Al di là di eventualità naturali (che alle nostre latitudini sono rarissime, come fulmini o l’altamente improbabile autocombustione) e a ragioni accidentali (ad esempio uccelli folgorati sui pali elettrici e che, cadendo a terra, causano una combustione, ma è un’altra possibilità statisticamente irrilevante), la gran parte degli incendi è dovuta a ragioni colpose e dolose. Nel primo caso si tratta di imprudenza e imperizia, come il celebre mozzicone di sigaretta gettato da un’automobile o i fuochi dei gitanti e talune pratiche colturali. Nel secondo rientra un vero e proprio atto illecito, a sua volta determinato da due possibili figure, l’incendiario (per vandalismo, per vendetta, per profitto o per altro crimine) e il piromane (che è un criminale affetto da disturbi psichiatrici).
Ognuna di queste sfumature richiede contromisure adeguate, di educazione, terapia, tutela e così via, perché, come sanno gli agenti della Forestale, «un incendio non si doma, si previene».
La settimana scorsa è stata drammatica per il Vesuvio: 16 ettari di Parco Nazionale sono stati distrutti da una mano certamente criminale, che ha appiccato svariati focolai tra Terzigno e Boscoreale, mandando in fumo una pineta bellissima e preziosa.
Questo disastro racconta due cose precise sullo stato di salute del territorio: da un lato l’oppressione che vi esercita la criminalità (quando sono divampate le fiamme erano appena cominciate delle operazioni di pulizia) e, dall’altro, il disinteresse che ne hanno le istituzioni (gli addetti al Parco Nazionale sono 15; si, avete capito bene: 15 persone per l’intera area protetta).

La fotografia è di Francesco Saverio Gargiulo, che ringrazio.
Se non lo sapete già, da questo reportage di Stella Cervasio [che ringrazio per l’attenzione che ha voluto dedicarmi] scoprirete che il Vesuvio è un concentrato unico al mondo di biodiversità e di storia e cultura, ma è anche un immondezzaio, un cementificio, una landa lunare (metaforicamente e non solo). Questo comporta una riformulazione delle priorità: oggi il vulcano napoletano non è un rischio di per sé, ma è lui stesso ad essere a rischio. La causa del disastro annunciato di cui parla il mondo intero non è lui, ma noi, che abbiamo «un deficit di civiltà», come dice Antonio Di Gennaro. Come scriveva il compianto Amato Lamberti, lo «sfasciume urbano» intorno al vulcano ha creato «paesaggi di paura», ed è questo il disastro attuale, che a sua volta determinerà l’entità di quello futuro.
Negli ultimi tre anni, intorno al Vesuvio ci sono stati numerosi incendi, tutti inquietanti, per quanto diversi tra loro:
- nel luglio 2014 è stata bruciata la biglietteria del Gran Cono;
- nel luglio 2015 per giorni ha bruciato la discarica illegale della zona Novelle-Castelluccio, rilasciando nell’aria chissà quanta diossina;
- nel settembre 2015 vari focolai, per giorni, hanno ferito la Riserva speciale Alto Tirone.
L’incendio della settimana scorsa, visivamente, per dimensioni e per andamento del vento ha rimandato alla memoria le fotografie a colori dell’eruzione del 1944, almeno dal punto di osservazione della Penisola Sorrentina: una nube enorme ha avvolto il vulcano e si è distesa verso sud, rilasciando cenere a decine di chilometri di distanza. Tutto questo non può essere considerato un accidente passeggero, ma deve portare ad un cambiamento strutturale nella gestione dell’intero territorio.
Le “Mamme vulcaniche” hanno gridato la loro rabbia, i “Cittadini per il Parco” hanno invocato di non bruciarci il futuro: il tempo è scaduto, le istituzioni devono ascoltare queste persone e coinvolgerle, perché intorno al Vesuvio c’è tanta gente lontana dal cliché fatalista che aspetta solo una possibilità di impegno.