Puntini ipertrofici

Sul web e, in particolare, su fb c’è un’impressionante e ingiustificata esplosione dei puntini di sospensione. I puntini di sospensione hanno una funzione precisa nel linguaggio scritto, che non è quella di sostituire sempre e ovunque gli altri segni di punteggiatura, che pure hanno la loro specifica funzione. La mia proposta, dunque, è di limitarne al massimo l’utilizzo, anzi di boicottarli.

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«I puntini di sospensione si usano sempre nel numero di tre, per indicare la sospensione del discorso, quindi una pausa più lunga del punto» (qui)

«Una serie di p., di regola tre o quattro, alla fine di una frase o anche nel mezzo, indica che il discorso è stato interrotto volutamente, è rimasto in sospeso (p., o puntini, di sospensione o di reticenza)» (qui)

«Segnalano una “sospensione” nel discorso (da cui il nome), come una frase non conclusa, un’esitazione o un accenno lasciato volutamente indefinito (figura retorica dell’ellissi)» (qui)

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Tra i commenti, i contributi di Umberto Eco e di Beppe Severgnini.

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“La Repubblica”, 16 febbraio 2014, QUI

SALVIAMO LA VIRGOLA, PORTA DEL PENSIERO
di Umberto Maccioni

A proposito della inutilità della virgola, non la pensava così il poeta e scrittore argentino Julio Cortàzar che scrisse: «La virgola è la porta girevole del pensiero». E fece questo esempio:
«Se l’uomo sapesse realmente il valore che ha la donna andrebbe a quattro zampe alla sua ricerca». Se sei donna, certamente metteresti la virgola dopo la parola «donna»; se sei uomo, la metteresti dopo la parola «ha»
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AGGIORNAMENTO del 20 ottobre 2014:
L’epidemia dei puntini va di pari passo al dilagare dell’analfabetismo funzionale, i cui contagiati li si riconosce “perché scrivono su Facebook senza punteggiatura, con i puntini al posto dei punti, con le virgole al posto dei puntini, con abbreviazioni inutili, senza congiuntivi, “ai” e “o” usati come verbi” (Giulia Blasi, “Leggere, scrivere e far di conto: del perché l’analfabetismo funzionale fa male anche a te“, 20 ottobre 2014; sullo stesso tema ne aveva già scritto l’11 aprile 2014, Vanessa Niri con “I nuovi analfabeti: usano Facebook, ma non sanno interpretare la realtà“).

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INTEGRAZIONE del 29 ottobre 2014:
Come se ce ne fosse ulteriore bisogno, la prova della confusione dilagante (o, se si preferisce, dell’analfabetismo funzionale) è in una ricerca della società britannica di sondaggi Ipsos Mori, che ha reso note alcune indagini effettuate in 14 nazioni diverse intervistando circa un migliaio di persone in ciascun Paese, di età compresa fra 18 e 64 anni e di ogni estrazione sociale, su dieci questioni economiche e sociali piuttosto delicate. Per quanto riguarda l’Italia, “i dati dicono che abbiamo le idee piuttosto confuse, più di molti altri paesi: per esempio non abbiamo idea di quanti siano i disoccupati o gli immigrati nel nostro paese“: “LE COSE SU CUI HANNO TORTO GLI ITALIANI” (“Il Post”, 29 ottobre 2014).
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I risultati sono stati commentati da Francesco Costa: “[…] Un popolo che si informa così poco, che legge così pochi giornali, che è così poco interessato a conoscere quello che gli succede attorno se non in discussioni da bar, non può che avere terribilmente torto su tutto – spesso anche con una certa sicumera – e decidere così le cose sbagliate per le ragioni sbagliate. Ma. Ma. Sicuri che il problema sia nella domanda e non nell’offerta? Lo dico da giornalista […]. Sicuri che la patologica e sistematica diffusione di notizie false e imprecise, i toni terrorizzanti e apocalittici usati su qualsiasi cosa, non abbiano a che fare con la disinformazione degli italiani? […]”: “IL PROBLEMA DELL’ITALIA SONO I SUOI GIORNALISTI?” (29 ottobre 2014).
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Sempre sulla qualità e l’etica del giornalismo, ieri è stato pubblicato il testo della lezione che Arianna Ciccone ha tenuto in occasione della cerimonia che le ha conferito un titolo onorifico all’Università di Perugia: “CONTRO I GIORNALI. PER AMORE DEL GIORNALISMO” (28 ottobre 2014).
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Altro commento da segnalare è questo di Lorenzo Ferrari: “[…] Particolarmente interessante è la domanda che i sondaggisti hanno rivolto agli intervistati che avevano clamorosamente sbagliato a stimare la percentuale di immigrati in Gran Bretagna. I sondaggisti hanno chiesto loro a che cosa attribuissero lo scarto tra la loro stima e i dati reali. Pochissimi lo hanno attribuito a delle carenze dei mezzi di informazione: la maggior parte degli intervistati ha semplicemente difeso le proprie percezioni, affermando di non credere ai dati ufficiali che le contraddicono. La domanda è stata fatta solamente agli intervistati britannici, ma è facile immaginare che i risultati sarebbero stati molto simili in un paese come l’Italia dove prosperano i “a me non la racconti”. […] Se i nostri pregiudizi sono così resistenti, è vano cercare di cambiarli quando ormai si sono formati: non sarà la pubblicazione di alcuni dati ufficiali a modificare le nostre opinioni. Forse allora l’unico modo per migliorare la qualità del dibattito pubblico è intervenire quando si formano, i pregiudizi: fare buona informazione probabilmente non serve a farci cambiare le nostre opinioni di oggi, ma magari almeno serve a rendere meno sbilenchi i nostri pregiudizi di domani“: A ME NON LA RACCONTI (“Il Post”, 30 ottobre 2014).

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Studio il rapporto tra gli esseri umani e i loro luoghi, soprattutto quando si tratta di luoghi "a rischio"
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3 risposte a Puntini ipertrofici

  1. giogg ha detto:

    Umberto Eco, “Secondo diario minimo”
    (Bompiani, 1992, pp. 147 et sgg.)

    Quanto siano sciagurati i puntini ce lo dice questa modesta serie di variazioni che raccontano che cosa sarebbe accaduto alla nostra letteratura se gli scrittori fossero stati timidi.
    “Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene trenta anni le possette…parte Sancti Benedicti”.
    “Laudato si’, mi’ Signore, per…sora luna e le stelle.”
    “Come a la selva…augello in la verdura”.
    “S’i fosse…foco, arderei lo mondo.”
    “Nel mezzo…del cammin di nostra vita.”
    “Santissimo e carissimo e…dolcissimo padre in Cristo dolce…Gesù.”
    “Qual sulle trecce bionde ch’…oro forbito e…perle, eran quel dì a vederle.”
    “Era questo frate Cipolla di persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso e il miglior…brigante del mondo.”
    E via via, sino a “L’anno…moriva, assai dolcemente” e “Io ero, quell’inverno, in preda ad…astratti furori”.
    E pazienza per la brutta figura che quei Grandi avrebbero fatto. Ma si noti che l’inserzione dei puntini, esprimendo timore per l’arditezza del parlar figurato, può anche essere usata per indurre al sospetto che sia figura retorica un’espressione che pare pianamente letterale.
    Facciamo un esempio. Il Manifesto dei comunisti del 1848 inizia, come è noto, con “Uno spettro si aggira per l’Europa”, e ammetterete che è un gran bell’incipit. Pazienza se Marx ed Engels avessero scritto “Uno…spettro si aggira per l’Europa”, semplicemente avrebbero messo in dubbio che il comunismo fosse cosa così terribile e imprendibile, forse la rivoluzione russa sarebbe stata anticipata di cinquant’anni, magari col beneplacito dello zar, e ci avrebbe partecipato anche Mazzini.
    Ma se avessero scritto “Uno spettro si…aggira per l’Europa”? Allora non si aggira? Sta? E dove sta? O è che gli spettri, spettri essendo, appaiono e scompaiono di colpo, in un battibaleno, e non perdon tempo ad aggirarsi? Ma non finisce qui. E se avessero scritto “Uno spettro si aggira…per l’Europa? Avrebbero voluto dire che stavano esagerando, che lo spettro cara grazia se circolava per Treviri, e gli altri potevano stare ancora tranquilli? O avrebbero alluso al fatto che lo spettro del comunismo già stava ossessionando anche le Americhe e, vedessi mai, l’Australia?
    .

  2. giogg ha detto:

    Beppe Severgnini, “I puntini di sospensione”
    “Io Donna” (“Corriere della Sera”), 29 aprile 2006, QUI

    Abbiamo parlato recentemente del punto e virgola e dei due punti, segni nobili che l’ortografia ci offre, ma la pratica ignora. Oggi ci dedichiamo a un segno irritante, purtroppo di gran moda: i puntini di sospensione.
    Chi sono, i Puntinisti? Donne e uomini pigri, che non hanno la costanza e il coraggio di finire un ragionamento. Le loro frasi galleggiano nell’acqua come le ninfee di Monet (“Caro Severgnini…come dirlo? Mio marito Puccio la detesta…Lei ha troppi capelli! Ieri . non ci crederà… ha tirato un suo libro al nostro vicino, lamentandosi che non fosse… un’edizione rilegata…”). Raramente questa overdose di puntini esprime un pensiero compiuto. Accompagna invece mezze ammissioni, spunti, sospetti, accenni, piccole vigliaccherie (non ho il coraggio di dire qualcosa, e alludo).
    Credo che la moderna mania puntinista – un morbillo, ormai – abbia una doppia origine: biografica (per i figli degli ’50 e ’60) e tecnologica (per chi è nato dopo).
    La mia generazione è stata corrotta dalla corrispondenza intimista degli anni Settanta (lettere fitte scritte a mano, per diluire in quattro pagine quello che non s’aveva il coraggio di dire in dieci parole). Se ve la sentite, e i figli non vi scoprono (potrebbero divertirsi troppo), andate a ripescare la corrispondenza di quel periodo: scoprirete un camposanto di puntini di sospensione, disposti casualmente e in numero formidabile (dovrebbero essere tre, invece: non uno di più, non uno di meno). Erano la rappresentazione grafica di una generazione sospesa (politicalmente, culturalmente, sessualmente). Diventando grandi, alcuni di noi sono guariti. Altri no, ma almeno hanno smesso di scrivere quelle lettere, ed è già qualcosa.
    I connazionali più giovani, invece, sono stati traviati dalla tastiera del computer. Basta tener pigiato il tasto del punto (.) e i puntini partono come una raffica di mitragliatrice (…………….). Sono tanti, facili, rapidi, pericolosi: bisogna schivarli, o si rischia. Quando ricevo una email iperpunteggiata, so che l’ha scritta un ventenne (“Egregio dott. Beppe……ho aspettato tanto a scriverLe….Avrei….desiderio… di intraprendere….come dire…..la carriera giornalistica, ma al momento mi dedico soprattutto ……alla collezione di tappi di bottiglia.”). Che dovrei rispondere? Di continuare coi tappi, probabilmente. Sono più colorati e meno pericolosi dei puntini. E nelle email, per adesso, non entrano (neppure come allegati)
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  3. giogg ha detto:

    La prova dell’analfabetismo dilagante, funzionale o meno, è in una ricerca della società britannica di sondaggi Ipsos Mori, che ha pubblicato alcune indagini effettuate in 14 nazioni diverse intervistando circa un migliaio di persone in ciascun Paese, di età compresa fra 18 e 64 anni e di ogni estrazione sociale, su dieci questioni economiche e sociali piuttosto delicate.

    “Il Post”, 29 ottobre 2014, QUI
    LE COSE SU CUI HANNO TORTO GLI ITALIANI
    I dati dicono che abbiamo le idee piuttosto confuse, più di molti altri paesi: per esempio non abbiamo idea di quanti siano i disoccupati o gli immigrati nel nostro paese

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    I risultati sono stati commentati da Francesco Costa: “[…] Nessuno ha percezioni fuori dalla realtà come noi [italiani]. Queste sono le percezioni sulla base delle quali ci facciamo un’opinione e andiamo a votare; queste sono le percezioni con cui i politici devono fare i conti – in un senso o nell’altro – quando cercano il consenso degli italiani. […] Un popolo che si informa così poco, che legge così pochi giornali, che è così poco interessato a conoscere quello che gli succede attorno se non in discussioni da bar, non può che avere terribilmente torto su tutto – spesso anche con una certa sicumera – e decidere così le cose sbagliate per le ragioni sbagliate. Ma. Ma. Sicuri che il problema sia nella domanda e non nell’offerta? Lo dico da giornalista […]. Sicuri che la patologica e sistematica diffusione di notizie false e imprecise, i toni terrorizzanti e apocalittici usati su qualsiasi cosa, non abbiano a che fare con la disinformazione degli italiani? […]”.

    Blog di Francesco Costa, 29 ottobre 2014, QUI
    IL PROBLEMA DELL’ITALIA SONO I SUOI GIORNALISTI?

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    Leggere anche Arianna Ciccone, “CONTRO I GIORNALI. PER AMORE DEL GIORNALISMO”, 28 ottobre 2014, QUI.

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    Altro commento da segnalare è questo di Lorenzo Ferrari: A ME NON LA RACCONTI (“Il Post”, 30 ottobre 2014): “[…] Particolarmente interessante è la domanda che i sondaggisti hanno rivolto agli intervistati che avevano clamorosamente sbagliato a stimare la percentuale di immigrati in Gran Bretagna. I sondaggisti hanno chiesto loro a che cosa attribuissero lo scarto tra la loro stima e i dati reali. Pochissimi lo hanno attribuito a delle carenze dei mezzi di informazione: la maggior parte degli intervistati ha semplicemente difeso le proprie percezioni, affermando di non credere ai dati ufficiali che le contraddicono. La domanda è stata fatta solamente agli intervistati britannici, ma è facile immaginare che i risultati sarebbero stati molto simili in un paese come l’Italia dove prosperano i “a me non la racconti”. […] Se i nostri pregiudizi sono così resistenti, è vano cercare di cambiarli quando ormai si sono formati: non sarà la pubblicazione di alcuni dati ufficiali a modificare le nostre opinioni. Forse allora l’unico modo per migliorare la qualità del dibattito pubblico è intervenire quando si formano, i pregiudizi: fare buona informazione probabilmente non serve a farci cambiare le nostre opinioni di oggi, ma magari almeno serve a rendere meno sbilenchi i nostri pregiudizi di domani“.

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