sopra) sono tratte dal report di febbraio 2017 dell’UNHCR sul Burundi.
– – –
Sul suo profilo Fb, l’attivista burundese Pacifique Nininahazwe ha condiviso numerosi cartelli di iniziative commemorative in giro per il mondo (da Kigali a Toronto, da Bruxelles a Parigi…) dei due anni di crisi nel Paese africano:
– – –
AGGIORNAMENTO del 3 maggio 2017:
Una settimana fa ricordavo il secondo anniversario della crisi in Burundi con questo post e, contemporaneamente, il concorso “Croque ton histoire-Scribble Your Story“, destinato al graphic-journalism di Rwanda, Burundi, Bénin, Camerun, RDC e Mali, assegnava i suoi premi, due dei quali sono andati a dei burundesi:
- “Illustra Comics“, a cui è stato assegnato il primo premio, con una storia sulla repressione dei cortei di protesta a Bujumbura nel 2015;
- “Alif“, al quale è stato attribuito il premio speciale della giuria, per delle tavole dedicate al rapporto tra il governo di Nkurunziza e i giornalisti indipendenti, minacciati e censurati dal 13-14 maggio 2015 (la copertina con un giornalista nel mirino è eloquente), quando in seguito ad un tentativo di golpe tutti i media del Paese furono chiusi o dati alle fiamme (i disegni sono anche qui).
Ancora una volta, osservare il Burundi è motivo di riflessione su quanto sento in Italia e in Francia, a proposito di leader politici che, ad esempio, chiedono ad un giornalista il numero di sua madre o che intendono selezionare i reporter autorizzati a seguire gli ultimi giorni di campagna elettorale.
Tornando al premio di graphic-journalism, altri riconoscimenti sono andati a Gunther Moss (Camerun), a Clément Keba (RD Congo), a Paul Monthé (Camerun), tutti con reportage estremamente interessanti e toccanti, per contenuti e per stile.






– – –
INTEGRAZIONE del 3 maggio 2017:
Antoine Kaburahe, direttore di “Iwacu”, l’ultimo media indipendente ancora attivo in Burundi, ha scritto – dal suo esilio in Belgio – questo editoriale per “Le Monde”, oggi “Giornata della libertà di stampa”: “Journée de la liberté de la presse : peut-on faire « comme avant » au Burundi ? Antoine Kaburahe, rédacteur en chef du quotidien « Iwacu », rappelle que la presse burundaise subit une répression et une censure sans précédent depuis deux ans“.
Pingback: Poesia nella rivolta, poesia in rivolta | il Taccuino dell'Altrove