Il giusto interesse

A coloro che tagliano corto: «Vabbè, si è scusato». A coloro che giustificano: «E’ stata solo una battuta». A coloro che commentano: «Magari era un complimento, l’orango non è brutto». A coloro che persistono: «E’ l’orango a essere insultato». A coloro che sviano: «E’ colpa dei giornalisti, che non si occupano dei problemi veri». A coloro che sbuffano: «Ok, possiamo andare oltre adesso?». A coloro che ritengono che chiedere le dimissioni di un razzista dai vertici delle istituzioni nazionali sia «inutile» o «fumo negli occhi».
A tutti costoro: tacete, occupatevi d’altro, concentratevi sui vostri affari personali, continuate ad esprimere la vostra frustrazione verso il nulla e lasciate perdere ciò che non comprendete.
Oppure, leggete: leggete di più, leggete cose migliori.

«[…] L’aggressione verbale alla ministra Cécile Kyenge, mascherata come al solito da battuta di spirito, è stata un atto premeditato di violenza razzista. Calderoli sapeva bene quel che stava facendo, con il suo ignobile giro di parole, al comizio di Treviglio. Cercava la provocazione, in un momento di massima difficoltà della Lega Nord afflitta da una vera e propria emorragia di militanti; e sua personale, visto che dall’interno lo accusavano di eccessi di moderatismo. Provocazione studiata, dunque, con il primo stadio di quell’odioso riferimento allo stereotipo coloniale più classico, l’uomo-scimmia, riferito agli africani […]».
Gad Lerner, “Calderoli, fuori i razzisti dalle istituzioni“, «La Repubblica», 15 luglio 2013

«[…] Perché se un settantenne va a prostitute (pagando lautamente il servizio) assistiamo a manifestazioni, processi, post-it, condanne penali enormi, e se il vicepresidente del Senato dice a una donna di colore che sembra una scimmia (una scimmia!) non assistiamo a una manifestazione di dimensioni ben più coesa, ben più convinta, ben più importante? […]».
Davide Coppo, “Il vicepresidente del Senato“, «Rivista Studio», 15 luglio 2013

In un’intervista di un paio di anni fa su «La Padania», l’allora segretario del PD Pierluigi Bersani «affermava: “Non ho bisogno che qualcuno mi spieghi che la Lega non è razzista. Lo so”. E metteva poi in guardia: “Dico che la Lega non è razzista, ma attenzione: a incoraggiare certe pulsioni il razzismo si può produrlo”». Il “non senso” in cui ci troviamo, perfettamente rappresentato dall’inconsistenza del PD, scrive Wu Ming, è dovuto al fatto che «i sedicenti democratici hanno costruito un’inverosimile ipotesi di normalizzazione del paese. Continuando intanto a pretendere di essere migliori. Migliori. Due anni e mezzo fa il Pd cercava di sganciare la Lega da Berlusconi, adesso è il Pd a essere al governo con Berlusconi. Con buona pace di Bersani che si chiede dove vadano Milano e la Lombardia…».
Wu Ming, “Il partito del non senso“, «Internazionale», 15 luglio 2013

«[…] Il punto è che dobbiamo correggere il linguaggio politico. Sono disponibile al confronto, ma che si basi sui contenuti e non sulle offese. È arrivato il momento di dire basta […]».
Cécile Kyenge intervistata da Alessandra Coppola, «CorSera», 15 luglio 2013

«[…] La mia convinzione si è rafforzata: il razzismo, la paura del diverso da noi, l’ansia della contaminazione della tribù, non sono condizioni specifiche di questo o quel popolo, bianco o nero, di quella o questa nazione. Il razzismo è qualcosa che ci portiamo tutti dentro dalla nascita, scritto nel nostro dna di creature di branco e territoriali […] che metaforicamente fanno pipì nel proprio campo e non vogliono che altre creature vengano a competere per il cibo, per le femmine, per lo spazio. Soprattutto in tempi di carestia […]». Ciò di cui parla Zucconi è, più precisamente, l’etnocentrismo o una tendenza alla separazione che, tuttavia, può essere dovuta a molteplici ragioni e che, portata all’estremo, può sviluppare intolleranza e xenofobia. [Nelle prime pagine de «L’incivilimento dei barbari» di Vittorio Lanternari ci sono diversi esempi molto chiari, in proposito]. Il razzismo, invece, è qualcosa di diverso e più specifico, ma soprattutto di più recente e politico: è un’ideologia di superiorità e sopraffazione strutturatasi con il colonialismo europeo nel corso degli ultimi secoli. D’altra parte, tornando al caso in oggetto, il riferimento ad un nero come scimmia svela chiaramente di che qualità sia il pregiudizio di Calderoli.
Vittorio Zucconi, “L’orango dentro di noi”, «La Repubblica», 15 luglio 2013

«[…] Non serve essere anti-razzisti: basta essere normali, non badare neppure a certe sciocchezze, lasciarle macerare nel dimenticatoio della Storia o se volete a Treviglio. Altrimenti l’antirazzismo diventa una forma di razzismo blando, inconsapevole, a fin di bene: perché razzismo non è solo l’essere intolleranti con il diverso, ma è anche il sottolineare, ogni volta, che comunque è diverso […]». Affinché questo scenario da “mondo perfetto” si realizzi, però, mi permetto di osservare che, adesso, proprio adesso, è necessario indignarsi e non tacere dinnanzi alle volgarità razziste, da chiunque provengano (specie se da una personalità istituzionale).
Filippo Facci, “La giusta indifferenza”, «Il Post», 16 luglio 2013

«Che prima o poi Calderoli avrebbe dato un contributo di peso al linciaggio razzista della ministra Cécile Kyengé era del tutto prevedibile. E immaginabile era, data la biografia politica e la qualità morale e intellettuale del personaggio, che la carica di vicepresidente del Senato non lo trattenesse affatto dal pronunciare ai danni di Kyengé qualche insulto razzista dei più classici […]».
Annamaria Rivera, “Calderoli, il razzista, insulta la ministra Kyengé e querela gli antirazzisti“, «il manifesto» (via-MicroMega), 16 luglio 2013

«[…] “L’Italia non è un paese razzista, ma è un paese in cui il razzismo è tollerato e dove una persona come Calderoli rappresenta le istituzioni. Eppure i razzisti non vinceranno, perché il futuro è con l’Italia di Balotelli e Cécile Kyenge. L’Italia è un paese multiculturale, che lo vogliano o no. E quando vedo Roberto Calderoli, non posso fare a meno di pensare a un razzista ignorante” […]». A proposito del passaggio «Italy is not a racist country, but it is a country where racism is tolerated», comprendo la sfumatura, ma a mio avviso, chi tollera il razzismo è razzista.
John Foot («The Guardian»), cit. in “Razzismo all’italiana“, «Internazionale», 16 luglio 2013

Dicono: danno del caimano a Berlusconi, del topo ad Amato, dell’elefante a Ferrara, perché mai non si potrebbe paragonare Kyenge ad un animale? Ecco, questa è la solita strategia assolutoria del tutti sono uguali (perché quando tutti sono colpevoli, nessuno è colpevole). Invece no, dare della scimmia ad un nero non è la stessa cosa del dare del maiale o del rospo o del lombrico a qualcuno; quel che ha detto Calderoli affonda le radici nel più violento razzismo coloniale e fascista. Lo spiega egregiamente Pierluigi Battista: «[…] Ma dare dell’«orango» a una donna di colore, per provocare risate e consenso nel contesto di un comizio, è specificamente razzista. Lo è storicamente: da sempre nell’iconografia cara al Ku Klux Klan il «negro» è paragonato, o addirittura identificato, a una «scimmia». Da sempre l’immaginario razzista si nutre dell’immagine del «negro» inferiore come di un sotto-uomo dai tratti scimmieschi: un gorilla, uno scimpanzé. O un orango, appunto. […] Ma la qualità prettamente razzista del dileggio di Calderoli è autenticata dalla storia e dalla consuetudine. Se dipingi uno qualunque con un naso adunco è un conto, ma se dipingi un ebreo con il naso adunco e la fisionomia repellente, il tratto antisemita di quel disegno è inequivocabile. E’ così difficile capirlo? […] Dunque non è stata l’animalizzazione generica dell’avversario a rappresentare l’errore, ma quello specifio link mentale che quell’insulto rivolto a quel ministro con quel coloro della pelle ha voluto richiamare […]».
Pierluigi Battista, “Il «bestiario» non c’entra, è l’inconscio razzista che prevale“, «Corriere della Sera», 17 luglio 2013

«[…] il senatore Calderoli non è affatto ignorante o, addirittura, uno sprovveduto a cui scappano le parole a sua insaputa. Al contrario, egli sa molto bene quel che dice e sa anche quando dirlo. Perché – che piaccia o no alle ‘anime belle’ – il razzismo, per come è organizzato e si manifesta oggi, non ha nulla a che fare con l’ignoranza. […] Il razzismo non è nemmeno causato dalla non conoscenza delle tradizioni, delle culture e delle religioni delle popolazioni immigrate. […] la lotta al razzismo non è una questione di informazione. […] Il razzismo non è neanche una questione di paura che nasce in presenza di qualcuno o qualcosa di sconosciuto. […] Il razzismo nelle società moderne non è un fattore meramente culturale. Cioè, è anche questo, ma è prima di tutto un rapporto materiale di dominazione che produce e riproduce rapporti sociali disegualitari, ovvero rapporti sociali di oppressione, vestendoli però di naturalezza. […] Il razzismo moderno di tipo organico (ivi compreso quello postmoderno e ipermoderno) nasce con il colonialismo, ovvero sorge nel Cinquecento-Seicento, si sviluppa nel Settecento e raggiunge il suo apice e completamento nell’Ottocento-Novecento, parallelamente alla nascita e allo sviluppo della società moderna. […] Ne consegue che il razzismo è un fenomeno sociale storicamente determinato e non un elemento naturale e fisiologico partorito dalla mente di singoli individui. […] Il razzismo è dunque un complesso ideologico che naturalizza rapporti inferiorizzanti e di oppressione, in termini di razza, età, genere, popoli, stati e nazioni, le cui cause non sono da cercare nel piano individuale (cioè nel processo intra-psichico dei soggetti singoli), ma in quello collettivo […]».
Iside Gjergji, “Kyenge – Calderoli: Il razzismo non è figlio dell’ignoranza“, «Il fatto quotidiano», 17 luglio 2013

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A me, l’indifferenza o l’apatia o la noncuranza verso i razzisti non piace. Ritengo che certe frasi di un politico noto, per di più vicepresidente del Senato, non siano boutade o smargiassate. Nei confronti di questa violenza e di questo degrado è necessario contrapporre attenzione, partecipazione, coinvolgimento, sensibilità, anche commozione. Insomma, il giusto interesse.

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«Il pregiudizio non è innocuo. Il suo braccio armato è il razzismo, un’ideologia che unisce gli uguali contro i diversi e che mobilita parole e, quando può, il potere della legge per realizzare il piano di ripulire la società degli indesiderati. Un’ideologia che miete adepti con facilità perché facile da coniugare, elementare ed esprimibile con le parole dell’ignoranza ordinaria, istintiva. […] quel pregiudizio è una costruzione sociale, tutto fuor che naturale e spontaneo. Creato dalle relazioni di potere tra dominatori e dominati per renderle – questo il vero obiettivo – così spontanee da farle accettare senza sforzo. […] La pericolosità del razzismo deriva dalla sua facilità di attecchire, alimentato da ignoranza e rifiuto di riflessione. È una gemmazione della pigrizia mentale, il consolidamento di un’atavica tendenza ad orientarsi nel mondo senza troppo sforzo. Il pregiudizio vive di inettitudine mentale e di faciloneria […] il razzismo non è mai un fenomeno isolato: infatti, se una persona ha il coraggio di rivelarsi razzista in pubblico è perché sa di poter contare sull’appoggio dell’opinione. […] il razzismo non è mai innocente. E umilia tutti».
Nadia Urbinati, “Il virus razzista“, «La Repubblica», 13 agosto 2013

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«[…] Il razzismo, non mi stancherò mai di ripeterlo, non è un vizio ideologico dei vari Panebianco in giro per il paese, né una patologia sociale che colpisce la classe dirigente, il razzismo è un potente dispositivo di organizzazione del lavoro immediatamente contestuale alla produzione capitalista […]».
La razza «non è un attributo biologico ma una costruzione sociale di marginalizzazione e discriminazione che chiama in causa l’appartenenza nazionale, la religione e più in generale comportamenti che si presumono naturali, non solo il colore della pelle».
«Il reale problema che le dichiarazioni del professore bolognese celano ha a che fare con un più complessivo sistema di potere, che non ha colore politico, ma sostiene e legittima in modo bipartisan il razzismo, come dispositivo di sfruttamento che accompagna e sostiene il capitalismo sin dai suoi albori».
Anna Curcio, “Perché Panebianco è razzista“, «La Repubblica», 14 gennaio 2014
(L’editoriale di Panebianco è questo).
(Le contestazioni degli studenti bolognesi sono raccontate qui).

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Claudio Marta spiega che il razzismo, in Europa, è strutturale, cioè fa parte di un immaginario sedimentato nel corso dei secoli:

Clicca sull'immagine per accedere all'audio della relazione di Claudio Marta (10')

Clicca sull’immagine per accedere all’audio della relazione di Claudio Marta (10′)

Segnalo, infine, alcuni filmati in cui Ascanio Celestini definisce la memoria, la violenza del linguaggio e il razzismo:
1) Rimettere il 25 aprile al suo posto,
2) La violenza del linguaggio porta al genocidio,
3) Il razzismo.

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INTEGRAZIONE del 30 ottobre 2014:
Nel novembre 2013 il settimanale francese di estrema destra “Minute” aveva paragonato il ministro della giustizia Christiane Taubira ad una scimmia: “Maligne comme un singe, Taubira retrouve la banane“. Oggi il “tribunal correctionnel” di Parigi ha riconosciuto il reato di “injure publique à caractère racial” e ha condannato il direttore a 10.000 euro di multa (QUI).

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AGGIORNAMENTO del 6 febbraio 2015:
Una giunta parlamentare multicolore ha stabilito che la frase ingiuriosa di Calderoli contro Kyenge non è razzista, ma normale espressione politica e che le sue parole sono “insindacabili”. Sconcertante. Ora, tuttavia, il giudizio passa all’Aula.
Intanto, raccolgo qualche opinione:

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INTEGRAZIONE del 9 febbraio 2015:
A commento dell’assoluzione, da parte di una Giunta parlamentare, degli insulti razzisti rivolti dal vicepresidente del Senato Roberto Calderoli all’allora Ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge, l’antropologa Annamaria Rivera ha scritto questo articolo:

«Nel corso del 2013 abbiamo assistito al ritorno della “razza” […] Sarebbe stato ovvio che le istituzioni repubblicane stigmatizzassero, almeno ex post, una tale barbarie […]. E invece no […]. Ora il Pd sembra pentito e cerca di ribaltare quel voto indecente. Cosa che – è quasi certo – non avverrà: il voto segreto permetterà agli “ascari” del Pd di salvare Calderoli ancora una volta e definitivamente» (qui o qui).

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INTEGRAZIONE dell’8 marzo 2015:
Annamaria Rivera ha pubblicato sul “Corriere delle Migrazioni” un piccolo breviario intitolato “Del parlar male, anche a sinistra“, a proposito dell’uso – talvolta inconsapevole, talaltra strumentale – di particolari parole o espressioni che producono razzismo, il quale, come si sa, “poggia su una montagna costituita anche da cattive parole“.

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INTEGRAZIONE del 17 giugno 2015:
“Perché non li prendi a casa tua, questi profughi?”. Come si risponde a questa (ricorrente) domanda (vile e menefreghista)? Non si risponde, ecco. Ma perché non si deve rispondere? Lo spiega Luca Sofri, che poi aggiunge: ora passiamo a domande migliori.

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INTEGRAZIONE del 19 aprile 2016:
Su “Rivista Studio” Anna Momigliano racconta di una certa difficoltà della sinistra inglese nei confronti degli ebrei, segnale di una particolare concezione del razzismo, ancorato ad una visione data di tale fenomeno, dipendente cioè da una dicotomia tra “potere” e “oppressione” (in quest’ottica, “Il razzismo dunque è principalmente lo strumento con cui una maggioranza al potere, il centro egemonico, cerca di impedire l’emancipazione di una minoranza emarginata, socialmente ed economicamente. È l’insieme dei meccanismi che rendono più difficile che un ragazzo di colore diventare medico o ingegnere, perché ha accesso a delle scuole più scadenti e perché ospedali e studi legali sono meno inclini ad assumere personale di colore“).
Il razzismo, però, è qualcosa di più ampio, per cui una minoranza può essere perseguitata pur non essendo discriminata: “che il razzismo possa essere anche una questione di semplice odio e non soltanto di oppressione, può essere difficile da metabolizzare (tant’è vero che sebbene “Non [risulti] che gli ebrei siano marginalizzati, svantaggiati nel mondo del lavoro o degli studi […], risulta però che, ogni tanto, gli ebrei vengano insultati – e in qualche raro caso, com’è accaduto Parigi, a Tolosa e a Bruxelles, persino ammazzati – per il loro essere ebrei“).

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11 risposte a Il giusto interesse

  1. giogg ha detto:

    Come si poteva immaginare, il razzismo nei confronti di Kyenge continua e, se possibile, ha compiuto un salto di qualità: dalle parole di Calderoli si è passati al lancio di banane mentre il ministro parla pubblicamente (è accaduto a Cervia, Ravenna: qui). La preoccupazione cresce (qui), ma nche in questo caso gli antirazzisti e le persone di buon senso hanno fatto da argine mostrando la loro solidarietà (qui). Questo, tuttavia, non basta, come scrive Gad Lerner:

    «La Repubblica», 28 luglio 2013, QUI

    LA SOLIDARIETA’ NON BASTA, TOCCA A NOI DIFENDERE CECILE
    di Gad Lerner

    E se non ci riescono i vertici dello Stato a espellere i razzisti dalle istituzioni – come ha confermato l’inamovibilità del vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, protetto dal suo partito – ciascuno di noi è chiamato a farsene carico. Il lancio di banane contro una concittadina dalla pelle nera, chiamata dal governo a occuparsi dell’integrazione di milioni di immigrati, ha un nesso inequivocabile con la violenza verbale di chi l’aveva paragonata a un orango. Altri le hanno augurato di subire uno stupro. Hanno appeso manichini insanguinati nei luoghi in cui lei doveva intervenire. Hanno messo in dubbio il suo diritto alla cittadinanza italiana per il fatto di essere nata in Congo. Insinuano che la sua laurea in oculistica la renderebbe inadeguata alla funzione ministeriale. Si lamentano che usufruisca di una scorta di polizia.
    Di fronte a queste infamie esprimiamo, certo, ammirazione per il self control mostrato da Cécile Kyenge; e consideriamo elegante il suo sforzo di minimizzare nonostante le continue umiliazioni cui viene sottoposta insieme alla sua famiglia e a tanti altri cittadini che ne condividono il faticoso percorso di vita. Ma se anche lei minimizza, noi non possiamo permettercelo. Mi spiace dissentire da Mara Carfagna: per quanto felice sia la battuta sullo spreco di cibo con cui la ministra ha avuto la prontezza di liquidare a Cervia quel lancio di banane, l’ironia non sarà mai grimaldello sufficiente a controbattere un’azione sistematica d’inciviltà. Illudersi che si tratti solo di pochi “stolti”, parola di Carfagna, è una falsa consolazione. Per favore, non chiudiamo gli occhi di fronte all’evidenza: la pazzesca campagna razzista scatenata contro Kyenge è il condensato di un odio che in Italia si è diffuso anche usufruendo di una prolungata, non più tollerabile, legittimazione dall’alto. Gli “stolti” hanno goduto di comprensione, se non di giustificazione, e così si sono moltiplicati.
    Questo razzismo italico ha radici antiche nelle guerre coloniali e nell’antisemitismo novecentesco. Ma negli ultimi vent’anni si è rigenerato anche grazie a un’ostentata, scandalosa tolleranza ai vertici delle istituzioni.
    Il 24 luglio scorso, in Francia, il deputato Gilles Bourdouleix si è dovuto dimettere dal suo partito per aver sostenuto, nel corso della visita a un campo rom, che “forse Hitler non ne ha uccisi abbastanza”. Gli stessi giorni, in Italia, Calderoli se l’è cavata con una ramanzina del suo segretario che nel frattempo convocava una manifestazione nazionale contro l’immigrazione clandestina, tanto per fare pari e patta. Perché la xenofobia, più o meno mascherata, viene considerata un’arma politica redditizia cui sarebbe un peccato rinunciare, anziché un limite invalicabile della politica democratica. Gli osservatori internazionali faticano a capacitarsene. Si domandano come sia possibile che un paese membro dell’Unione Europea non disponga di anticorpi sufficienti a estromettere dal dibattito pubblico chi nega la pari dignità fra cittadini in base al luogo di nascita, al colore della pelle, al credo religioso. Ignorano il retaggio storico di cui la destra italiana ancora non è riuscita a liberarsi, neanche quando ha formalmente accettato le regole costituzionali.
    Se dunque il razzismo dall’alto precede e giustifica le pulsioni da stadio dei lanciatori di banane, tocca a noi, dal basso, organizzare la catena umana della solidarietà. Giustamente si è già detto, anche da parte del premier Letta, che le offese rivolte a Cécile Kyenge feriscono l’insieme della collettività nazionale. Ora si tratta di mettere in pratica questo sentimento maggioritario della condivisione. La solidarietà a Kyenge, e con lei a tutte le vittime del razzismo residenti in Italia, indipendentemente dal passaporto che hanno in tasca, deve manifestarsi con segni tangibili. Nei giorni scorsi ci ha commosso la foto di gruppo dell’ex presidente americano George Bush che, insieme a tutto il suo staff, si è rasato i capelli per immedesimarsi nell’esperienza di un bambino malato di cancro. L’immedesimazione, appunto. Forse è attraverso questo sentimento potente che la società civile può intraprendere una risposta efficace ai lanciatori di banane e ai loro ispiratori
    .

    • giogg ha detto:

      “La Repubblica”, 18 aprile 2014, QUI

      PARAGONO’ LA KYENGE A UNA SCIMMIA: DUE MESI ALL’EX ASSESSORE LEGHISTA BRESCIANO
      Agostino Pedrali, ex assessore ai Servizi sociali a Coccaglio, postò sulla propria pagina Facebook la foto dell’allora ministro affiancata a quella di una scimmia e con il titolo ‘Separate alla nascita’
      di Redazione

      E’ stato condannato a due mesi di reclusione, pena sospesa, per diffamazione aggravata da finalità di discriminazione etnico razziale Agostino Pedrali, l’ex assessore della Lega Nord ai Servizi sociali del Comune di Coccaglio (Brescia) che nel luglio scorso aveva pubblicato sulla sua pagina di Facebook una foto dell’allora ministro Cècile Kyenge con a fianco quella di una scimmia. Il tutto con il titolo ‘Separate alla nascita’ e il commento: ‘Dite quello che volete ma non assomiglia a un orango, dai guardate bene”.
      L’allora assessore era finito nella bufera e si era dimesso un paio di giorni dopo spiegando in una nota che il suo era stato “un tentativo maldestro di sdrammatizzare la situazione”. La Camera del lavoro di Brescia e la Fondazione Guido Piccini per i diritti dell’uomo hanno espresso in una nota “viva soddisfazione per la sentenza emessa dal tribunale di Brescia”. “Ancora una volta il tribunale di Brescia dimostra una particolare sensibilità su questi temi – continua la nota della segreteria della Cgil bresciana – tutelando il diritto di ciascuno alla differenza. La sentenza, inoltre, contribuisce a dare rinnovata forza al lavoro di chi, giorno per giorno, vigila affinché episodi simili non si ripetano”.
      Nel dicembre 2009 sempre a Coccaglio la giunta organizzò l’operazione ‘White Christmas’, un controllo a tappeto a casa degli extracomunitari col permesso di soggiorno in scadenza, una caccia agli stranieri in nome del Natale. Uno scandalo che fece il giro del mondo
      .

  2. giogg ha detto:

    «La Repubblica», 13 agosto 2013, QUI (via-Eddyburg)

    IL VIRUS RAZZISTA
    Il pregiudizio (degli uomini nei confronti delle donne, di tutti nei confronti dei diversi) è creato dalle relazioni di potere tra dominatori e dominati per renderlo così spontaneo da farlo accettare senza sforzo. Riflessioni sul razzismo dell’Italia di questi anni
    di Nadia Urbinati

    Il pregiudizio non è innocuo. Il suo braccio armato è il razzismo, un’ideologia che unisce gli uguali contro i diversi e che mobilita parole e, quando può, il potere della legge per realizzare il piano di ripulire la società degli indesiderati. Un’ideologia che miete adepti con facilità perché facile da coniugare, elementare ed esprimibile con le parole dell’ignoranza ordinaria, istintiva. Scriveva John Stuart Mill nell’introduzione del “Saggio sulla soggezione delle donne”:

    (1869) che l’idea che la donna sia inferiore nell’intelletto e nelle capacità è così diffusa e radicata da apparire a tutti (perfino alle sue vittime) naturale: poiché istintiva e irriflessa, essa deve essere naturale! Diversamente come potrebbe annidarsi con tanta spontaneità nelle menti di milioni di persone?

    È vero proprio il contrario: quel pregiudizio è una costruzione sociale, tutto fuor che naturale e spontaneo. Creato dalle relazioni di potere tra dominatori e dominati per renderle – questo il vero obiettivo – così spontanee da farle accettare senza sforzo. Lo stesso accade con tutti i pregiudizi: l’eterosessualità è la condizione naturale; la razza bianca è naturalmente superiore; il genere maschile ha una naturale disposizione alla leadership; i settentrionali sono naturalmente più intraprendenti … e si potrebbe continuare, con una lista davvero lunga al punto che perfino tra gli uguali salterebbe fuori prima o poi una ragione di discriminazione. Si parte dall’umanità per cercare le forme inferiori e si arriva alla gente del proprio villaggio, tra la quale certamente albergano dei reietti. La logica del razzismo è quella dell’esclusione e si diffonde a macchia d’olio, per cui non si finisce mai di escludere.
    La pericolosità del razzismo deriva dalla sua facilità di attecchire, alimentato da ignoranza e rifiuto di riflessione. È una gemmazione della pigrizia mentale, il consolidamento di un’atavica tendenza ad orientarsi nel mondo senza troppo sforzo. A Zurigo, nella civilissima e bianchissima Svizzera, qualche giorno fa la star della televisione americana (e una delle persone più ricche degli Usa), Oprah Winfrey è stata trattata come Julia Roberts in “Pretty woman”: voleva acquistare una borsa da 28mila euro e si è sentita rispondere che era troppo costosa per lei, che avrebbe potuto comprare l’intero negozio. In Italia, continuano gli attacchi e gli insulti feroci al ministro Kyenge.
    Il pregiudizio vive di inettitudine mentale e di faciloneria. Per questo rende il razzismo un codice di riconoscimento: i razzisti vanno d’accordo tra loro, si riconoscono e si attraggono; rinforzano le loro credenze a vicenda. Proprio perché genera emulazione il razzismo non è mai un fenomeno isolato: infatti, se una persona ha il coraggio di rivelarsi razzista in pubblico è perché sa di poter contare sull’appoggio dell’opinione. Ecco perché quando si legge che l’ex leader della Lega Nord arringa i suoi a ricorrere ai fucili perché non si può riconoscere uno Stato che ha tra i suoi ministri una donna nera, occorre reagire. Non si possono rubricare quelle parole come un commento sbagliato, una frase infelice, un’uscita propagandistica folcloristica: il razzismo non è mai innocente. E umilia tutti
    .

  3. giogg ha detto:

    «Il Post», 1 settembre 2013, QUI

    SONIA GANDHI COME IL MINISTRO KYENGE
    di Carlo Pizzati

    Secondo me, il ministro Kyenge dovrebbe farsi una risata, anche se amara, leggendo questa notizia che arriva dall’India.
    Il leader del partito fondamentalista indù Shiv Sena, il signor Uddhav Thackeray, ha infatti decretato che Sonia Gandhi, segretario del Congress Party e vedova di Rajiv Gandhi, è un leader politico “importato dall’estero” e dovrebbe quindi “essere rispedita in Italia,” nonostante abbia vissuto gran parte della sua vita in India, dov’è forse la protagonista centrale di quel gioco, spesso tedioso, chiamato politica.
    Qualcuno gli ha fatto notare che la signora Antonia Edvige Albina Maino, detta Sonia, originaria della contrada Maìni di Lusiana sull’Altopiano di Asiago (Vicenza), non la rivorrebbero in Italia. “Ce la dobbiamo tenere.” Potrebbero anche aver ragione, considerato che, secondo i dati più recenti, quest’anno per mancanza di lavoro un vicentino al giorno emigra all’estero.
    Qualcun altro gli ha ricordato che la prima donna presidente del Congress Party era anch’essa una straniera che si chiamava Annie Besant, teosofa e militante irlandese che ha dato il nome anche al mio quartiere di Chennai, Besant Nagar.
    Molti altri estremisti si sono però scatenati nel consueto “sì, è giusto, che se ne torni da dov’è venuta!” echeggiando, dall’altra parte del mondo, alcuni ridicoli cori di leghisti e neo-nazi nostrani (accomunati dall’odio bicromico, separati da nazionalismi solo in teoria contrapposti).
    Pur essendo cresciuto anch’io, come Sonia Gandhi, in provincia di Vicenza, sono in realtà nato in Svizzera. Mi chiedo ora se candidandomi a una delle molte elezioni che ancora attendono l’elettorato italiano, alcune forse più imminenti del previsto, non potrei anch’io sperare, se eletto, di farmi ricacciare in Svizzera, nazione di cui, confesso, sarei così felice di poter finalmente diventare cittadino.
    Ma forse è perché sono vicentino
    .

  4. giogg ha detto:

    Corriere della Sera, 9 agosto 2013, QUI

    Alle origini di un concetto
    RAZZA, PAROLA DECISAMENTE EQUINA
    di Francesco Sabatini

    La decisione dell’Assemblea francese di eliminare dalla Costituzione di quel Paese la parola «race», omologa della nostra razza, fa discutere. Naturalmente, dovrebbe riscuotere il massimo consenso l’intenzione di proclamare in ogni modo la necessità di combattere il razzismo, la discriminazione di gruppi umani per il semplice motivo che appaiono fisicamente diversi da quello a cui si appartiene. Ognuno ci rifletta per suo conto e si convinca di quanto sia stupido e fuorviante ridurre a questo fattore le questioni di concorrenza politico-economica o di contrasto socio-culturale tra i popoli; o si faccia convincere dagli studiosi di storia genetica, come il nostro Luca Luigi Cavalli Sforza.
    Ma ha senso combattere la parola? Personalmente ritengo che nella Costituzione di uno Stato, e mi riferisco anche alla nostra che lo usa in un contesto analogo (art. 3), sia pure usata per condannare la relativa discriminazione, la parola non dovrebbe esserci e quindi do ragione al Parlamento francese. Perché l’uso della parola razza con significato biologico umano (e connessa funzione discriminatoria) è frutto di una banale deriva semantica, che ha finito col creare un concetto, appunto il concetto aberrante che vogliamo combattere.
    Ma che razza di parola è razza (da pronunciare con z sorda, come in piazza)?
    Pochi (pochissimi) sanno che negli anni 60 del secolo scorso ci fu una disputa tra due grandi filologi europei, lo svizzero Walther von Wartburg e l’italiano Gianfranco Contini, sull’etimologia di questa parola. Il primo, nel suo vocabolario etimologico del francese, riconduceva il vocabolo francese, con il suo antefatto italiano che ne è la fonte, al latino ratio, «principio», seguendo una proposta dell’austriaco Leo Spitzer e convalidando tutto un filone di pensiero che implicitamente nobilitava il concetto, portandolo nella sfera della speculazione filosofica. Il secondo scoprì che la parola si era sì, formata in Italia, ma, inizialmente, alla fine del ‘200, come adattamento della parola francese haraz, «allevamento di cavalli» (derivata a sua volta da una parola germanica). La prova di Contini era fulminante (mise in contatto un poemetto francese che presentava haraz «allevamento di cavalli» con le traduzioni italiane che recavano arazzo, razzo e razza), ma Wartburg non si dichiarò convinto.
    E qui, devo pur dirlo, capitò al sottoscritto di confermare la spiegazione di Contini con una decina di attestazioni anche di qualche decennio più antiche: nel Regno di Sicilia, gli Angioini avevano introdotto particolari allevamenti equini chiamati nei documenti latini aracie, termine che fu poco dopo adattato nel volgare razze. Con il commercio di cavalli la parola si diffuse anche in Toscana e nel resto d’Italia e, sempre in groppa ai cavalli, si diffuse in Europa. Riferimenti alle famiglie umane? In senso generico di discendenza o gruppo nazionale sì, ma senza quel carico di discriminazione che cominciò ad affiorare nel tardo ‘700 (con l’economista Ferdinando Galiani; Leopardi ammette le differenze razziali, ma – udite udite – difende la parità dei popoli «in quanto è a diritti umani»; e così via).
    Con la decisione francese, dunque, la parola rientri totalmente nell’ambito della sua «nascita zoologica, veterinaria, equina» (Contini)
    .

  5. giogg ha detto:

    AGGIORNAMENTO del 6 febbraio 2015:
    Una giunta parlamentare multicolore ha stabilito che la frase ingiuriosa di Calderoli contro Kyenge non è razzista, ma normale espressione politica e che le sue parole sono “insindacabili”. Sconcertante. Ora, tuttavia, il giudizio passa all’Aula.
    Intanto, raccolgo qualche opinione:

    – – –
    “La Stampa”, 7 febbraio 2015: “via-Jack’sBlog

    COSÌ IL SENATO SDOGANA IL RAZZISMO
    di Vladimiro Zagrebelsky

    Il razzismo è al bando in Europa. Lo vieta la nostra Costituzione, come lo vietano le dichiarazioni dei diritti fondamentali in Europa, cui anche l’Italia è legata. La condanna del razzismo, in tutte le sue forme, fa parte del nocciolo duro dell’identità culturale e morale d’Europa. In Italia poi v’è un motivo specifico per essere ipersensibili e vigilanti, dal momento che abbiamo prodotto le non dimenticate leggi razziali.
    Eppure vi è molta tolleranza rispetto al razzismo. Atteggiamenti ed espressioni razziste si vedono in situazioni di disagio sociale grave, in qualche modo connesso con la convivenza difficile con persone e gruppi di origine etnica diversa, come in certe periferie urbane. Quegli atteggiamenti sono da respingere, come quelli frutto di grossolanità e incultura che si vedono nelle curve degli stadi. Ma che dire quando il razzismo ostentato e compiaciuto, irresponsabilmente sorridente è mostrato da chi ha responsabilità politiche e un rilevante ruolo pubblico? La Costituzione e la legge condannano il razzismo, in modo che esso non rientra nella libertà di espressione. Tanto meno il razzismo è tollerabile quando chi se ne fa portavoce, per la posizione pubblica che riveste, ha influenza e eco nella società.
    Il senatore Calderoli, vice presidente del Senato, nel corso di un comizio, ha paragonato a un orango Cécile Kyenge, medico italiano di origine congolese, all’epoca ministro dell’Integrazione.Un evidente insulto razzista, privo di qualunque connessione con le posizioni politiche da essa difese, che legittimamente un avversario politico poteva criticare. Un insulto per l’aspetto, il colore, la nascita: razzista, appunto. Anche in Italia un simile insulto è punito come reato. Ma i parlamentari, come stabilisce la Costituzione, non rispondono delle opinioni espresse nell’esercizio della loro funzione.
    Se dunque il senatore Calderoli si fosse espresso in quei termini insultanti nell’esercizio delle sue funzioni parlamentari, egli sarebbe non punibile. Ed è proprio questa la conclusione cui è arrivata la maggioranza della Giunta delle immunità del Senato, all’esito di una discussione in cui si è visto richiamato il diritto di usare espressioni anche aspre nel dibattito politico, si è menzionato il diritto di satira e perfino si è arrivati a dire che «spesso nella satira si paragonano persone ad animali, senza che tali circostanze diano luogo a fattispecie criminose» (sen. Cucca, Pd). E per escludere che le parole del senatore Calderoli siano offensive, si è sottolineato che non vi è una querela della vittima. La dignità personale della ministra Kyenge, che ha ritenuto che un’offesa razzista riguardi la comunità nazionale tutta e non la sua sola persona, è stata utilizzata per proteggere l’offensore.
    E dunque si tratterebbe di lecita critica politica. Naturalmente questa è una decisione politica, su cui hanno pesato considerazioni di interesse politico. Infatti è stata richiamata l’importanza della funzione svolta dal senatore Calderoli (con cui evidentemente è meglio aver buoni rapporti). Ma la naturale politicità della decisione non chiude il discorso; anzi impone di chiedersi quale politica sia quella che, per esigenze di rapporti politici in Parlamento, chiude gli occhi sul razzismo. La Giunta delle immunità avrebbe dovuto valutare se si era trattato di esercizio delle funzioni parlamentari, poiché l’insindacabilità delle opinioni dei membri del Parlamento non riguarda genericamente l’ambito della attività politica. Sia la Corte Costituzionale, sia la Corte europea dei diritti umani hanno più volte ritenuto che la prassi del Parlamento italiano di coprire ogni genere di attività politica sia esorbitante e inaccettabile rispetto alla esigenza di riconoscere i diritti altrui.
    E’ facile quindi che, se il Senato approverà la proposta della Giunta, la Corte Costituzionale sia chiamata ad annullarla come contraria alla Costituzione. Ma anche di questa questione la Giunta non si è data cura. La volgarità del lessico di tanti politici è da tempo divenuta abituale in Italia. Si tratta di un abbrutimento della dialettica politica, che naturalmente non resta in patria, ma fa subito il giro del mondo, contribuendo anch’esso allo svilimento dell’opinione internazionale sull’Italia. Tanto che qualche anno fa, per certe espressioni del ministro dell’Interno Maroni contro i Rom, intervenne il Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa, preoccupato per l’effetto che certi discorsi, certo linguaggio tenuto da responsabili politici hanno sulla formazione dell’opinione pubblica, stimolando e legittimando atteggiamenti razzisti.
    Il razzismo ostentato con ingiurie rivolte a responsabili politici, diversi dalla maggioranza per origine o colore, non è solo un fatto italiano. Ma qui è tollerato e addirittura nobilitato
    come legittima manifestazione della funzione parlamentare. La Francia, prima dell’Italia, ha visto ministri che sono stati insultati non per la loro posizione politica, ma per la loro origine. Ora vittima degli stessi insulti è la ministra della giustizia Christiane Toubira. Ma in Francia non si crede che l’insulto razzista rientri nella libertà di espressione. E non si fermano i giudici, poiché sono offesi i valori fondamentali della Repubblica. Che, come anche il Senato dovrebbe credere, sono gli stessi della nostra Repubblica
    .

  6. Pingback: Aboliamo la parola “razza” dalla Costituzione | il Taccuino dell'Altrove

  7. giogg ha detto:

    “Corriere delle Migrazioni”, 8 marzo 2015, QUI

    DEL PARLAR MALE, ANCHE A SINISTRA
    di Annamaria Rivera

    Per ciò che riguarda migrazioni e diritti dei migranti, razzismo e antirazzismo, il discorso pubblico italiano, anche nelle sue varianti non-razziste, spesso sembra atteggiarsi come se ogni volta fosse la prima volta: gli antefatti e lo sviluppo di questo o quell’accadimento, questo o quel problema, questa o quella rivendicazione, questo o quel concetto sono semplicemente rimossi.
    Una tale smemoratezza non riguarda solo le retoriche pubbliche maggioritarie, ma talvolta influenza l’atteggiamento e il discorso delle minoranze attive, riflettendosi anche nel linguaggio e nel lessico, influenzati dalla vulgata mediatica e perfino dal gergo del senso comune.
    Mentre li credevamo archiviati grazie a un lungo lavoro critico, tornano in auge formule e vocaboli legati a schemi interpretativi, anche spontanei, del tutto infondati. Non potendo farne l’intero catalogo, ci soffermiamo solo su alcuni.

    Razza-razziale
    Il razzismo è anzitutto un’ideologia, quindi una semantica: è costituito da parole, nozioni, concetti. Sicché l’analisi critica, la decostruzione e la denuncia del sistema-razzismo hanno obbligatoriamente un versante lessicale e semantico. Così se tu parli di discriminazione razziale, invece che razzista, puoi finire inconsapevolmente per legittimare la nozione e il paradigma della razza, suggerendo l’idea che a essere discriminate siano persone differenti per ‘razza’.
    A incorrere in sbavature lessicali di tal genere possono essere anche locutori antirazzisti, per di più colti; perfino istituzioni e associazioni deputate a contrastare il razzismo o addirittura a promuovere il rispetto di codici deontologici nel campo dell’informazione. Questo appare oggi tanto più paradossale se si pensa che pure in Italia, per iniziativa di un gruppo di antropologi-biologi, poi anche di antropologi culturali, è in corso una campagna per la cancellazione di ‘razza’ dalla Costituzione e dai codici .

    Etnia-etnico
    Frequente, anche in ambienti antirazzisti, è l’abuso di locuzioni quali ‘società multietnica’, ‘quartiere multietnico’, ‘corteo multietnico’… Sebbene qui usate in senso intenzionalmente positivo, formule di tal genere rinviano pur sempre a ‘etnia’: una nozione assai controversa, poiché basata sull’idea che esistano gruppi umani fondati su qualche principio ancestrale, su qualche identità originaria (Cfr R. Gallissot, M. Kilani, A. Rivera,
    L’imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari 2012).
    Nei contesti discorsivi mainstream, ‘etnici’ sono sempre gli altri, i gruppi considerati particolari e differenti dalla società maggioritaria, ritenuta normale, generale, universale. Non è raro che ‘etnia’ sia adoperata, in riferimento alle minoranze, ai rom, alle popolazioni di origine immigrata, come sostituto eufemistico di ‘razza’. Tanto che perfino nella cronaca della migliore stampa italiana è possibile imbattersi in locuzioni paradossali quali individui di etnia latinoamericana o addirittura di etnia cinese; mentre mai ci è capitato di leggere di etnia europea o di etnia nordamericana.
    In ogni caso, che sia per pregiudizio o intento discriminatorio, per incompetenza o sciatteria, quando si tratta di qualificare cittadine/i di origine immigrata o appartenenti a minoranze sembra non valere il criterio neutro, o almeno simmetrico, della nazionalità.

    Guerra tra poveri
    E’ una delle retoriche più abusate, anche a sinistra, perfino in quella che si pretende colta. Di solito la si adopera in riferimento a due categorie di presunti belligeranti, immaginati come simmetrici, una delle quali è costituita da qualche collettività di migranti o di rom.
    L’abuso di questa formula è indizio di un tabù o di una rimozione: si ha difficoltà ad ammettere che il razzismo possa allignare tra le classi subalterne, così da scatenare guerre contro i più poveri. Guerre asimmetriche, non solo perché di solito gli aggressori sono i nazionali, ma anche perché essi, per quanto disagiati possano essere, godono pur sempre del piccolo privilegio della cittadinanza italiana, che conferisce loro qualche diritto in più.
    Un tale razzismo – che nella letteratura sociologica è detto “ordinario” o “dei piccoli bianchi” – spesso attecchisce tra coloro che patiscono qualche forma di disagio sociale e/o di marginalità anche spaziale. Favorito da dissennate politiche abitative, urbanistiche, più in generale sociali, spesso è anche fomentato ad arte dagli imprenditori politici del razzismo.
    A volte, la formula passe-partout di ‘guerra tra poveri’ non ha la minima base che ne giustifichi l’utilizzo, come nel caso dei ripetuti assalti armati al Centro per rifugiati di Viale Morandi, nel sobborgo romano di Tor Sapienza, a novembre del 2014. Il tentato pogrom contro adolescenti fuggiti da guerre e altre catastrofi fu spacciato come espressione spontanea della rabbia dei residenti esasperati dal ‘degrado’, quindi come un episodio della ‘guerra tra poveri’ . In realtà, a dirigere gli assalti, cui partecipò un numero di residenti limitato, fu una squadraccia di ‘fascisti del Terzo Millennio’, a loro volta probabili esecutori, di mandanti legati a Mafia Capitale.
    Poco tempo prima, di ‘guerra tra poveri’ si era parlato, anche a sinistra, a proposito di un crimine particolarmente odioso, accaduto il 18 settembre 2014 alla Marranella, quartiere romano del Pigneto-Tor Pignattara: il massacro a calci e pugni di Muhammad Shahzad Khan, un pakistano di ventotto anni, mite e sventurato, per mano di un bullo di quartiere, un diciassettenne romano, istigato dal padre fascista.
    Numerosi sono i precedenti di questo pigro schema interpretativo. Che di volta in volta è stato applicato ai pogrom contro i rom di Scampia (2000) e di Ponticelli (2008), istigati dalla camorra e da interessi speculativi; alla strage di camorra di Castelvolturno (2008); ai gravi fatti di Rosarno (2010), anch’essi fomentati da interessi mafioso-padronali.

    Tutto ciò è indizio di un’avversione crescente per le interpretazioni complesse, favorita dal chiacchiericcio socialmediale, che a sua volta contribuisce al crescente conformismo che caratterizza il dibattito pubblico. Il razzismo, si sa, poggia su una montagna costituita anche da cattive parole. Decostruirle e abbandonarle non è fare esercizio astratto di ‘politicamente corretto’ (sebbene quest’ultimo non sia affatto disprezzabile), bensì intaccarne il sistema ideologico e semantico.

  8. giogg ha detto:

    “Rivista Studio”, 19 aprile 2016, QUI

    CORBYN E LA SUA IDEA DI SINISTRA
    Il leader laburista è legato a una concezione del mondo ferma agli anni Settanta, e i suoi problemi con l’antisemitismo ne sono una dimostrazione.
    di Anna Momigliano

    In queste settimane il Labour di Jeremy Corbyn è alle prese con dure, e purtroppo non del tutto infondate, accuse di antisemitismo. Nessuno, a scanso di equivoci, insinua che Corbyn odi gli ebrei: quello che gli si rimprovera è di avere preso sottogamba, e troppo a lungo, frasi e atteggiamenti smaccatamente antisemiti da parte di esponenti del suo partito. Il lato interessante nella vicenda è che, oltre a una serie di cadute di stile tra i laburisti, evidenzia anche una questione più ampia. E cioè che una parte della sinistra europea ha una visione poco matura del razzismo e sta affrontando le questioni ad esso legate con schemi fermi agli anni Settanta. Eletto con una maggioranza schiacciante alla guida del partito lo scorso settembre, Corbyn è talvolta percepito come un politico di rottura che ha spinto il Labour su posizioni radicali, allontanandolo dalla sua tradizione moderata vicina ai Democratici americani. Sotto alcuni aspetti però, la sua visione del mondo è un ritorno al passato e riflette un modo di pensare comune anche tra l’ala sinistra dei liberal americani, una divisione del mondo tra “centro” e “margini”.
    Recentemente una consigliera comunale di Luton, Aysegul Gurbuz, si è dovuta dimettere per avere twittato che Hitler era «la migliore persona della storia». Poco prima un ex sindaco laburista dell’area metropolitana di Bradford, Khadim Hussain era stato sospeso dal partito per avere protestato su Facebook il fatto che si insegnasse nelle scuole britanniche la storia dell’Olocausto, definito come «l’uccisione di sei milioni di sionisti». Anche una giovane attivista della sezione del Labour per i diritti dei lavoratori, Vicki Byrne, è stata sospesa per tweet antisemiti (pare riguardassero il «nasone» di uno dei due Miliband). Le misure disciplinari sono state intraprese soltanto dopo le dure proteste della comunità ebraica. Byrne in particolare era già stata sospesa per affermazioni antisemite, ma poi era stata riammessa nel partito.
    A rendere l’idea dell’aria che tira, inoltre, il presidente degli studenti laburisti dell’università di Oxford Alex Chalmers si è dimesso a febbraio sostenendo che troppi suoi colleghi «hanno dei problemi con gli ebrei»: tra le cose che segnalava, l’utilizzo frequente del termine “Zio” (che non sta per “ciao zio”, ma è un’abbreviazione dispregiativa di “Zionist”) per rivolgersi a studenti ebrei, e l’opinione diffusa che le segnalazione di episodi di antisemitismo fossero percepite come «allarmi ingiustificati da parte di sionisti che urlavano al lupo, al lupo!». E in effetti sembra la percezione del fratello di Corbyn, Piers. Che, quando il presidente delle comunità ebraiche Jonathan Arkush ha cominciato a protestare, ha commentato: «I sionisti non riescono a sopportare la sola idea che si parli di diritti palestinesi». Corbyn ha difeso il fratello. A onor del vero, ha anche aperto un’indagine sui casi di antisemitismo nel suo partito, ma lo ha fatto soltanto dopo che il tema era parecchio montato sui media, inclusi giornali amici come il Guardian. In altre parole: ha deciso di prendere la questione seriamente quando non aveva altra scelta.
    L’impressione, dunque, oltre a un problema di antisemitismo vero e proprio tra certe frange marginali del Labour, ci sia anche un problema di tolleranza dell’antisemitismo in frange assai meno marginali. In molti sono convinti che la questione sia soprattutto legata al conflitto israelo-palestinese. Come ha riassunto il commentatore del Guardian Jonathan Freedland, in passato Corbyn ed altri, quando si sono «trovati davanti a potenziali alleati sulla questione palestinese» si sono dimostrati «disposti a chiudere un occhio su eventuali oscenità che avrebbero potuto dire sugli ebrei». Freedland nota come in passato Corbyn sia stato vicino a personaggi come Paul Eisen, dichiarato negazionista, e lo sceicco Raed Salah, che sostiene gli ebrei facciano il pane azzimo col sangue dei bambini cristiani. Sempre sul Guardian, anche Tony Klug legava la questione al conflitto israelo-palestinese. La sua analisi è questa: parte del Labour tende a condonare l’antisemitismo quando proviene da attivisti filo-palestinesi; inoltre tende a guardare con diffidenza gli ebrei, o per lo meno quelli che sostengono Israele; questo avviene soprattutto perché proietta sullo Stato ebraico i crimini coloniali commessi dalla Gran Bretagna, dimenticando il fatto che Israele sì ha commesso crimini, ma a differenza dell’Impero britannico è nato da un’esigenza di sopravvivenza e non dalla sete di dominio.
    Questa analisi può essere molto utile a spiegare il tradizionale schieramento della sinistra nel campo filo-palestinese. Aiuta un po’ meno però a spiegare come una parte della sinistra sia giunta a prendere sottogamba attacchi rivolti agli ebrei, non agli israeliani o ai “sionisti”. Forse se a sinistra talvolta si tende sottovalutare il razzismo contro gli ebrei, il problema c’entra poco con la concezione della politica estera e c’entra parecchio con la concezione del razzismo. Il fatto è che indignarsi per l’antisemitismo, in alcuni ambienti, è diventata una questione “poco di sinistra”, quasi non si trattasse di una forma di razzismo come gli altri. È una tema è forse più marcato in Gran Bretagna, ma non è squisitamente inglese. Uno studente di Stanford, Gabriel Knight, non solo l’ha passata liscia per avere dichiarato durante un consiglio studentesco che «dire che gli ebrei controllano i media non è antisemitismo», ma è stato difeso… dalla coalizione antirazzista.
    Com’è che si è arrivati a considerare l’antisemitismo come qualcosa di “altro” e meno serio rispetto al razzismo? Un’altra allieva di Stanford Madeleine Chang, ha raccontato che la domanda più frequente che sente tra gli altri studenti è: «Com’è possibile che gli ebrei siano oppressi se sono bianchi?». Di questa affermazione, Chang si sofferma sulla questione razziale (gli ebrei, evidentemente, non sono una “razza”, dunque chi è abituato a combattere il razzismo fatica a capire che diffondere stereotipi antisemiti è pericoloso). Ma forse il concetto più interessante sta proprio in quegli «oppressi».
    Negli ultimi quaranta o cinquant’anni una buona parte della sinistra ha affrontato la questione del razzismo principalmente in termini di “potere” e “oppressione”. Nel suo saggio del 1970 White Awareness: Handbook For Anti-Racism, considerato un classico della letteratura anti-razzista, Judith Katz ha popolarizzato la definizione di razzismo come la «somma di pregiudizio e potere». Il razzismo dunque è principalmente lo strumento con cui una maggioranza al potere, il centro egemonico, cerca di impedire l’emancipazione di una minoranza emarginata, socialmente ed economicamente. È l’insieme dei meccanismi che rendono più difficile che un ragazzo di colore diventare medico o ingegnere, perché ha accesso a delle scuole più scadenti e perché ospedali e studi legali sono meno inclini ad assumere personale di colore (un’interessante ricerca australiana del 2009 stimava che, a parità di curriculum, un giovane nero ha il 68% in più delle difficoltà nel trovare lavoro). Il razzismo sono i pregiudizi, magari inconsci, che ci spingono a considerare qualcuno meno preparato (o più pericoloso) per via delle sue origini, e dunque ad escluderlo da posizioni di potere e responsabilità.
    Cosa c’entra l’antisemitismo in tutto questo? Non risulta che gli ebrei siano marginalizzati, svantaggiati nel mondo del lavoro o degli studi. Risulta però che, ogni tanto, gli ebrei vengano insultati – e in qualche raro caso, com’è accaduto Parigi, a Tolosa e a Bruxelles, persino ammazzati – per il loro essere ebrei. Il fatto che una minoranza possa essere perseguitata senza essere discriminata, che il razzismo possa essere anche una questione di semplice odio e non soltanto di oppressione, può essere difficile da metabolizzare. La contrapposizione tra un «centro egemonico» al potere e vari gruppi minoritari non spiega soltanto la concezione riduttiva del razzismo diffusa nella sinistra à la Corbyn, ma è alla base della concezione del mondo di molti liberal anglosassoni, che lo storico del pensiero politico dell’Università di Gerusalemme Gabi Taub ha riassunto così: «Immaginate una cerchia centrale che contiene il gruppo egemone: i maschi bianchi eterosessuali. Ora disegnate cerchi più piccoli al di fuori del cerchio egemone, ognuno dei quali rappresenta un gruppo: donne, neri, gay e il Terzo Mondo. Ciascuno di questi gruppi per affermarsi ha bisogno di prendere d’assalto il centro da una direzione minoritaria».
    Questa visione del mondo – che non solo evidenzia una contrapposizione tra maggioranza egemonica e minoranze oppresse ma dà per scontato che tutte le minoranze abbiano un obiettivo comune – aveva molto senso negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, fa notare Taub, quando donne, minoranze etniche e studenti si allearono per fare valere i propri diritti. Ma forse non è molto appropriata per capire alcune dinamiche contemporanee. Cosa succede, si domanda, quando gli interessi di due gruppi oppressi non coincidono? «Non c’è ragione di dare per scontato», nota Taub, «che la battaglia di un immigrato in Germania di conservare la sua identità senza farsi schiacciare dal centro egemonico lo faccia sentire alleato del movimento per i matrimoni gay»
    Cosa succede, poi, quando a trovarsi attaccato è un gruppo che non sta ai margini, ma che è stato più o meno inglobato nel sistema? E quando una minoranza è attaccata da membri di un’altra minoranza? Alcune delle esternazioni antisemite qui citate (ma non tutte, ovviamente) provenivano da membri del Labour figli di immigrati turchi e pachistani. Il vecchio modello liberal della contrapposizione tra centro egemone e margini non regge più, e chi ci resta legato fatica a comprendere la gravità di alcune situazioni e ad agire di conseguenza
    .

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