Cervelli in fuga e bamboccioni: stereotipi italiani del lavoro contemporaneo

I “cervelli” (tutti, qualsiasi significato diate a questo muscolo) devono viaggiare e, talvolta, magari pure fuggire. La questione, però, è che non tornano più e, se tornano, poi fanno lavori precari. La chiamano flessibilità, ma è un precariato cronico, un lavoro fatto di ricerca di lavoro (si passano settimane a scrivere progetti, mesi ad aspettare una risposta per borse internazionali, ad esempio).
Ne ha scritto Alberto Prunetti in un interessante articolo per “Lavoro Culturale”:

Per una critica del “cervellone in fuga”
Appunti sui percorsi centrifughi del lavoro culturale migrante da un punto di vista working class. Per smontare la retorica euforica della “fuga dei cervelli” in opposizione all’etichettatura che varrebbe solo per gli emigrati del Terzo Mondo.

In particolare, l’autore osserva che dal precariato di cui sopra «ne consegue una tendenza a vivere e a lavorare soggiornando temporaneamente in città sempre diverse, spesso in nazioni diverse, alla ricerca di una borsa universitaria, un contratto di docenza di 39 ore da spalmare su tre mesi, un tirocinio semiretribuito, un voucher e così via».
Sul caso specifico del “professore a contratto” (adjunct professor), segnalo due articoli:

Riprendendo il testo di Prunetti, «se vogliamo, questa condizione esistenziale è l’esempio di come il miraggio della flessibilità e del postmodernismo si sia trasmutato in un incubo. È l’eterno ritorno del Capitale alle condizioni di lavoro che nel dopoguerra l’estensione della produttività e delle lotte operaie sembravano aver destinato al dustbin della storia: il cottimo, il lavoro nero legalizzato, i lavori non retribuiti».

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Una proposta di colonna sonora, nella versione più recente:

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Studio il rapporto tra gli esseri umani e i loro luoghi, soprattutto quando si tratta di luoghi "a rischio"
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