Una fotografia vale troppe parole

Stamattina (26 settembre 2012) è uscita una gran fotografia [1] scattata ieri sera a Madrid da Dominique Faget durante i duri scontri tra la polizia e gli “Indignados”. L’immagine ritrae un uomo in camicia bianca e pantaloni neri davanti all’ingresso di un ristorante, evidentemente quello in cui lavora, magari ne è addirittura il proprietario. L’uomo ha le mani giunte, come in preghiera, e si trova accanto ad un gruppo di poliziotti bardati di protezioni e manganelli, pertanto la sua supplica dev’essere rivolta ai dimostranti, non inquadrati nella fotografia ma ugualmente “presenti” grazie alla prospettiva degli sguardi delle persone ritratte. Non sapendo nulla del prima e del dopo di quello scatto e ignorando quanto stia accadendo intorno al rettangolo inquadrato, la mia prima impressione guardando quell’immagine è stata di un piccolo imprenditore che tenta di difendere il proprio lavoro dai vandali. Quello scatto trasmette una certa interpretazione dell’evento in corso (inoltre, la foto – che è davvero bella – è altamente drammatica, con dei chiari e degli scuri, dei fasci di luce e delle macchie di buio la cui alternanza sembra voler dividere il mondo in schieramenti contrapposti). Stamattina Luca Sofri l’ha commentata così: «questa foto è un romanzo, un film di Altman».
Poco fa “Repubblica” ha diffuso un video [2] che fornisce ulteriori elementi per comprendere il contesto in cui è stata scattata quell’immagine: l’uomo (Alberto Casillas, cameriere della “Cafeteria Prado”) stava facendo da scudo a molti manifestanti rifugiatisi nel suo locale, evitando, così, un’irruzione degli agenti. Il testo del giornale si ferma qua, lasciando intendere che il cameriere stia proteggendo i dimostranti dalla polizia violenta (e potrebbe essere), ma il filmato, proprio in chiusura, mostra quell’uomo urlare agli “Indignados” per strada, quelli più lontani e non inquadrati: “No tirar piedras!”, in un disperato appello a fermare la furia e le provocazioni.
Anche stavolta una fotografia vale più di mille parole, ma forse proprio per questo rischia di essere fuorviante.
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Mentre scrivevo questo post, “Il Post” ha pubblicato un articolo che chiarisce ulteriormente i fatti: QUI.

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INTEGRAZIONE del 17 settembre 2014:
Un mio contatto su facebook ha condiviso lo status di una persona che, per criticare l’eccesso di indignazione per la morte di un orso in Trentino, ha pubblicato una foto raccapricciante di cadaveri di bambini siriani, ignorati dai più. Ho commentato così:
Questa immagine non si può guardare. Né col cuore e la mente, né con gli occhi. Sono contro la pubblicazione – soprattutto in uno spazio come fb – di fotografie di tale violenza. L’opinione pubblica la si sensibilizza con le parole, non con le fotografie; queste al massimo producono una compassione momentanea che, sempre uguale a se stessa, alla fine assopisce più dell’indifferenza“.
Ho ricevuto la seguente replica: “Giogg, provocare una riflessione con se stessi attraverso una foto aiuta a mettere a nudo le nostre contraddizioni emotive ed etiche: indignarsi per mamma orsa e accettare invece supinamente gli omicidi gratuiti di papà uomo dimostra che in discussione è l’umanità di ciascuno di noi“.
Per cui ho puntualizzato che: “Parlavo della foto, non del caso in sé. Che ci sia un problema con l’animalismo e l’ambientalismo in Europa è evidente: leggo troppi status di persone che dicono di amare cani e gatti e poi scrivono orrori contro i bambini rom. Ripeto, io mi sono riferito solo all’uso dell’immagine, che trovo improprio perché dà l’avvio ad una perversione comunicativa chiamata “iconorrea”: siamo talmente invasi da immagini (violente) da non vederle più“.

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INTEGRAZIONE del 26 novembre 2014:
Paul Mason ha scritto su “The Guardian” (23 novembre 2014) un editoriale sull’inutilità delle immagini violente e raccapriccianti per scongiurare la guerra: Horrific pictures of dead bodies won’t stop wars. People who believe that showing violent images from conflict zones will deter killing are mistaken: “[…] We are besieged now by images of the dead in conflict, usually published by people who believe it will either deter killing, expose the perpetrators or illustrate war’s futility and brutality. It is an old illusion […]”.

Informazioni su giogg

Studio il rapporto tra gli esseri umani e i loro luoghi, soprattutto quando si tratta di luoghi "a rischio"
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2 risposte a Una fotografia vale troppe parole

  1. giogg ha detto:

    Come scrivevo qui un po’ di tempo fa, sono sempre più scettico sulla cultura visuale. O meglio, sulla sua capacità analitica: una fotografia non vale mille parole, ma troppe. La fotografia si presta a innumerevoli letture, spesso fuorvianti, e questo significa che – relativamente all’ambito della ricerca – si tratta di un documento estremamente ambiguo.
    L’ultimo esempio è quello di una drammatica fotografia scattata a Gaza alla fine del 2012, quella in cui «Jihad Misharawi, che lavora nella Striscia di Gaza per l’emittente britannica Bbc, piange disperato mentre abbraccia il piccolo Omar, il suo bimbo di 11 mesi morto a causa di un bombardamento durante gli otto giorni di guerra a Gaza alla fine del 2012 quando Israele lanciò una rappresaglia durata 8 giorni per fermare il lancio di razzi da Gaza verso il sud (Sderot, Beersheva) e il centro di Israele (Tel Aviv, Gerusalemme)». Ora si scopre che fu un razzo lanciato da Hamas.
    Ne ha scritto Monica Ricci Sargentini su “Le persone e la dignità”, il blog di “Amnesty International” ospitato dal “CorSera” (12 marzo 2013):

    E’ la foto simbolo del dolore palestinese ma l’Onu rivela che a colpire fu un razzo di Hamas.

  2. Pingback: Le fotografie di persone in sofferenza sono sempre voyeuristiche | il Taccuino dell'Altrove

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