Il massacro della Zong

In psichiatria la crudeltà è assimilata al sadismo, ovvero a quella «perversione sessuale nella quale il soggetto trae godimento erotico dalla sofferenza che infligge ad altri, [oppure a quell’] aspetto del carattere proprio di chi si compiace della crudeltà». Per questa ragione, lo psichiatra Richard von Krafft-Ebing nel 1869 coniò il termine “sadismo” in riferimento al nome del marchese de Sade. [QUI]
Si tratta, in altre parole, di un disturbo legato all’aggressività e alla violenza – sebbene questa possa anche non presentarsi – che alcuni considerano come un istinto primario utile alla selezione e altri, invece, come un comportamento reattivo alla frustrazione. In ogni caso, le modalità con cui si manifesta sono l’indifferenza alla sofferenza altrui e il piacere nell’infliggerla, ovvero in un senso di onnipotenza e di estremo distacco.
Nella storia del pensiero, osserva Michel Erman (autore de La cruauté. Essai sur la passion du mal, 2009), «la crudeltà è sempre stata considerata non come una realtà, ma come una passione inspiegabile, o scandalosa. Pertanto, non è mai stata altro che oggetto di commenti superficiali che la escludono dall’ambito dell’umano, per collocarla in quello della bestialità, se non della follia» [voce “Cruauté”: QUI, traduzione mia].
La crudeltà, evidentemente, può e deve essere posta al centro del pensiero, della storia e delle riflessioni sul sociale. E’ quanto ha fatto Alessandro Dal Lago in Carnefici e spettatori. La nostra indifferenza verso la crudeltà (2012), dove ha spiegato che «il pensiero occidentale non ha fatto veramente i conti con il suo fondamento bellico, non ha mai pensato radicalmente la guerra – e quindi non ha pensato fino in fondo la propria inevitabile crudeltà». Questo pensiero è una costruzione fatta essenzialmente di «disinteresse per le vittime uccise da noi – che contrasta con l’apparente ipersensibilità per quelle provocate da popoli “selvaggi”, “primitivi”, “animaleschi”, “premoderni”» – ed è riconducibile, in sostanza, ad «un’ipocrisia fondativa che è la negazione sia della verità morale, sia di quella fattuale» [pp. 20-21].
Gli esempi sono innumerevoli, dal mondo antico a quello moderno, fino alla cronaca più recente. Sebbene la crudeltà non sia una prerogativa del cosiddetto Occidente, qui è di un episodio della storia occidentale che ho intenzione di parlare, perché è questa parte di mondo che oggi si erge ad “autorità morale globale”, nonostante non ne abbia alcun titolo.

Si tratta di una storia di alcuni secoli fa, di cui in questi giorni ricorre l’anniversario, e che per essere pienamente compresa necessita di contestualizzazione. Siamo nel 1781, in pieno consolidamento degli imperi coloniali, ovvero all’origine del nostro mondo contemporaneo: i popoli non-europei sono ritenuti tutti incivili e selvaggi, se non addirittura animali; lo schiavismo è un vero e proprio metodo produttivo nelle prime industrie e nelle miniere, ma soprattutto nelle piantagioni; la tratta di africani verso le Americhe è un commercio transoceanico molto fiorente. Alla base di questa storia, dunque, vi è essenzialmente un’ideologia totalitaria e razzista che permette ad alcuni di sentirsi e di porsi come superiori ad altri, cioè ai “neri”, considerati ontologicamente schiavi, anzi merce.

Il 6 settembre 1781 parte da São Tomé, diretta in Giamaica, la nave negriera inglese “Zong”, capitanata da Luke Collingwood. Il carico è umano: 440 africani stipati a bordo dell’imbarcazione, quasi 3 volte più di quanto possa contenere. Lo scopo è prettamente economico: nell’isola caraibica ogni schiavo vale almeno 35 sterline.
Dopo alcuni mesi di navigazione nell’Atlantico in condizioni di sovraffollamento e malnutriti, però, molti schiavi si ammalano di dissenteria, febbre, diarrea, vaiolo. Secondo la mentalità del capitano, si tratta di “merce” che sta andando deperendosi: i cadaveri che ogni giorno vengono gettati in mare sono decine, la perdita economica – per lui, che ha personalmente investito nell’affare – è quindi notevole. Così, con la sola opposizione del timoniere James Kelsall, il 29 novembre Collingwood decide di liberarsi di tutti gli schiavi malati, prima che muoiano e che contaminino gli altri.
Il principio è del tutto legale: si tratta di un’azione messa in atto allo scopo di salvaguardare la propria merce, dal momento che ogni schiavo annegato – al fine di salvare il resto del carico – da diritto ad un risarcimento da parte degli assicuratori: ciascuno schiavo immolato permette di ricevere fino a 30 sterline di indennizzo, mentre uno schiavo morto malato o abbandonato vivo su un’isola non da diritto a nulla.
Quel giorno, dunque, vengono gettate in mare 54 persone; il 1° dicembre, 42; nei giorni successivi, 36.
142 vite sacrificate per non compromettere la rendita del resto della merce.
A questo numero, inoltre, vanno aggiunte altre dieci persone, saltate dalla nave in sfida alla disumanità degli schiavisti e in spregio alla loro logica economicista (gli schiavi suicidi, infatti, non danno diritto ad alcun rimborso).
Il 22 dicembre, dopo un viaggio durato circa il doppio del consueto, la Zong approda a Black River, in Giamaica, 
con 208 sopravvissuti africani (una perdita del 53%, a cui va aggiunto anche il capitano Collingwood che, molto malato, muore dopo tre giorni).
Una volta rientrata a Liverpool la nave, i proprietari della Zong presentano l’ammontare delle loro perdite, così da ricevere l’indennizzo corrispondente agli schiavi uccisi. Gli assicuratori, però, si rifiutano e denunciano gli armatori per truffa. Il 6 marzo 1783, così, si apre un processo che, pur non condannando il massacro, decide per il mancato risarcimento perché viene appurato che, contrariamente a quanto dichiarato dal capitano nel suo diario di bordo, sull’imbarcazione era presente molta acqua da bere, informazione da cui si deduce che gli schiavi non si erano ammalati per gli stenti. In buona sostanza, si appura che la perdita del carico era stata causata da una cattiva gestione della nave da parte del capitano.

Per quanto Collingwood e il suo equipaggio non siano mai stati accusati di omicidio, quel processo, tuttavia, ha reso nota agli inglesi la crudeltà del commercio degli schiavi e ha dato voce ai primi movimenti abolizionisti, che avrebbero poi condotto alla legge del 23 febbraio 1807 (ratificata dal re il 25 marzo), cioè all’atto con il quale è stato abolito il commercio degli schiavi nell’impero britannico: “An Act for the Abolition of the Slave Trade“.

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PS: ulteriori informazioni sul massacro della Zong sono su Wikipedia (en), su Jamaica Gleaner (en) e su Le Point (fr).

PPS: un’altra volta racconterò la storia degli “schiavi dimenticati” sull’isola di Tromelin, nell’oceano Indiano [dal satellite]: in seguito al naufragio della fregata “L’Utile” della Compagnia Francese delle Indie Orientali avvenuto nella notte tra il 31 luglio e il 1° agosto 1761, i superstiti trovarono riparo su quella minuscola isola, ma dopo due mesi i membri dell’equipaggio sopravvissuti ripresero il mare con una scialuppa ricavata dal relitto dell’Utile e lasciarono a terra circa 60 schiavi, poi dimenticati, appunto. Dopo quindici anni, nel 1776, la nave “La Dauphine” recuperò i superstiti: sette donne ed un bambino.
(Ho letto per la prima volta di questa storia nella bellissima graphic novel di Emmanuel Lepage, Voyage aux îles de la Désolation, 2011).

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Studio il rapporto tra gli esseri umani e i loro luoghi, soprattutto quando si tratta di luoghi "a rischio"
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