Michele Serra riflette intorno all’essere di sinistra:
«[…] La sinistra, dalla Rivoluzione francese in poi, è quella vasta area della politica e del pensiero che pretende di organizzare il cambiamento della società. Prima interpretandolo e poi orientandolo. Progettare il cambiamento è la sua stessa funzione, la sua ragione d’essere; e il verbo “cambiare” è stato, per molte generazioni di intellettuali e di militanti, di uso quotidiano. […] Dire “qualcosa di sinistra”, dunque, è dire qualcosa in grado di descrivere o anticipare o favorire o provocare un cambiamento. Le parole della sinistra dovrebbero essere (o provare a essere) in qualche modo preveggenti: aiutare a immaginare il futuro, ad architettarlo. […] Direi che un buon criterio, di qui in avanti, per provare a dire “qualcosa di sinistra”, e per capire se qualcuno sta dicendo davvero “qualcosa di sinistra”, sia valutare, sempre, se e quanto questa cosa contiene il proposito, e magari la capacità, di incidere nel futuro, anche un piccolo pezzo di futuro, e di immaginarlo più equo, e migliore. […]».
(“Progressisti, smettete di rimpiangere il passato“, in «La Repubblica», 16 luglio 2013)
Anche i Wu Ming, negli ultimi tempi, si sono cimentati con questo tema:
«[…] Tagliando con l’accetta, «di sinistra» è chi pensa che la società sia costitutivamente divisa, perché al suo interno giocano sempre interessi contrapposti, prodotti da contraddizioni intrinseche. Ci sono i ricchi e i poveri, gli sfruttatori e gli sfruttati, gli uomini e le donne. Da questa premessa generale, che vale per tutta la sinistra, discendono tante visioni macrostrategiche, anche molto lontane tra loro: socialdemocratica, comunista, anarchica, ma tutte si basano sulla convinzione che la società sia in partenza divisa e diseguale e che le cause della diseguaglianza siano profonde e, soprattutto, endogene.
«Di destra», invece, è chi pensa che la nazione sarebbe – e un tempo era – unita, armoniosa, concorde, e se non lo è (più) la colpa è di forze estranee, intrusi, nemici che si sono infilati e confusi in mezzo a noi e ora vanno ri-isolati e, se possibile, espulsi, così la comunità tornerà unita. Tutte le destre partono da questa premessa, che può essere ritrovata a monte di discorsi e movimenti in apparenza molto diversi, da Breivik al Tea Party, dalla Lega Nord ai Tory inglesi, da Casapound agli «anarcocapitalisti» alla Ayn Rand. Per capire se un movimento è di destra o di sinistra, basta vedere come descrive la provenienza dei nemici. Invariabilmente, i nemici vengono «da fuori», o almeno vengono da fuori le idee dei nemici. […]»
(“Consigli per riconoscere la destra sotto qualunque maschera“, in «Giap», 20 febbraio 2013)
Altri contributi di Wu Ming sono: “Appunti diseguali sulla frase «Né destra, né sinistra»” (2 gennaio 2012) e l’intervista a «Repubblica» sul M5S “A forza di iniettarsi dosi di male ‘minore’” (12 marzo 2013)
Celebre, infine, è la definizione fornita da Gilles Deleuze nel 1988:
«Se mi si chiede come definire la sinistra, essere di sinistra, direi due cose. Ci sono due modi. E anche qui… È anzitutto una questione di percezione, c’è una questione di percezione: cosa vuol dire non essere di sinistra? È un po’ come un indirizzo postale. Partire da sé: la strada in cui ci si trova, la città, il Paese, gli altri Paesi e via via più lontano. Si comincia da sé nella misura in cui si è privilegiati, vivendo in paesi ricchi si dice: “Come fare perché la situazione tenga?”. È chiaro che ci sono dei pericoli, che tutto questo non può durare, che è demenziale. Bene, ma come fare perché duri? […] Essere di sinistra è il contrario. È percepire […] innanzitutto il mondo, il continente […], la Francia, eccetera eccetera. È un fenomeno di percezione. Si percepisce innanzitutto l’orizzonte, si percepisce all’orizzonte.[…]».
AGGIORNAMENTO:
“Repubblica” sta raccogliendo varie opinioni e testimonianze sull’«essere di sinistra» (ne fornisco l’elenco tra i commenti). Qui segnalo alcuni interventi particolarmente illuminanti.
Marco Revelli:
«Cosa vuol dire essere di sinistra? È un impulso prepolitico, una radice antropologica che viene prima di una scelta di campo consapevole. Davanti alle disparità di classe o di censo o di condizione sociale, c’è chi si compiace, traendone la certificazione del proprio essere superiore. E c’è chi si scandalizza, come capitò a Norberto Bobbio quando scoprì da bambino la miseria dei contadini che morivano di fame. Lo “scandalo della diseguaglianza”, lo chiamò proprio così. Un’indignazione naturale, che non è comune a tutti […]».
(“Bisogna sentire lo scandalo della disegualianza sociale“, «La Repubblica», 8 agosto 2013)
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Tra i commenti sono presenti contributi di Ulrich Beck, Francesco De Gregori, Giuseppe Civati, Alberto Asor Rosa, Fabrizio Gifuni, Wu Ming, Marco Revelli, Michela Murgia, Massimo Cacciari, Sergio Staino, Stefano Rodotà, Stefano Benni, Ulrich Beck, Michele Serra, Matteo Renzi.
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AGGIORNAMENTO del 13 marzo 2014:
Nella trasmissione tv “Pane quotidiano” (12 marzo 2014, condotta da Concita De Gregorio, 27′) Domenico De Masi ha fornito una distinzione tra destra e sinistra in politica: «La sinistra è solidale con gli sfruttati; la destra tende a esserlo con gli sfruttatori» (al minuto 16). E poi ha proseguito così: «Oggi nel mondo gli 85 più ricchi hanno una ricchezza pari a 3miliardi e 200mila persone. In Italia i primi 10 contribuenti, 10 persone, hanno una ricchezza pari a 3milioni e mezzo di italiani. Ecco, la sinistra si pone per quei 3milioni e mezzo». (Domanda della conduttrice:) Lei crede che la distinzione tra destra e sinistra sia superata? «Ma assolutamente no. Dice che è superata chi l’ha superata, nel senso che s’è messo dalla parte degli sfruttatori e sta a posto; vuole conservare… sta tra quei 10 e, ovviamente, vuole che non si cambi assolutamente nulla».
Maria Novella Oppo ne ha scritto una osservazione su “L’Unità”: QUI.
Al minuto 15 della trasmissione tv è stata messa in onda una definizione data direttamente da Norberto Bobbio: «La differenza tra il conservatore e il riformatore è che il conservatore non ha bisogno di giustificare la conservazione. Invece colui che vuole riformare la deve giustificare, deve giustificare perché la vuole».
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AGGIORNAMENTO del 22 marzo 2014
«Se dovessimo guardare lo stato sociale del mondo, dovremmo immaginare una rinascita della politica e delle sue tradizionali distinzioni: il nostro mondo è un mondo spaventosamente diseguale, è un mondo nel quale il piccolo stato dei ricchi è schizzato in alto e una grande massa di poveri giace alla base della piramide sociale. Dovremmo dire che ci sono tutte le condizioni perché una sinistra si costituisca in contrapposizione alla logica delle destre, che ha prodotto questo mondo. Se la sinistra è quella che ci ha insegnato Bobbio, se è quella che fa dell’uguaglianza un valore in contrapposizione alla destra che tesse le lodi della diseguaglianza. [Tutto ciò] non accade perché siamo in presenza di una crisi storica della politica, prima ancora delle sue identità contrapposte. C’è una frase che a me ha colpito del Governatore della Banca Centrale Europea, subito dopo le elezioni politiche italiane dello scorso anno: Mario Draghi, di fronte allo sconcerto di un esito elettorale che non lasciava intravedere maggioranze stabili possibili, col timore del caos, per rassicurare gli investitori – i cosiddetti mercati – disse “State tranquilli, non succederà nulla perché abbiamo il pilota automatico”. Questa frase ha rassicurato i mercati, infatti lo spread è crollato, ma avrebbe dovuto allarmare gli elettori, chiunque crede nella politica. Il pilota automatico è l’esatto opposto di ciò che si intende per politica, cioè la possibilità che un popolo scelga liberamente l’ordine sociale che preferisce; il pilota automatico è la negazione» (Marco Revelli: VIDEO)
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AGGIORNAMENTO del 16 maggio 2014:
«Credo che la sinistra per potersi definire tale debba essere grande e aperta, capace di governare, di allearsi con altri soggetti, con un messaggio che sia comprensibile alla maggioranza delle persone», Giuseppe Civati
(Fonte: “Ciwati“, “Il Post“) (presente anche tra i commenti qui in basso)
AGGIORNAMENTO del 21 maggio 2014:
A pochi giorni dalle elezioni europee 2014, Pippo Civati elenca gli elementi che “fanno” la sinistra: La passione, l’alternativa, la critica, l’indignazione (QUI o tra i commenti).
AGGIORNAMENTO del 26 luglio 2014:
Giovanni Maria Bellu ha intervistato Laura Boldrini, Presidente della Camera dei Deputati, ad un anno e quattro mesi dalla sua elezioni a tale carica: un bilancio a proposito di sinistra, politica e difesa dei più deboli. Tra l’altro, Boldrini ha detto: “Ritengo che il livello di democrazia di un Paese si giudichi anche dai servizi che riesce a offrire alle persone più vulnerabili e soprattutto che il progressismo possa dirsi tale solo se ha come scopo il ridurre le varie disuguaglianze. […] La sinistra dovrebbe stare dalla parte di chi ha più bisogno e spendersi politicamente per questo. Se non lo fai, perdi la tua identità, la tua natura e finisci per copiare dagli altri qualcosa che non è tua, che infatti poi ti riesce male. […] Nell’era post ideologica secondo me il mondo si divide tra chi crede nella sostenibilità sociale e ambientale della globalizzazione, difende i diritti e per questo propone un diverso modello di società, e chi invece ha paura di tutto e vuole mantenere lo status quo” (“Left”, 26 luglio 2014, QUI).
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INTEGRAZIONE del 26 febbraio 2016:
Tahar Ben Jelloun demande au Président Hollande: «C’est quoi être de gauche aujourd’hui ?».
«Moi président…, je serai de gauche, c’est-à-dire foncièrement engagé avec les déshérités, les laissés pour compte, les exclus, ceux que la vie a oubliés, ceux que la droite a sacrifiés, ceux que le capitalisme sauvage de la société libérale a simplement massacrés et poussés dans les tranchées du désespoir.
Moi président…, j’aurai l’ambition et la prétention de les défendre, de les sauver du grand naufrage puisque je serai parmi eux, je serai l’un d’eux, je serai un homme de gauche avec des convictions et des sacrifices, je serai un militant, un combattant…».
Altri riferimenti li ho appuntati QUI.
«La Repubblica», 17 luglio 2013, QUI (via-Eddyburg)
ULRICH BECK: «CI SALVERA’ LA GENERAZIONE DEI GIOVANI COLOMBO»
Molte persone sono sempre più deluse dagli stati-nazione da questo sentimento sta nascendo una reinvenzione dei valori. Si orientano attraverso i social media. Difendono l’ambiente contro le élite e riscriveranno le categorie politiche. Il grande sociologo spiega come
di Riccardo Staglianò
Da che parte, a chi guardare per ritrovare la strada della Sinistra, variamente smarrita un po’ in tutto il mondo? Ulrich Beck, il sociologo della “società del rischio”, è da tempo convinto che ogni risposta nazionale ai problemi globali sia destinata a fallire. Vale anche in questo caso. Più che una cassetta degli attrezzi per riparare i partiti progressisti offre un campionario di pratiche, una serie di istantanee da una realtà che sta cambiando più in fretta delle imbolsite élite politiche. Dalla Primavera araba a quella che ha battezzato la Generazione dei Nuovi Colombo, dall’uso strategico delle catastrofi alle “New York svizzere”, scorge embrioni di una nuova Sinistra post-ideologica, giovane, ambientalista, altamente connessa. Ultima speranza per rivitalizzare quella perdente dei padri.
Professore, cosa significa “sinistra” nell’estate del 2013?
«Dieci anni fa le avrei risposto che eravamo oltre destra e sinistra. Oggi non ne sono più così sicuro. Nel mondo sono successe così tante cose che credevamo inimmaginabili. Credo che ci sia bisogno di reimparare, reinventare la metafora della sinistra. Abbiamo anche bisogno di un nuovo linguaggio, una nuova fenomenologia di cosa sono oggi destra e sinistra».
Quali valori ha in mente?
«Purtroppo è più facile definirli in negativo che in positivo. Ma proverò. Per cominciare, al posto della solidarietà di classe è subentrato un “individualismo morale”, ovvero un individualismo che, grazie al senso di connessione che ci danno le nuove tecnologie, si sente responsabile per gli altri, una volta percepiti come distanti. Un nuovo individualismo che presuppone una dimensione cosmopolita. Poi un’attenzione ai problemi globali, ma in un modo molto locale e personale, ben diverso dall’agenda degli stati-nazione. Un esempio lampante è quello dell’ambiente, in cima alle preoccupazioni dei giovani di ogni paese. E infine la reinvenzione dello stato sociale su una base transnazionale, nel nostro caso europea. Solo così si possono dare risposte all’insicurezza economica, e quindi esistenziale, delle nuove generazioni. Nessuna sinistra può dirsi tale senza farsi carico di questi punti».
Di recente si è occupato molto dei movimenti di protesta globali: è lì che bisogna cercare le tracce della nuova sinistra?
«Di certo si può dire che molte persone sono sempre più deluse dalla politica degli stati-nazione, quella che si preoccupa delle élite economiche. Ed è da questa delusione che sta nascendo una reinvenzione dei valori di sinistra. Dalla Primavera araba a Istanbul e a Rio, e ora di nuovo al Cairo, la vera posta in gioco è ripensare la natura stessa dello Stato. Un paragone è impossibile, tuttavia vedo caratteristiche comuni. Intanto, ognuna di queste ribellioni non sarebbe stata possibile senza i social media. E poi sembra più importante il dissenso in sé e l’esperienza di essere coinvolti nella protesta rispetto a richieste specifiche. Infine ritorna il tema della disfunzionalità della politica e delle sue élite».
Lei sta parlando di movimenti che potremmo definire in senso lato di sinistra. I partiti però non sono un’altra cosa?
«Certo. È nella natura della protesta che la gente voglia soprattutto il cambiamento. Ma le cose da cambiare sono così tante che serviranno decenni. Nel frattempo sia i partiti di destra che di sinistra si trasformeranno o scompariranno. In sempre più paesi le proteste potranno divampare e poi spegnersi. Il peggior populismo e la destra più estrema potranno prosperare. E la socialdemocrazia potrà passare un lungo periodo in ritirata».
Non esattamente un scenario tranquillizzante. Ma torniamo a movimenti e partiti…
«Una delle differenze principali è che i partiti sono creature dello stato-nazione. Mentre la “generazione globale”, quella dei social media, si trova in una situazione simile a quella di Colombo, quando il suo viaggio gli fece incontrare un continente nuovo e imprevisto. Questi Nuovi Colombo stanno esplorando un mondo nuovo, per il quale ancora non esistono né nomi né mappe. È una nuova era di scoperta. E le proteste potrebbero continuare fino a quando la politica stessa non sarà rifondata».
Nell’attesa però i temi classici della “vecchia” sinistra, tipo diseguaglianza economica e lavoro, sono più attuali che mai. Interessano anche ai movimenti della nuova sinistra?
«Certo. Ma hanno scarsissima fiducia nel fatto che i partiti possano prendersi cura dei loro problemi esistenziali e rappresentare i loro legittimi interessi. Lo si vede bene in Brasile, un paese trasformato in meglio dal partito al potere, dove la disoccupazione è scesa ai minimi storici. Dal quale, ciononostante, si sta alzando un forte grido di dolore dal basso contro uno stato distante e un’élite corrotta».
Il catalogo dei leader progressisti recenti a grandi speranze ha fatto seguire anche delusioni: Blair, Zapatero, per certi versi Obama, ora Hollande. Perché è tanto difficile mantenere promesse di sinistra?
«Tutte queste persone hanno usato mantra simili: più mercato, più tecnologia, più crescita, più flessibilità. Parole d’ordine che non forniscono alcuna rassicurazione nei tempi in cui viviamo. Piuttosto il contrario. Hanno usato mezzi e risposte della politica degli stati-nazione, spesso in una versione neoliberale. Perciò hanno deluso».
E invece i giovani, la sua Generazione dei Nuovi Colombo, quali parole chiave hanno a cuore?
«Un sondaggio svolto dal centro di ricerca che dirigo mostra che i giovani sono incerti su quasi tutto. Tranne che sulla questione ambientale, che ha per loro un’alta priorità. E qui si realizza un nuovo paradosso della società del rischio che i vecchi partiti sembrano non afferrare, e che chiamerò “catastrofismo illuminante”. Ovvero, drammatizzare il cambiamento climatico e la crisi ambientale non ha altro scopo che evitare la catastrofe. Chi mette in guardia contro di essa lo fa solo per essere smentito. Quest’uso profilattico delle catastrofi future ha creato un nuovo tipo di movimento di protesta, auto-mobilitante, che va oltre le frontiere».
Vede un partito o un leader al quale la sinistra europea dovrebbe guardare per ispirarsi e tornare a vincere?
«Più che a livello nazionale o globale si possono trovare modelli vincenti al livello di comunità, più precisamente delle città globalizzate. Ero a Basilea di recente e lì è in atto un dibattito eccitante sulle “piccole New York” svizzere. Specialmente Zurigo si è trasformata negli ultimi vent’anni in un posto che detta le tendenze metropolitane. La sua caratteristica è essere un collage di diversi milieu globalizzati. Come a New York queste comunità si sono reinventate in diverse parti della città, con un viavai continuo di nuove facce, storie, tendenze, tipo il giardinaggio urbano o le biciclette a scatto fisso. Sorprendentemente questo ambiente cosmopolita di minoranze ha conquistato una chiara maggioranza nella politica cittadina. Succede lo stesso a Basilea, Berna ma anche a Monaco e Berlino e forse in altre città nel mondo. Qui i problemi sono spesso identificati come globali. Gli abitanti hanno un orientamento cosmopolita. Usano mezzi di comunicazione globali e sono altamente connessi. Da non sottovalutare è che queste piccole New York svizzere hanno un gran successo anche in termini di occupazione. A confronto con realtà del genere le politiche tradizionali sembrano davvero molto passate di moda.
Francesco De Gregori ha rilasciato al «CorSera» (31 luglio 2013) una controversa intervista politica: QUI.
L’onorevole Giuseppe Civati ha commentato sul suo blog (31 luglio 2013) che: «Non mi è piaciuta, l’intervista, soprattutto per un motivo culturale più profondo: fare la caricatura dell’ambiente e di Slow Food (fighetti!), tra le altre cose, è molto sbagliato, perché per me, in quei temi, c’è molta della modernità di cui abbiamo bisogno».
Andando oltre, Civati accenna anche alla “sua” sinistra: «Proviamo a dire che chi è contro quella Tav, e pensa magari che le direttrici di traffico più interessanti siano diverse da quella (tipo il Gottardo), non ha una posizione poi così assurda. Che se usassimo di più la bici saremmo solo più europei e civili, che l’Ilva ha proprio a che fare con questioni ambientali, che i sindacati vanno cambiati ma non eliminati, che la Costituzione sarebbe interessante vederla anche applicata, oltre che commentata, un po’ a sproposito».
«Repubblica» (agosto 2013) ha raccolto articoli e interviste sul tema “Dì qualcosa di sinistra”:
24 agosto 2013: Alberto Asor Rosa: “Dobbiamo recuperare il senso di superiorità”
“Difendere l’ambiente e le classi lavoratrici non vuol dire essere snob, ma avere orgoglio e id…
19 agosto 2013: Fabrizio Gifuni: “Ci hanno rubato anche l’allegria”
Parla l’attore che ha interpretato Gadda, Basaglia e Aldo Moro “Le regole si capiscono guard…
14 agosto 2013: Wu Ming: “Basta col politicamente corretto: riconoscere che il conflitto esiste”
Parla il collettivo di scrittura, autore di “Q” e “54”. Il senso di comunit&agra… (di Michele Smargiassi)
08 agosto 2013: Marco Revelli: “Bisogna sentire lo scandalo della disegualianza sociale”
La mancanza di eredi e alternative, le nuove oligarchie, l'”apocalisse culturale”: inter… (di Simonetta Fiori)
03 agosto 2013: Michela Murgia: “Scrivere è fare politica per questo mi candido”
L’autrice oggi ufficializza la sua corsa alla Regione Sardegna “I partiti hanno paura e non asc…
31 luglio 2013: Massimo Cacciari: “La parola ‘sinistra’ non serve più, chi la usa è un conservatore”
Per il professore di filosofia “Continuare con gli stessi termini per opporsi alla destra o… (di Michele Smargiassi)
26 luglio 2013: Sergio Staino: “È necessario indignarsi senza perdere la gentilezza”
La lezione di San Francesco, l’insidia dei nuovi giacobini, l’anti-berlusconismo. Per il pap&agrav… (di Michele Smargiassi)
23 luglio 2013: Stefano Rodotà: “Dignità: oggi è questa la parola-chiave”
La distinzione con la destra, la difesa dei beni comuni, il welfare e la Costituzione. Ecco la carta… (di Simonetta Fiori)
19 luglio 2013: Stefano Benni: “Non adagiamoci sulla retorica, sogniamo l’imprevedibile”
(di Simonetta Fiori)
17 luglio 2013: Ulrich Beck: “Ci salverà la generazione dei giovani Colombo”
Si orientano attraverso i social media, difendono l’ambiente contro le élite e riscrivera…
16 luglio 2013: Michele Serra: Progressisti, smettete di rimpiangere il passato
Un tempo i riformisti erano identificati con il desiderio di cambiare lo stato delle cose. Poi quest…
“La Repubblica”, 23 febbraio 2014, QUI
Vent’anni dopo l’uscita di “Destra e sinistra”, il bestseller di Norberto Bobbio, l’editore Donzelli ripubblica una nuova edizione con una introduzione di Massimo L. Salvadori e due commenti di Daniel Cohn-Bendit e Matteo Renzi. Pubblichiamo l’intervento del presidente del Consiglio. Un vero e proprio manifesto del capo del nuovo governo
INNOVAZIONE E UGUAGLIANZA, LA MIA IDEA DI DESTRA E SINISTRA NELL’EUROPA DELLA CRISI
di Matteo Renzi
C’è stato un tempo in cui a sinistra la parola “sinistra” era una parolaccia. Sacrificata al galateo della coalizione di centrosinistra, tanto da giustificare dibattiti estenuanti e buffi sul trattino, ricordate?
“Centro-sinistra” o “centrosinistra” era la nuova disputa guelfi-ghibellini, tra chi pensava il campo progressista come un litigioso condominio, caseggiato rumoroso di partiti gelosi delle proprie convenienze e confini e chi, invece, vagheggiava il Partito-Coalizione, area politica aperta, il cui orizzonte schiudeva l’universo del campo progressista.
In questo incrocio, che ha opposto due linee in parte intente a far baruffa ancora adesso, c’è il Partito democratico, la parola “sinistra” come un laboratorio, sempre in trasformazione, sempre ineludibile.
Una frontiera, non un museo. Curiosità, non nostalgia. Coraggio, non paura. Erano quelli gli anni dell’Ulivo, il progetto di Romano Prodi di abbattere gli steccati che separavano gli eredi del Partito comunista da quelli della Democrazia cristiana, di una forza che raccogliesse istanze liberal-democratiche, ambientaliste, in una nuova unità, una nuova cultura politica semplicemente, finalmente potremmo dire, “democratica”.
Erano, nel mondo, gli anni della “terza via”, di Bill Clinton e Tony Blair, una rotta per evitare Scilla e Cariddi, tra gli estremismi della sinistra irriducibile e la destra diventata, dopo Reagan e Thatcher, una maschera di durezze. Qualcuno pensò allora perfino che la sinistra fosse ormai uno strumento inservibile, non più adeguato a un mondo nuovo, sulla spinta di quella che si chiamava globalizzazione, dove finiva il XX secolo della guerra fredda e cominciava il XXI, tutto individuale e personal, dalla tecnologia alla politica.
A fare da sentinella, non per custodire e conservare, ma per richiamare alla sostanza delle cose, alla loro forza, il filosofo Norberto Bobbio – or sono venti anni esatti – pensò di tirare una linea, per segnalare dove la divisione tra destra e sinistra ancora teneva e tiene. Suggerendo che la scelta cruciale resti sempre la stessa, storica, radicale, un referendum tra eguaglianza e diseguaglianza, come dal XVIII secolo in avanti. Mi chiedo se oggi che la seduzione della “terza via” – che pure nel socialismo liberale, nell’utopia azionista di Bobbio, ha trovato più che un riflesso – si è sublimata perdendo slancio, la coppia eguaglianza/diseguaglianza non riesca a riassorbire integralmente la distinzione destra/sinistra. Basti pensare, a livello europeo, all’insorgere dei populismi e dei movimenti xenofobi contro i quali è chiamato a ridefinirsi il progetto dell’Unione europea, così in crisi. Un magma impossibile da ridurre alla vecchia contraddizione eguali/diseguali a lungo così nitida.
Dal punto di vista del sistema politico, infatti, sono e rimango un convinto bipolarista. Credo che un modello bipartitico, all’americana per intenderci, sia un orizzonte auspicabile, sia pur nel rispetto della storia, delle culture, delle sensibilità e della pluralità che da sempre contraddistinguono il panorama italiano. Ma riflettendo sulla teoria, sui principi fondamentali, non so se, invece, non sia più utile oggi declinare quella diade nei termini temporali di conservazione/ innovazione.
Tiene ancora, dunque, lo schema basato sull’eguaglianza come stella polare a sinistra? In una società sempre più individualizzata, sotto la spinta anche delle nuove tecnologie, dei social network, delle reti che connettono ma anche atomizzano, creando e distruggendo comunità e identità? Come recuperare, dopo anni di diffidenza, anche tra i progressisti, idee come “merito” o “ambizione”? Come evitare che, in un paesaggio sociale tanto mutato, la sinistra perda contatto con gli “ultimi”, legata alle fruste teorie anni sessanta e settanta, mentre papa
Francesco con calore riesce a parlare la lingua della solidarietà? Certo, l’eguaglianza – non l’egualitarismo – resta la frontiera per i democratici, in un mondo interdipendente, dilaniato da disparità di diritti, reddito, cittadinanza. Eppure era stato lo stesso Bobbio, proprio mentre scandiva quella sua storica dicotomia, a rendersi conto che forse la sua argomentazione aveva bisogno di un’ulteriore dimensione, un diverso respiro temporale, un’altra profondità. “Nel linguaggio politico – scrive Bobbio – occupa un posto molto rilevante, oltre alla metafora spaziale, quella temporale, che permette di distinguere gli innovatori dai conservatori, i progressisti dai tradizionalisti, coloro che guardano al sole dell’avvenire da coloro che procedono guidati dalla inestinguibile luce che vien dal passato. Non è detto che la metafora spaziale, che ha dato origine alla coppia destra-sinistra non possa coincidere, in uno dei significati più frequenti, con quella temporale”.
Ecco perché, venti anni dopo il monito di Bobbio, è maturo il tempo per superare i suoi confini, modificati e resi frastagliati dal mondo globale, come insegnano Ulrich Beck e Amartya Sen. Serve una narrazione temporale, dinamica, più ricca. Che non dimentichi radici e origini, sempre da mettere in questione, da problematizzare, ma che, soprattutto, faccia i conti con i tempi nuovi che ci troviamo a vivere, ad attraversare. Aperto/chiuso, dice oggi Blair. Avanti/indietro, chissà, innovazione/conservazione.
E, perché no, movimento/stagnazione. Se la sinistra deve ancora interessarsi degli ultimi, perché è questo interesse specifico che la definisce idealmente come tale, oggi essa deve avere lo sguardo più lungo. Le sicurezze ideologiche del Novecento, elaborate sull’analisi di un mondo organizzato in maniera assai meno complessa di quello contemporaneo, rendevano più semplice il compito della rappresentanza delle istanze degli ultimi e degli esclusi, e del governo del loro desiderio di riscatto. A blocchi sociali definiti e compatti bisognava dare cittadinanza, affinché condizionassero le decisioni sul futuro delle comunità nazionali di cui erano parte. Per la sinistra che, dopo Bad Godesberg, si organizzava in Europa in partiti socialdemocratici postmarxisti (e anticomunisti) era un compito certo faticoso, ma lineare nel suo meccanismo di funzione politica.
Oggi quei blocchi sociali non esistono più ed è un bene che sia così! In fondo tutta la fatica quotidiana del lavoro della sinistra socialdemocratica, cara a Bobbio, era stato quello di scardinare quei blocchi. Allo scopo di offrire agli uomini e alle donne, che erano in quei blocchi costretti, l’opportunità di una vita materiale meno disagevole e di un’esistenza più ricca di esperienze. Con l’invenzione del welfare quella sinistra aveva provveduto a sfamare le bocche e gli animi degli ultimi e degli esclusi, liberandoli dal bisogno materiale – libertà fondamentale anche per la sinistra liberaldemocratica americana di Franklin D. Roosevelt – e fornendo loro l’occasione di realizzare se stessi. L’invenzione socialdemocratica del welfare aveva così conseguito due obiettivi storici. Da un lato, difatti, il welfare aveva soddisfatto la sacrosanta richiesta di maggiore giustizia sociale. Dall’altro, tuttavia, il miglioramento delle condizioni oggettive di vita degli ultimi aveva determinato un beneficio generale per tutte quelle comunità democratiche che non avevano avuto timore di rispondere “Sì!” alla loro domanda di cambiamento.
La sinistra cara a Bobbio, quella socialdemocratica e anticomunista, ha insomma vinto la sua partita. Ma oggi ne stiamo giocando un’altra. Quei blocchi sociali che prima rendevano tutto più semplice non ci sono più. Gli stessi confini nazionali che erano il perimetro entro cui si giocava la partita dell’innovazione del welfare sono ormai messi in discussione. Più che con blocchi sociologicamente definiti entro Stati nazionali storicamente determinati, oggi la nuova partita si svolge con attori e campi da gioco inediti. Quei blocchi sono stati sostituiti da dinamiche sociali irrequiete. I confini nazionali non delimitano più gli spazi entro i quali le nuove dinamiche giocano la loro partita.
Di fronte a questo potente mutamento di prospettiva sociale ed economica, culturale e politica, la sinistra deve mostrare di avere coraggio e non tradire se stessa. Deve accettare di vivere il costante movimento dei tempi presenti e accoglierlo come una benedizione e non come un intralcio. È questo straordinario, irrefrenabile movimento che sfonda la vecchia bidimensionalità della diade destra/sinistra e le dà temporalità e nuova forza. E invece spesso, in Italia e in Europa, la sinistra ne ha paura. Sembra non rendersi conto che il nuovo mondo in cui tutti viviamo è anche il frutto del successo delle proprie politiche, dei cambiamenti occorsi nel Novecento grazie alla sua iniziativa. Perché l’innovazione, quando ha successo, produce un ambiente diverso da quello da cui si è mosso. Un ambiente mutato che chiama al mutamento gli stessi che più hanno concorso a mutarlo. Cambiare se stessi è l’incarico più gravoso di tutti. Eppure non cambiare se stessi, in una realtà che si è contribuito a cambiare, condanna all’incapacità di distinguere i nuovi ultimi e i nuovi esclusi, e all’ignavia di non mettersi subito al loro servizio. Che è proprio quanto successo alla sinistra di tradizione socialdemocratica al cospetto delle sfide del secolo nuovo.
La sinistra è oggi chiamata a riconoscere e a conoscere il movimento continuo delle nuove dinamiche sociali, contro chi vorrebbe vanamente fare appello a blocchi che non esistono più e che è un bene non esistano più! In Italia, più che altrove, la capacità della politica di saper distinguere le dinamiche sociali che interessano gli ultimi e gli esclusi, di saperle intrecciare per dare loro rappresentanza e, infine, di saperne governare il costante movimento per costruire per loro, e per tutti, un paese migliore, è il compito del Partito democratico. È la missione storica della sinistra.
Nella trasmissione tv “Pane quotidiano” (12 marzo 2014, condotta da Concita De Gregorio, 27′) Domenico De Masi ha fornito una distinzione tra destra e sinistra in politica: «La sinistra è solidale con gli sfruttati; la destra tende a esserlo con gli sfruttatori» (al minuto 16). E poi ha proseguito così: «Oggi nel mondo gli 85 più ricchi hanno una ricchezza pari a 3miliardi e 200mila persone. In Italia i primi 10 contribuenti, 10 persone, hanno una ricchezza pari a 3milioni e mezzo di italiani. Ecco, la sinistra si pone per quei 3milioni e mezzo». (Domanda della conduttrice:) Lei crede che la distinzione tra destra e sinistra sia superata? «Ma assolutamente no. Dice che è superata chi l’ha superata, nel senso che s’è messo dalla parte degli sfruttatori e sta a posto; vuole conservare… sta tra quei 10 e, ovviamente, vuole che non si cambi assolutamente nulla».

Maria Novella Oppo ne ha scritto una osservazione su “L’Unità”: QUI.
Trascrizione:
“Fronte del video”, blog in “L’Unità”, 13 marzo 2014
FACCIAMOCI ANCORA DEL MALE
di Maria Novella Oppo
Il sociologo Domenico De Masi, ieri, nel corso del programma di RaiTre. «Il pane quotidiano», ha spiegato come vede la differenza tra destra e sinistra. Che esiste e sarebbe grande quanto quella che divide l’umanità tra sfruttati e sfruttatori. Una distinzione chiara, che ci è piaciuta, almeno fino a quando non abbiamo sentito il tg e le ultime nuove sulle lotte interne al Pd (per non parlare della lista Tsipras!). Sorge spontanea la domanda: come mai alla solidarietà della sinistra verso l’esterno, corrisponde tanta conflittualità all’interno? Sarà perché nessuno vuole essere meno di sinistra degli altri. Comunque De Masi ha anche sostenuto che scegliere di tagliare l’Irpef ai lavoratori è di sinistra, mentre tagliare l’Irap come vuole la Confindustria, è di destra. Cosicché, almeno in una cosa Renzi starebbe facendo una cosa di sinistra. Speriamo solo che nessun altro di sinistra se ne accorga.
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Al minuto 15 della trasmissione tv è stata messa in onda una definizione data direttamente da Norberto Bobbio: «La differenza tra il conservatore e il riformatore è che il conservatore non ha bisogno di giustificare la conservazione. Invece colui che vuole riformare la deve giustificare, deve giustificare perché la vuole».
“Ciwati” (ma anche “Il Post“), 16 maggio 2014
SE SEI DI SINISTRA, PERCHE’ VOTI PD?
di Giuseppe Civati
La domanda più ricorrente di queste ultime settimane.
Mi chiedono perché non esco dal Pd e, nell’imminenza delle elezioni, perché voto il Pd. E addirittura faccio tre, quattro, cinque iniziative al giorno per la sua campagna elettorale.
E, allora, mi tocca spiegarvelo. E vi prego di seguirmi.
Per prima cosa, non voto M5s perché sono di sinistra e non mi piacciono i partiti e i movimenti che dichiarano di non essere né di destra, né di sinistra. Non mi piacciono tante altre cose – per esempio, incrociare le mani a forma di manette in aula, per rimanere all’episodio di ieri -, non mi piace la volgarità, non mi piace un programma che – per essere iperdemocratici – alla fine è deciso da poche, pochissime persone.
Faccio questa battaglia nel Pd, per riportarlo nel centrosinistra e perché torni a frequentare una logica dell’alternanza, contro ogni tipo di trasversalismo e di oligarchia interna, e me ne toccherebbe una ancora più clamorosa nel M5s.
Per le Europee, c’è un problema in più: con chi si alleerà il M5s? Con i no-euro di ogni sorta? Con la sinistra radicale? Con i verdi? Non è dato saperlo. Sulla base di quanto è accaduto in Italia, il M5s non si alleerà con nessuno, portando gli altri a fare accordi tra di loro, per poi dire che sono tutti uguali.
A me, invece, l’idea di stare finalmente nel Pse e da lì guardare a Tsipras e ai Verdi europei non dispiace affatto.
In secondo luogo, non voterò per la lista Tsipras, che ovviamente sento molto più vicina e in cui militano molte persone che stimo. Non lo farò non solo per la collocazione europea (il Gue mi sembra orizzonte troppo stretto e orientato), ma anche perché credo che la sinistra per potersi definire tale debba essere grande e aperta, capace di governare, di allearsi con altri soggetti, con un messaggio che sia comprensibile alla maggioranza delle persone. Il fatto che anche all’interno di Sel si siano manifestati molti mal di pancia, in questi mesi, ci fa capire che c’è qualcosa che non ha funzionato, nel lancio di una lista dal messaggio affascinante e importante, in questa Europa da cambiare.
Non mi è piaciuto, da ultimo, che dalle liste di Tsipras fossero esclusi i politici, come se fossero «malati». Per operazioni del genere esiste già il M5s. Né mi è piaciuto che persone che voterei, come Barbara Spinelli, abbiano detto che se saranno elette, si dimetteranno. Mi sembra un’idea sbagliata, proprio per quanto vi sto per scrivere.
Se voto il Pd è proprio perché si possono esprimere quelle preferenze per cui ci siamo battuti invano nel corso della discussione della legge elettorale (torneremo a farlo, non preoccupatevi).
Perché è un partito grande, nel quale certo ci deve essere più pluralismo, come sostengo da tempo. E perché è l’unico soggetto politico che, se vorrà, se vorremo, potrà ricostruire quel centrosinistra che ci porti al governo dopo (e con) libere elezioni (motivo per cui non ho apprezzato la lunga teoria di governi di larghe intese che ci stanno facendo male, a mio modesto avviso).
Il voto, questa volta, può essere tutto politico, manifestandosi nell’adesione di questo o quel candidato, che sono certo mi rappresenterà meglio di quanto avrei potuto fare se, per andare a Strasburgo, mi fossi candidato io.
Se seguirete il mio consiglio, in Europa andranno persone capaci di rappresentare una sinistra moderna, innovativa, liberale, radicale nelle intenzioni e lucida nella scelta degli obiettivi. Che ha dimostrato di saper lavorare insieme, in una straordinaria campagna delle primarie. Che ha costruito migliaia (non esagero) di iniziative politiche in tutto il paese. Con il desiderio di cambiare tutto, senza urlare e fare i gestacci. Con «metodo democratico» come richiede la nostra Costituzione. Con la speranza di riportare il paese alla dialettica tra destra e sinistra e avere quel voto in più che serve in Europa e servirà in Italia.
L’ultima obiezione la conosco bene: ma così fai vincere Renzi. Scusate, ma per me è più importante il Pse che guarda a sinistra, il Pd che ricostruisce il centrosinistra, le persone che mi rappresentano della dialettica interna e di una rivalità personale e politica che non ho certo voluto.
Gli elettori del Pd, per altro, a valanga, hanno scelto Renzi sei mesi fa, lui poi ha scelto di fare una cosa per me molto sbagliata, ma gli obiettivi che abbiamo di fronte superano me (che è poca cosa) ma anche lui. Se il Pd sarà grande, non solo elettoralmente, anche politicamente, ci sarà bisogno di tutti, anche di chi sta a più sinistra di me. Sempre che si voglia costruire una sinistra di governo.
Questo è il mio progetto, da sempre. E spero sia il nostro progetto. Perché in Europa ci siano tanti come Daniele, Paolo, Renata, Andrea, Elly, Ilaria e Elena. Nel gruppo del Pse, in grado di cambiare le cose. Senza uscire da tutto quanto, dal Pd, dall’euro, dalla buona educazione. Senza perdere l’entusiasmo, però, per qualcosa che ancora non c’è. In Europa, in Italia e anche nel Pd.
“Ciwati”, 21 maggio 2014, QUI
LA PASSIONE, L’ALTERNATIVA, LA CRITICA, L’INDIGNAZIONE
di Pippo Civati
Ecco, leggendo alcune cose sul Front National, ho capito da dove nascono i nostri problemi: perché la sinistra per funzionare ha bisogno di calore (una temperatura più alta), di una posizione che immagini un’alternativa (non ditelo più, per favore, che “non ci sono alternative”) e che non perda mai di vista la logica dell’alternanza con la destra, di uno spiccato senso della critica dell’esistente (che peraltro non è il massimo, come esistente), della razionalità, certamente, ma accompagnata e stimolata da una porzione non piccola di indignazione. E ha bisogno di un profilo collettivo, di partecipazione e di rappresentanza, che non deve perdere mai.
Senza questi ingredienti, la sinistra rischia di diventare solo una forma ombelicale di governismo, da un lato, e di populismo moderato (che fa un po’ sorridere, sembrando un ossimoro), dall’altro. E lascia troppo spazio a chi sceglie una via più diretta, e violenta, che usa gli stessi ingredienti per portare paesi interi da un’altra parte. Rivolgendosi ai ceti sociali che dovrebbero essere naturalmente aperti al discorso della sinistra.
Ai sondaggi non credo, ma ne ho letto uno che mi ha spaventato: chi vota meno (pochissimo) la sinistra sono i giovani e i poveri. Al di là di tutto, questo è un problema gigantesco.
P.S.: il paese soffre. Ci vuole coraggio, certamente, ma ci vuole anche umiltà. Che poi chi l’ha detto che coraggio e umiltà siano da contrapporre? Ecco.
“Left”, 26 luglio 2014, QUI
LAURA BOLDRINI, UNA SCOMODA E PRAGMATICA IDEALISTA. INTERVISTA AL PRESIDENTE DELLA CAMERA
La sinistra, la politica, la difesa dei più deboli. A un anno dalla sua elezione la presidente della Camera Laura Boldrini si racconta
di Giovanni Maria Bellu
Presidente Boldrini, un giorno del dicembre 2012, mentre si trovava in Grecia per il suo lavoro di portavoce dell’Agenzia dell’Onu per i rifugiati, ricevette la telefonata del leader di Sinistra ecologia e libertà Nichi Vendola che le propose di candidarsi. La vicenda è nota, ma proviamo a rileggerla dai vostri rispettivi punti di vista. Vendola le fa quella proposta perché la ritiene “di sinistra”, cioè ritiene “di sinistra” la sua attività. E lei, nell’accettare, mostra di credere che quanto lei ha fatto per oltre vent’anni faccia parte dei valori della sinistra. è corretta la sintesi?
Sì, evidentemente…
In quest’anno e quattro mesi ha trovato conferma di questa “corrispondenza di valori”. O, detto in altri termini, la sinistra sta con i più deboli?
Rispondo da “osservatrice”. Dico “osservatrice” perché essendo stata eletta subito alla presidenza della Camera, la mia esperienza nel partito è stata velocissima. Non c’era prima e non c’è stata dopo. Durante la campagna elettorale ho portato avanti le mie istanze, quelle che ritenevo e ritengo prioritarie: ho cercato di entrare in contatto con le persone di fatto “espulse” dalla nostra società…
Era quello che già faceva come portavoce dell’Unhcr.
Quando parlo di “espulsi”, non mi riferisco solo ai migranti. Parlo dei giovani che non hanno lavoro né alcuna fiducia nel futuro; parlo di coloro che il lavoro l’hanno perso e da anni vivono in un limbo. Penso inoltre alle associazioni dei disabili che non hanno risorse: ho un fratello autistico e anche per questa ragione mi sento vicina a queste realtà. Al tempo stesso non posso dimenticare le associazioni delle donne, il volontariato che non riesce a dare i servizi necessari perché non gli sono stati destinati abbastanza fondi, gli anziani che hanno lavorato una vita e non riescono ad avere una pensione dignitosa. Tutti i soggetti che ho menzionato, insieme ai milioni di italiani che non vanno più a votare, si sentono non considerati, non si sentono parte di un progetto politico, non si sentono rappresentati. Ritengo, invece, che il livello di democrazia di un Paese si giudichi anche dai servizi che riesce a offrire alle persone più vulnerabili e soprattutto che il progressismo possa dirsi tale solo se ha come scopo il ridurre le varie disuguaglianze.
Per il primo anno della legislatura abbiamo avuto una ministra nera che ora non c’è più. Anzi, a dire il vero non c’è più nemmeno il suo ministero. E il più intenso dibattito a sinistra sulla disabilità si è aperto perché un senatore ha definito “ragazzino autistico” il presidente del Consiglio… Non le viene il dubbio che per la sinistra a occuparsi dei diseredati debbano essere solo alcune figure diciamo “specializzate”, come lei?
Credo che in alcuni casi ci sia stato questo “esercizio di delega”. Nel praticarlo si è persa l’opportunità di dare vigore alla propria constituency, cioè alla propria ragione di esistere. La sinistra dovrebbe stare dalla parte di chi ha più bisogno e spendersi politicamente per questo. Se non lo fai, perdi la tua identità, la tua natura e finisci per copiare dagli altri qualcosa che non è tua che infatti poi ti riesce male. Ho notato negli anni, stando fuori dalla politica attiva, un certo appiattimento della sinistra: ad esempio su immigrazione e asilo la cifra progressista a garanzia dei diritti è venuta meno perché è prevalsa la dimensione della sicurezza e dunque della paura. Così come è stato un errore non aver posto un limite ai tagli del fondo per il sociale e non averne fatto una battaglia prioritaria, perché se non ti spendi con tutte le tue forze contro una decisione politica che penalizza i più deboli, hai perso di nuovo la bussola. E sui diritti civili come si è potuto arretrare fino al punto di non parlarne più? La proposta contro l’omofobia, uscita con grande travaglio dal lavoro della Camera, non è ancora diventata legge. Gli italiani, che sono più avanti della politica, si sono organizzati, ma a caro prezzo: le coppie di fatto etero e omosessuali si sono rivolte ai notai, quelle che volevano fare la procreazione assistita in molti casi sono state costrette ad andare all’estero. Tutte le questioni che ho elencato sono temi progressisti – preferisco usare questo termine piuttosto che “di sinistra” – ma sono rimaste al palo. Ci si è appiattiti in una sorta di pensiero unico.
Cosa dovrebbe caratterizzare quello che lei definisce “progressismo”?
Nell’era post ideologica secondo me il mondo si divide tra chi crede nella sostenibilità sociale e ambientale della globalizzazione, difende i diritti e per questo propone un diverso modello di società, e chi invece ha paura di tutto e vuole mantenere lo status quo. In ogni nostro ragionamento sull’Italia non dovremmo mai dimenticare di allargare la lente e proiettarci nella sfera internazionale. Oggi gran parte delle decisioni che incidono sulle nostre vite vengono prese a livello europeo o globale. Viviamo in un mondo dove l’un per cento della popolazione possiede la metà di tutte le risorse disponibili, mentre la metà più povera ha accesso ad appena l’un per cento. Quanto potrà reggere questa situazione?
La sua candidatura ed elezione alla presidenza della Camera parve un tentativo di creare un ponte tra la sinistra e una parte del Paese che crede nel cambiamento ma, delusa dalla sinistra, si è orientata altrove…
Sì, credo anch’io che questo fattore abbia avuto un peso nella scelta.
Poi però i parlamentari del Movimento 5 stelle sono diventati i suoi oppositori più duri…
All’inizio ho avuto un’interlocuzione abbastanza frequente con i deputati del Movimento 5 stelle proprio perché erano arrivati qua spinti dallo stesso bisogno di cambiamento che ha motivato la mia candidatura. Vede, io amavo molto il mio lavoro e avrei potuto dire “no grazie”, stare fuori e continuare a puntare l’indice contro ciò che non andava. Ma ho pensato che agire così sarebbe stato vigliacco verso il mio Paese. Ero indignata per come andavano le cose e ho scelto di impegnarmi in politica per questo. Ero indignata quanto loro…
Ma allora perché non vi siete trovati?
Perché dopo un po’ sono cominciati gli attacchi al Parlamento, definito sprezzantemente “tomba maleodorante” o “postribolo”. Negli anni del mio lavoro a difesa dei diritti umani, ho visto cosa significa vivere in Paesi non democratici. Ho visto che vuol dire quando i giovani non possono esprimersi, cosa vuol dire finire nelle prigioni ed essere torturati. L’ho constatato attraverso le testimonianze di tante persone che negli anni ho assistito. Per una persona che ha lavorato accanto alle vittime di regimi dittatoriali un simile attacco alle istituzioni democratiche non è tollerabile. Certamente questo nostro sistema ha generato disfunzioni anche enormi, malversazioni, utilizzi impropri del denaro pubblico, e per questo il sistema va rivisto e rinnovato. Ma senza passare per la distruzione e per l’anno zero. L’anno zero è un esercizio nichilista, autoreferenziale e narcisistico.
Che sentimenti le suscita l’appellativo di “buonista”?
Secondo me chi definisce gli altri “buonisti” si sente in una posizione di superiorità. Ritiene che i princìpi, gli ideali e i valori a cui si ispirano sia la nostra Costituzione, sia le Carte internazionali come la Dichiarazione universale dei diritti umani, siano documenti per anime belle, sorpassati, privi di senso della realtà, perché la realtà è un’altra cosa. Perciò quando qualcuno mi dice “buonista” penso semplicemente che abbia perso la via maestra e non consideri la politica come l’esercizio di destinare le proprie competenze e le proprie energie al bene collettivo, in coerenza coi principi a cui si crede. Il cinismo è l’insicurezza della supponenza che ti porta a non saper ascoltare, a non sapere vedere, a non saper recepire.
Quali sono le qualità che un politico deve avere?
Non credo che un politico debba essere una persona necessariamente geniale. Di certo deve avere alcune doti a corredo della propria intelligenza: l’onestà, la lealtà, deve saper mettersi nei panni altrui. Poi deve avere la capacità di tradurre il suo impegno in azioni e provvedimenti concreti a favore della collettività. Ma sono certa che in queste cose che ho elencato ci sarà chi troverà la conferma del fatto che, appunto, sono un’anima bella, una buonista, una neofita, ecc… Pazienza, me ne farò una ragione!
Cosa ne pensa del Pd di Renzi?
Renzi sta dando una scossa a un sistema che era immobile da troppi anni e trovo positivo che si rimettano in discussione assetti che prima nessuno aveva mai voluto toccare, neanche lontanamente. Ed è anche positivo che si affronti la questione delle riforme costituzionali e si tenti di superare ciò che non ha più funzionato, come per esempio il bicameralismo perfetto. Credo che nel farlo sia necessario arrivare al massimo livello di coinvolgimento e avere la capacità di recepire le obiezioni finalizzate a migliorare l’assetto delle ipotesi di riforma.
E la riforma della legge elettorale?
Si tratta prima di tutto di fare una nuova legge che coniughi le esigenze di governabilità e di rappresentanza, evitando che una di queste due esigenze vada a discapito dell’altra. Per esempio, una soglia di sbarramento dell’8 per cento mi sembra che determini il rischio di tagliare fuori un pezzo di società. Questo proprio in un momento nel quale bisogna evitare di escludere. La percentuale di chi va a votare è già molto diminuita, non si deve correre il rischio di perdere altra gente per strada.
Una soglia di sbarramento dell’8 per cento è certamente molto alta. Ma da noi appare smisuratamente alta anche per via delle piccole percentuali che le forze marcatamente di sinistra continuano a ottenere da anni. Secondo lei esiste uno spazio politico alla sinistra del Pd?
Io penso che prima di tutto dobbiamo riuscire a recuperare tutte le persone che non si sentono rappresentate e non votano, che sono così arrabbiate da essere giunte a rifiutare l’idea stessa della partecipazione. Per farlo è necessario elaborare un progetto politico che sia interessante e convincente per queste persone, cioè un programma che metta al centro i loro bisogni. Ma in ultima analisi penso che la sinistra debba essere capace di stare insieme e saper dialogare al suo interno. Solo così si potrà avere un’alternanza che consenta di portare avanti un’agenda progressista. Parcellizzarsi è perdere già in partenza. In Europa ci sono partiti democratici o della sinistra che al loro interno hanno sensibilità molto diverse. Trovo innaturale, lo considero una ferita, il fatto che in Italia chi ha una matrice comune sia diviso e si trovi spesso su fronti contrapposti.
Veniamo al ruolo della Camera, nelle grandi riforme di questa fase. Renzi di recente si è augurato che i presidenti del due rami del Parlamento mettano un tetto agli stipendi dei dirigenti, come lui ha fatto a Palazzo Chigi…
Qua non solo applicheremo “un tetto”, ma ne applicheremo molti. Negli anni si è infatti sviluppato un sistema che ha portato le retribuzioni a livelli molti alti. Si tratta dunque di intervenire, non solo sulle cariche apicali. Ma parlare esclusivamente di tagli degli stipendi è riduttivo, noi stiamo facendo una vera riforma. Il nostro obiettivo è non avere più il dualismo tra i dipendenti della Camera e i dipendenti del Senato, ma istituire un ruolo unico del personale del Parlamento. Ci stiamo lavorando fin dall’inizio della legislatura. Ed è un’operazione delicata: la Camera è una macchina complessa con personale molto specializzato e di grande professionalità. E fin dall’inizio della legislatura abbiamo anche introdotto elementi di sobrietà, risparmiando già 138 milioni di euro. Senza che nessuno me lo chiedesse, ho subito ridotto il mio stipendio del 30 per cento e altrettanto hanno fatto i miei collaboratori senza peraltro che ciò abbia prodotto un “effetto calamita”. Certo, ci sono quelli che dicono che non è mai abbastanza e che si può anche lavorare gratis… Ma, a parte il fatto che non me lo potrei permettere e che il lavoro va sempre retribuito, trovo che la democrazia a costo zero sia un’idea balzana che svilisce il senso stesso della democrazia.
Nel dibattito pubblico, nell’informazione, di questi risparmi si parla poco. Pare prevalere quello che lei definisce il “non basta mai”. Si fa notare, per esempio, che a ogni cittadino italiano la Camera costa 27 euro, quanto agli inglesi, ai tedeschi e agli spagnoli messi insieme…
Questa è una delle tante informazioni fuorvianti. Il modo in cui è fatto il bilancio della Camera lo rende non paragonabile a quello di altre istituzioni parlamentari. Qui da noi, insieme ai costi degli stipendi dei dipendenti e dei parlamentari, e ai costi della gestione stessa, vengono computate anche le pensioni dei dipendenti e i vitalizi dei parlamentari. Mentre nei bilanci di altri Parlamenti europei non pesano queste voci perché sono direttamente a carico dell’amministrazione dello Stato. è del tutto evidente che è errato e pretestuoso confrontare bilanci fatti da voci diverse tra loro.
A proposito di informazione, non si può dire che lei abbia quella che si usa definire “buona stampa”. L’hanno attaccata per la scorta, per i viaggi di Stato. Se lo aspettava?
In queste dimensioni e in queste forme no. Ero e sono consapevole che chi va a coprire una carica pubblica di rilievo si ritrova in una situazione molto esposta. Ma qua ci sono e ci sono stati attacchi pretestuosi e strumentali basati sul nulla e finalizzati a presentarmi come una persona diversa da quella che sono. Il mio livello di scorta, ad esempio, è inferiore a quella di altre cariche dello Stato, perché nel mio caso diventa uno scandalo? E contemporaneamente certa stampa arriva a ridicolizzare le minacce di morte rivolte ai miei familiari e a me stessa. Non sono una persona ossessionata dalla sicurezza, anche perché ho lavorato nei contesti più pericolosi del pianeta. Ma proprio per questo ho rispetto per la sicurezza, ne conosco l’importanza. Quanto ai voli di Stato, siamo all’incredibile. Da subito ho detto che non li avrei utilizzati perché quando c’è un volo di linea, un volo low cost o un treno ci si deve spostare così, come tutti i cittadini. Oltre al fatto che considero gli spostamenti ulteriori occasioni per stare a contatto con le persone.
In un anno e quattro mesi ho fatto decine di missioni e ho usato i voli di Stato solo tre volte: per andare in Sudafrica, quando ho viaggiato col presidente del Consiglio, perché il volo di Stato era stato già predisposto e prendere il volo di linea sarebbe stato uno spreco. Poi ho utilizzato un volo di Stato per rappresentare il Presidente della Repubblica a Bari in occasione del 4 novembre e, infine, per andare a Vilnius assieme al presidente del Senato per partecipare alla conferenza dei presidenti dei Parlamenti europei. Quella volta ho fatto così perché non c’erano voli Alitalia su Vilnius e l’alternativa sarebbe stata Ryanair che aveva il ritorno solo il giorno successivo alla fine del vertice.
Perché allora queste polemiche?
Perché bisogna dimostrare che sono tutti uguali, che nessuno ha valori diversi o comunque ha dei valori, che il potere rende tutti marci e che nessuno è capace di rinunciare ai privilegi. Io sto cercando di dare un contributo al mio Paese, sento l’onore e la responsabilità del mio ruolo e non mi risparmio. Questo le persone lo capiscono, nonostante alcuni giornali insistano, per strumentalizzazione politica, nel raccontare un’altra storia. Descrivono una donna che non sono io.
E da sinistra non si levano le barricate…
Non direi, ho ricevuto molta solidarietà, sia qui alla Camera che dai territori. Certo, quando sei una figura non di appartenenza, la difesa non scatta automaticamente.
Insisto, perché?
Credo perché sono una donna che non è arrivata qui a seguito di una militanza di partito. Ho 53 anni e quindi ho la mia storia. Sono arrivata a questa posizione perché ho fatto delle battaglie e ho delle competenze. Stare dalla parte dei più deboli, promuovere i diritti, proporre un’idea di società che non sia divisa, ma basata sull’incontro e sulla mescolanza per alcuni è insopportabile. Così come lo è parlare di emancipazione delle donne e scardinare i cliché.
Forse lei dà fastidio perché è di sinistra, o progressista, se preferisce.
A me non fa paura che ci siano persone che non mi apprezzano. Ho una mia agenda, porto avanti i miei valori. Hanno voluto eleggere alla guida della Camera una figura non convenzionale, altrimenti avrebbero scelto un capo di partito o una figura al culmine della carriera politica e dunque io interpreto il mio ruolo anche a partire dalle ragioni di quella investitura. Per questo do molto spazio al rapporto con la società civile, agli incontri con i cittadini, con i sindaci, i precari, i lavoratori in difficoltà. Quando ricevo queste delegazioni, cerco poi di fare da tramite tra loro e chi deve prendere delle decisioni, come gli esponenti del governo. Altrettanto faccio quando vado nei territori. Non sono nel palazzo come una vestale delle istituzioni. Porto avanti un progetto di cambiamento molto chiaro, anche dei meccanismi di funzionamento della Camera, attraverso la riforma del regolamento che è in una fase avanzata. Inoltre stiamo aprendo la Camera al web, di recente abbiamo ospitato per la prima volta un hackathon, cioè un incontro tra giovani esperti di informatica che hanno studiato gratuitamente delle app per rendere possibile la ricerca dai cellulari dei materiali prodotti dalla stessa Camera: è evidentemente inutile avere degli open data se poi la ricerca è impossibile. Poi abbiamo istituito una commissione di studio formata da esperti e da giuristi, tra cui Stefano Rodotà, per elaborare una Costituzione dei diritti di internet. Oggi siamo su youtube, su twitter. Un’istituzione consolida il rispetto dei cittadini nei suoi confronti se si apre, se si rende trasparente e fruibile. Credo che questo significhi qualcosa.
Avverte un riconoscimento da parte dei cittadini?
A tutti gli incontri che organizziamo nei territori c’è sempre tanta partecipazione: persone che ti danno il loro sostegno, che ti incoraggiano, che ti dicono di andare avanti così. Una cosa è la vita nel “palazzo della politica”, una cosa è fuori. Riceviamo migliaia di mail di persone che espongono i loro problemi concreti, che raccontano le vicende della vita quotidiana. Noi cerchiamo di rispondere a tutti e mi sembra che questo nostro stile sia apprezzato.