“Non fu imposizione”

Probabilmente Andrea Rivera ha sbagliato quando a Roma dal palco del concerto del 1° maggio ha detto che la Chiesa non si è mai evoluta. Dal discorso che Benedetto XVI ha tenuto nel Santuario dell’Aparecida in Brasile domenica scorsa, infatti, a me sembra che invece sia piuttosto darwiniana: «L’utopia di tornare a dare vita alle religioni precolombiane, separandole da Cristo e dalla Chiesa universale, non sarebbe un progresso, bensì un regresso. In realtà, sarebbe un’involuzione verso un momento storico ancorato nel passato».
Eloquente la visione per cui le società e le culture si troverebbero su piani di differente altezza, no?
Ok, al di là della mia sottile ironia polemica, in realtà non sono né sorpreso, né scandalizzato: tutti i gruppi umani (piccoli e grandi, deboli e forti) si percepiscono e si raccontano come al centro del mondo o pongono la propria comunità davanti alle altre perché sarebbe quella degli “uomini veri”. Vittorio Lanternari definisce tale fenomeno (operante su un piano inconscio) “etnocentrismo intellettuale”: «In misura maggiore o minore secondo il grado di cautela critica ed autocritica che il soggetto impiega nel controllo dei criteri conoscitivi e valutativi, questo tipo di attitudine etnocentrica spinge il soggetto a formulare interpretazioni preconcette, direttamente legate alla sua propria cultura, e ai suoi modelli culturali».
Bene, chiarito che si tratta di una condizione che riguarda tutti e che l’unica preoccupazione risiede nel grado di chiusura in se stessi, il vero spunto per cui anche oggi sento di dover appuntare qualche pensiero sul Taccuino è la distorsione della Storia.
Che c’entra? Beh, il primo punto (“La fede cristiana in America Latina”) del discorso con cui papa Ratzinger ha inaugurato i lavori della Vª Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Carabi, è ricco di posizioni che mi hanno lasciato pressoché sbigottito.
«Che cosa ha significato l’accettazione della fede cristiana per i Paesi dell’America Latina e dei Carabi? Per essi ha significato conoscere ed accogliere Cristo, il Dio sconosciuto che i loro antenati, senza saperlo, cercavano nelle loro ricche tradizioni religiose. Cristo era il Salvatore a cui anelavano silenziosamente».
Insomma, erano buoni e bravi, ma non ce la facevano, per cui arrivarono in aiuto i missionari che offrirono loro la vera fede.
Subito dopo, però, c’è il passaggio più imbarazzante: «l’annuncio di Gesù e del suo Vangelo non comportò, in nessun momento, un’alienazione delle culture precolombiane, né fu un’imposizione di una cultura straniera».
Queste parole sono sbagliate, anzi sono un grave errore («sono un insulto alla storia, un oltraggio ai milioni di vittime che la conquista costò», ha scritto ieri Corrado Augias nella sua rubrica su “la Repubblica”).
La cristianizzazione del Sud America avvenne in maniera abominevole. Anche quando non furono completamente cancellate, le comunità locali diedero vita ad un meticciato culturale – tra i valori iberici e quelli preesistenti – come una forma di reazione ad ordini esterni ed estranei, non per una fantomatica accettazione. Quella che secondo il papa fu («fortunatamente») «una sintesi tra le loro culture e la fede cristiana», in realtà rappresentò una forma di resistenza da parte delle popolazioni indigene, una strategia di sopravvivenza che non le annientasse del tutto.
Serge Gruzinski lo ha spiegato in maniera lampante: non si trattò solo di una conquista militare da parte degli europei, né semplicemente di una sottomissione sociale e culturale, fu anche una vera e propria colonizzazione dell’immaginario. Gli spagnoli arrivarono nel nuovo continente con la scrittura alfabetica e l’immagine prospettica, due ordini visuali del tutto alieni alle culture amerindiane. I criteri di rappresentazione della realtà furono totalmente stravolti, al punto che ancora oggi restano da capire ed interpretare quali furono (e, forse, quali sono ancora) le «reazioni indigene ai modelli di comportamento e di pensiero introdotti dagli europei», nonché la «loro percezione del mondo generato dalla dominazione coloniale nella violenza e spesso nel caos».

    PS:
1. Che tutti i gruppi umani si pongano al centro del mondo lo conferma anche il nome con cui molti di essi si definiscono, che spesso coincide col termine “uomini”. Questo vale, ad esempio, per i Rom, i Bantu, gli Inuit, i Giavanesi o, nel caso del dialetto napoletano, per ‘e Cristiani.
2. La citazione di V. Lanternari è da “L’incivilimento dei barbari. Identità, migrazioni e neo-razzismo”, 1983-1997, *.
3.
Le parole di S. Gruzinski sono tratte da “La colonizzazione dell’immaginario. Società indigene e occidentalizzazione nel Messico spagnolo”, 1988-1994, *. Estremamente utile, però, è anche “La pensée métisse”, 1999, *.
4. Poi dice che uno si butta a sinistra… «La chiesa coloniale deve essere un gioiello archeologico perché, oltre alla sua antichità, si nota l’incontro fra l’arte europea importata e lo spirito indio di queste terre. Nelle viuzze strette del villaggio, con la pavimentazione di pietre tipicamente indigena e i bruschi dislivelli, le meticce con i bimbi sulla schiena… insomma, nei tanti aspetti pittoreschi, si respira l’evocazione di tempi anteriori alla conquista spagnola; ma questa che abbiamo davanti non è la stessa razza orgogliosa che si ribellava continuamente all’autorità degli Incas e li costringeva a mantenere un contingente dell’esercito su queste frontiere: quella che ci guarda passare per le strade del paesino è una razza vinta. I loro sguardi sono miti, quasi timorosi e completamente indifferenti al mondo esterno. Alcuni danno l’impressione di vivere solo perché vivere è un’abitudine che non ci si può togliere di dosso» [Ernesto Che Guevara, “Latinoamericana” (1952), *].
5. Tra i tanti film sul tema, segnalo i seguenti: “Aguirre, furore di Dio” (di Werner Herzog, 1972, con Klaus Kinski), Mission” (di Roland Joffé, 1986, con Robert De Niro e Jeremy Irons, e le magnifiche musiche di Ennio Morricone), “1492: la conquista del paradiso” (di Ridley Scott, 1992, con Gérard Depardieu e le musiche di Vangelis).
6.
Mercoledì ho conosciuto padre Giorgio Poletti, un missionario comboniano che dopo aver studiato negli Stati Uniti ha operato a lungo in Mozambico. Da qualche anno, però, è tornato in Italia: ora sta tentando di mettere ordine nella critica realtà di Castelvolturno. Com’è facile immaginare, è un uomo “tosto” e non le manda a dire. Nel suo intervento dell’altro ieri all’università di Caserta, infatti, ha detto: «Le religioni sono potere, ideologie. Le religioni sono in mano ai ricchi che passano la vita con un gatto e un pianoforte, senza mai immaginare davvero la vita di chi è accanto».

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Studio il rapporto tra gli esseri umani e i loro luoghi, soprattutto quando si tratta di luoghi "a rischio"
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7 risposte a “Non fu imposizione”

  1. ggugg ha detto:

    Ho trovato la colonna sonora del post: “Do the evolution” dei Pearl Jam. Nulla di più congeniale, direi.
    Alzate il volume, il suo bellissimo video è qui.

    *** *** ***

    DO THE EVOLUTION
    (Vedder – Gossard, nel disco “Yeld”, 1998)

    Woo…
    I’m ahead, I’m a man
    I’m the first mammal to wear pants, yeah
    I’m at peace with my lust
    I can kill ‘cause in God I trust, yeah
    It’s evolution, baby

    I’m at peace, I’m the man
    Buying stocks on the day of the crash
    On the loose, I’m a truck
    All the rolling hills, I’ll flatten ‘em out, yeah
    It’s herd behavior, uh huh
    It’s evolution, baby

    Admire me, admire my home
    Admire my son, he’s my clone
    Yeah, yeah, yeah, yeah
    This land is mine, this land is free
    I’ll do what I want but irresponsibly
    It’s evolution, baby

    I’m a thief, I’m a liar
    There’s my church, I sing in the choir:
    (hallelujah, hallelujah)

    Admire me, admire my home
    Admire my son, admire my clones
    ‘Cause we know, appetite for a nightly feast
    Those ignorant Indians got nothin’ on me
    Nothin’, why?
    Because… it’s evolution, baby!

    I am ahead, I am advanced
    I am the first mammal to make plans, yeah
    I crawled the earth, but now I’m higher
    2010, watch it go to fire
    It’s evolution, baby
    Do the evolution
    Come on, come on, come on

    *** *** ***

    VAI CON L’EVOLUZIONE
    (traduzione di Lorenzo Masetti)

    Woo…
    Sono avanti, sono un uomo
    sono il primo mammifero che porta i pantaloni, oh sì
    sono in pace con la mia ingordigia,
    posso uccidere perché credo in Dio, sì
    È l’evoluzione, baby!

    Sono a pezzi, sono l’uomo
    che compra i pezzi di ricambio il giorno della crisi
    In libertà, sono una ruspa
    tutte quelle colline ondulate, le spianerò, sì
    è il comportamento del branco
    è l’evoluzione

    Ammirami, ammira la mia casa
    Ammira mio figlio, è il mio clone
    Sì, sì, sì, sì
    Questa terra è mia, questa terra è libera
    Farò quello che voglio ma senza responsabilità
    È l’evoluzione baby!

    Sono un ladro, sono un bugiardo
    Ecco la mia chiesa, canto nel coro:
    alleluja… alleluja

    Ammirami, ammira la mia casa,
    ammira la mia canzone, ammira i miei vestiti
    perchè noi sappiamo, appetito per un banchetto notturno
    Quegli indiani ignoranti non hanno ottenuto niente da me
    Niente, perché?
    Perché è l’evoluzione baby

    Sono avanti, sono avanzato
    sono il primo mammifero a fare piani, sì
    ho strisciato sulla terra, ma ora sono più alto
    2010, guardala andare a fuoco
    È l’evoluzione baby
    Vai con l’evoluzione
    Vieni, vieni, vieni…

  2. mpenzi ha detto:

    caro gugg, è vero che l’esistenza di una tendenza all’etnocentrismo è presenza costante nei gruppi umani…Ernesto de Martino però ci ha insegnato attraverso il suo concetto di “etnocentrismo critico” come, proprio perchè consapevoli di questo meccanismo, sia necessario porlo sotto esame critico,vale a dire operare un lavoro “da dentro”,fare emergere e rendersi consapevoli dell’esistenza di questo meccansimo per capire come ogni mio giudizio, concetto, atto, idea sia frutto proprio del mio etnocentrismo culturale…discorso assai complesso e articolato.Non porto la citazione ma insomma il suo “La fine del mondo” potrebbe venire in aiuto.proseguiamo…tutto quello che tu dici sulle parole di una certa Chiesa, quella più forte,potente e massmediale, sono verissime e non possono che vedermi concorde…non avrei detto meglio ma vado oltre e devo ammetere che questa “criticità” di cui parla de Martino (lui la utilizza come strumento indispensabile all’etnologia) non è presente esclusivamente in questo campo ma purtroppo solo persone preparate e illuminate riescono a liberarsene. Voglio dire che porre a criticità il nostro etnocentrismo (e non vuole dire certo rinnegare la propria cultura ne tanto meno sminuirla o giudicarla) è operazione non solo auspicabile ma indispensabile ormai per CAPIRE il nostro mondo. Non so se riesco a rendere chiaro il passaggio…e mi rendo conto che il post sta diventando lungo…ad ogni modo arrivare a capire che OGNI COSA è frutto di una costruzione storica e culturale permetterebbe di relativizzare…ma non è sempre il nostro caro pastore tedesco a temere come la peste il relativismo?
    Non mi soffermo a ribadire ciò che hai detto tu circa la gravità delle parole di “nostra” santità;un vero e proprio rinnegamento della storia, un calcio alla dignità di popoli massacrati per secoli dal simbolo della croce, vittime insieme a chi a quella stessa croce venne inchiodato per morire. io non credo che le parole del Pastore siano dettate da non conoscenza…(chi lo può credere?)ma piuttosto mosse da quel becereo meccansimo di un NOI contropposto ad un LORO, meglio ancora se questo loro appare ignorante, in balia di credenze, di superstizioni…NOI illuminati dalla luce divina e loro nella barbarie di qualche divinità…NOI grazie a dio (quale dio?)abbiamo trovato quella luce e come siamo stati bravi a farla trovare anche a LORO che altrimenti rimanevano nella in-civiltà!!Io trovo tutto questo estremamente pericoloso…non solo mi scandalizza ma soprattutto mi fa terribilmente paura.
    mi auguro invece che quel poco di “originario”(poi caro gugg ci sarebbe da discutere anche su questo termine così usato e abusato)non solo resti ma cominci finalmente ad essere portato come valore aggiunto, richezza, fonte di conoscenza ma di più fonte per queste popolazioni di ritrovamento di una strada, di una radice, di un ancoraggio.
    Molto altro si potrebbe dire…

  3. ggugg ha detto:

    Sì, mpenzi, pensare di liberarci dal nostro etnocentrismo è un’illusione. Nessuno può abbandonare (completamente) il proprio punto di vista. E questo, come sottolinei tu, ce lo ha insegnato de Martino.
    Ciò, però, non significa che nulla possa cambiare e che nessuna analisi possa essere effettuata. In effetti, l’operazione obbligata per intraprendere un’osservazione o una discussione meno “di parte” resta senza dubbio la relativizzazione di se stessi, cioè quel lavoro “da dentro” cui ti riferisci, grazie al quale si riesce ad “esplicitarsi”, a rendere palese (soprattutto a se stessi) il proprio modo di vedere, in qualche modo la propria cultura.
    Certo, immaginare che la Chiesa cattolica (ma probabilmente questo vale per ogni istituzione religiosa) possa osservarsi con tale disincanto mi sembra chiedere troppo. Tuttavia, la distanza tra determinati atti formali dà la misura di quanto possa cambiare anche la sostanza: in contrapposizione alle parole di papa Ratzinger, infatti, non posso non ricordare quelle di papa Wojtyla con cui – il 12 ottobre 1992 a Santo Domingo – chiese scusa per i crimini commessi durante la Conquista delle Americhe: «Bisogna riconoscere in tutta sincerità gli abusi commessi, dovuti alla mancanza d’amore da parte di quelle persone che non seppero vedere negli indigeni dei fratelli, figli dello stesso Dio Padre».
    Anch’io, come ha scritto Matteo Bordone in risposta ad un commento sul suo blog, vorrei dire «Sono troppo laico per occuparmi della posizione dell’Osservatore Romano», ma purtroppo non riesco ad essere indifferente a questo irrigidimento delle posizioni, a questo aggravamento del dibattito (che è tutto politico, mica spirituale) da parte delle gerarchie cattoliche.
    La verità è che ho paura che un giorno potrei avere davvero paura dell’incendio che nel frattempo avranno appiccato.

  4. ggugg ha detto:

    Ormai le dichiarazioni dei potenti hanno sempre una coda. Generalmente si tratta di smentite, rettifiche, aggiustamenti, indicazioni di corrette interpretazioni a noi inetti di passaggio, nonché gli ormai innumerevoli insopportabili “sono stato frainteso”. E allora davvero non si capisce perché non possano parlare chiaramente già la prima volta.
    È capitato anche a papa Ratzinger (che non è nuovo a cose del genere), che infatti oggi nell’udienza generale a San Pietro ha detto: «Il ricordo di un passato glorioso non può ignorare le ombre che accompagnarono l’opera di evangelizzazone del continente latino-americano». Poi ha spiegato che «il ricordo delle sofferenze inflitte dai colonizzatori non deve impedire di prendere atto della meravigliosa opera compiuta dalla grazia divina tra quelle popolazioni». Infatti, ha aggiunto, «il Vangelo è diventato così elemento di una sintesi che con varie sfaccettature esprime l’identità del popolo latino-americano».

    Dal Televideo di oggi (mercoledì 23 maggio 2007, ore 21:18, pagina 158).

  5. ggugg ha detto:

    UNA RATISBONA TROPICALE
    di Ettore Masina

    Mentre l’università di Teramo rifiutava di accogliere Robert Faurisson, lo storico che sostiene che la Shoah non è mai esistita, l’ombra del negazionismo sfiorava il Vaticano. Arrivando nel «continente più cattolico del mondo», papa Ratzinger ha detto che «il Brasile è nato cristiano» [1]; e, rivolgendosi ai vescovi, dunque ai detentori della tradizione, ha addirittura sostenuto che «in effetti, l’annuncio di Gesù e del suo Vangelo non comportò, in nessun momento, un’alienazione delle culture precolombiane, né fu un’imposizione di una cultura straniera». Ora, la storia del Brasile e di tutti i paesi del continente (che molto a ragione il vescovo anglicano Sebastiâo Gameleira chiama ‘afrolatindio’) è storia che nasce da due immensi genocidi: quello degli indios e quello degli schiavi negri. E questi due genocidi furono compiuti da cattolici, portoghesi e castigliani, i quali piantarono croci su tutte le spiagge su cui sbarcarono e su tutte le vette che scalarono per cercarvi l’oro, ma anche sradicarono con teocratica violenza tutte le culture e le religioni che incontrarono.
    Secondo gli archeologi e gli antropologi, nell’immensa area che poi venne chiamata Brasile, le prime popolazioni arrivarono dall’Asia 40 mila anni fa. Popoli di cacciatori e di raccoglitori di frutti spontanei della terra, al momento dell’arrivo degli europei, erano certamente più di 3 milioni di persone; cento anni più tardi ne erano rimaste vive meno della metà: le altre erano state sterminate dalle malattie portate dagli europei ma anche dalla violenza dei ‘latini’. Dovunque fu loro possibile, i conquistadores ridussero gli indigeni in schiavitù e li fecero lavorare, senza pietà, nei campi e nelle miniere sino allo sfinimento e alla morte. I superstiti cercarono di sottrarsi al macello rifugiandosi nelle profondità delle foreste; il loro terrore per la ferocia dei ‘bianchi’ fu tanto grande che ancora oggi, 500 anni più tardi, esistono piccole tribù che cercano di evitare qualunque contatto con gli invasori. In altri termini: un intero mondo fu distrutto per far nascere il Brasile. Fu davvero una nascita cristiana? In quegli anni i teologi europei discutevano se i ‘selvaggi’ avessero un’anima.
    Mentre il genocidio indio andava compiendosi, cominciò, e continuò per tre secoli, quello dei negri. Due anni dopo l’abolizione della schiavitù (che nel cattolico Brasile avvenne soltanto nel 1888), il governo fece distruggere tutti gli archivi che riguardavano la tratta degli africani per cancellare «ogni traccia della secolare infamia». Difficile dunque sapere quanti negri furono strappati ai loro paesi e alle loro famiglie per essere deportati in quella che a suo tempo era stata chiamata «Terra della Vera Croce», ma i calcoli più approfonditi parlano dai 4 ai 10 milioni e più di persone. Immense flotte attraversarono l’oceano per trasportare questa merce umana, immense ricchezze nacquero da quell’infame commercio di corpi e destini. Si sviluppò, per servire il nuovo Mercato, una perfetta organizzazione che, per le sue dimensioni e per la sua crudeltà anticipa quella di Eichmann [2]. Come in quella di Eichmannn, i contenitori di uomini donne e bambini, durante il trasporto a destinazione si riempivano di cadaveri (la mortalità sulle navi negriere raggiungeva il 25 per 100); come in quella di Eichmann i sopravvissuti andavano incontro all’orrore. Al loro arrivo nel porto di Salvador Bahia (allora capitale del Brasile), dopo la vendita ai fazendeiros con lo smembramento delle famiglie, gli schiavi venivano marchiati a fuoco e battezzati lo stesso giorno. Qualunque tentativo di rimanere fedeli alle proprie religioni significava da quel momento per loro essere battuti a morte. Davvero «l’annuncio di Gesù e del suo Vangelo non comportò, in nessun momento, un’alienazione delle culture precolombiane, né fu un’imposizione di una cultura straniera»?

    CONTRADDIZIONI
    In questa lunga terribile storia, la Chiesa non poteva non rimanere tragicamente invischiata. Essendo portoghesi o spagnoli tutti i missionari e i vescovi, la grande maggioranza di loro condivideva i pregiudizi e le incomprensioni dei loro conterranei. I risultati furono una serie di paurose contraddizioni. Nei documenti del primo Capitolo dei gesuiti di Salvador Bahia (1568) si parla degli schiavi in un paragrafo intitolato «De vaccis et servubus»: i neri paragonati al bestiame. Contemporaneamente la stessa congregazione fondava le «reducciones del Paraguay», vere e proprie «cittadelle di Dio», in cui gli indios guaranì, crudelmente perseguitati dai bandeirantes (cacciatori di schiavi), trovarono rifugio. Fu una vera epopea, anche perchè i bandeirantes e poi le truppe imperiali assaltarono le reducciones, considerate giustamente pietre d’inciampo per lo sfruttamento coloniale. Riuscirono a distruggerle. Ma anche quei luoghi di cristiano soccorso furono pur sempre luoghi in cui gli indios venivano soavemente strappati alle loro culture, considerate primitive. Gli indios delle reducciones furono ‘europeizzati’. O si tentò di farlo. Si trattò, esattamente, anche se non violentemente di «imposizione di una cultura straniera».
    Intanto altri religiosi chiedevano schiavi ai confratelli delle missioni africane. Sulle facciate di alcuni conventi della Bahia si aprono le elaborate finestre delle celle dei frati. Sopra ciascuna di esse si scorge il finestrino della stanzetta in cui abitava lo schiavo del monaco sottostante. Padre Miguel Garcìa, un pio gesuita che fu il primo insegnante di teologia a Salvador, assediava i suoi superiori con una domanda: ma gli schiavi non sono nostri fratelli? Alla fine i superiori trasmisero il quesito (e le sue delicate implicazioni) alla congregazione vaticana «De Propaganda Fide». Il Vaticano ponderò il caso. Un anno più tardi (1608), giunse il rescritto: «Padre Garcìa non è adatto alla vita di colonia, essendo persona afflitta da molti scrupoli. Lo si rimandi in Europa»…
    Paolo III aveva condannato la schiavitù, alcuni (pochi) coraggiosi missionari seguitavano a proclamarne la vergogna, ma ormai la Santa Sede doveva (!) tenere conto degli imperi coloniali. Chissà se papa Ratzinger conosce queste storie. Le sue affermazioni, comunque, hanno provocato lo sdegno delle popolazioni indigene [3] (quelle che hanno potuto conoscerle e quelle che hanno potuto far giungere il loro parere ai mass media). Il papa, la Santa Sede e i vescovi brasiliani sono ora impegnati in accorate spiegazioni e in dignitose ammissioni. Per molti versi, si tratta di una ripetizione, in chiave tropicale, di quanto accadde per lo sciagurato discorso di Ratisbona [4].

    FALLIMENTI
    Benedetto XVI ha fatto in Brasile alcune affermazioni che sono apparse a molti coraggiose e inedite. Ha detto che la scelta preferenziale dei poveri è costitutiva della Chiesa, ha sostenuto la fine del marxismo e ha proclamato il fallimento del capitalismo. Sono certamente dichiarazioni molto importanti ma non inedite. Per quanto riguarda l’opzione preferenziale dei poveri (che risale all’assemblea dei vescovi latino-americani a Puebla del 1979 [5], la novità mi pare essere il fatto che alla formula non sono più state aggiunte le parole «ancorchè non esclusiva» che, per volontà del Vaticano di Wojtyla, la estenuavano. Quanto al fallimento del capitalismo, già Paolo VI – e prima i lui due altri papi – avevano condannato senza equivoci quello che avevano definito «imperialismo internazionale del danaro». (v. l’enciclica Populorum progressio [6], 1967).

    [continua al commento successivo]

  6. ggugg ha detto:

    [continua dal commento precedente]

    LA CHIESA DEI POVERI
    Ma Ratzinger, purtroppo, ad Aparecida ha ripetuto una parola, un concetto molto caro al ceto ecclesiastico, e quella parola, quel concetto è che la Chiesa deve farsi avvocata dei diritti dei poveri. Io credo che in questo concetto stia non dico la facilità ma certamente la possibilità che Ratzinger offenda ancora, come a Ratisbona e in Brasile, le vittime dell’ingiustizia. Il rapporto, infatti, tra chi patisce un’oppressione e l’avvocato che lo difende non è un rapporto d’amore neppure quando l’avvocato sia coraggioso e sapiente. L’avvocato non abita la cella del condannato né porta catene. L’avvocato, in genere, appartiene alla stessa classe sociale dei giudici. La sera cena come i giudici, dorme in una casa simile a quella dei giudici. Non ha lo stesso odore della vittima che difende. Salvo i casi di feroci dittature, non subisce le bòtte inflitte al suo raccomandato. Qualche volta riesce a offrire un sepolcro nuovo al giustiziato che ha invano difeso; ma a morire sulla croce è sempre il povero. Perciò io credo che un papa, come un sacerdote, un qualunque cristiano o una qualunque cristiana non debbano soltanto parlare coraggiosamente a favore dei poveri ma debbano sforzarsi di stare, prima di tutto, in mezzo a loro e aiutarli da compagni di cammino verso la Terra della giustizia e della libertà. Una delle ragioni per cui la cosiddetta dottrina sociale della Chiesa, letta con gli occhi dei poveri, appare avvocatesca, incomprensibile e talvolta oltraggiosa è che chi la scrive sta sul crinale della storia che separa gli oppressi degli oppressori. La missione delle Chiesa, come aveva visto nitidamente nostro padre Giovanni XXIII, è quella di essere «la Chiesa di tutti e specialmente la Chiesa dei Poveri».
    Questa Chiesa è stata ed è viva proprio in Brasile. É un peccato che nessuno ne abbia parlato a Benedetto XVI e tristissimo sarebbe se, avendone avuta notizia, il papa avesse creduto che si trattasse di un ‘falso millenarismo’ (come egli ha definito con germanica ruvidezza la Teologia della Liberazione). Mentre il papa proclamava santo, a Sâo Paulo, un fraticello del XVIII secolo e a Roma si preparava la canonizzazione di quasi 500 sacerdoti massacrati durante la guerra civile dalla furia degli anarchici e dei comunisti spagnoli, in Anapu, cittadina amazzonica, si concludeva il processo per l’uccisione di Dorothy Stang [7], un’anziana suora americana assassinata nel febbraio 2005, per mandato di un fazendeiro che le imputava la sua animazione di un gruppo di contadini cristiani. Suor Dorothy è l’ultimo nome nelle lunghissima lista (più di 500 nomi) di sacerdoti, religiose e laici cattolici, uccisi negli ultimi trent’anni in Brasile a causa del loro impegno a favore dei poveri. Da questo punto di vista, la storia della Chiesa in Brasile non ha altri paragoni se non con la Chiesa nel Salvador.

    MARTIRI
    Cito soltanto i nomi e le storie che conosco personalmente e che venero come parte integrante del mio sforzo per essere cristiano: padre Henrique Pereira Neto, collaboratore di dom Helder Camara, massacrato da terribili torture inflittegli da uno Squadrone della morte; Josimo Morais Tavares, uno dei leaders della Pastoral da Terra, assassinato da pistoleiros pagati dai grandi proprietari terrieri; frei Tito de Alençar, domenicano, suicida per turbe mentali da sevizie inflittegli dai carnefici della dittatura militare; padre Joâo Bosco Penido Burnier, gesuita, ucciso da un soldato alla cui violenza voleva sottrarre una povera donna; don Rodolfo Lunkenbein, salesiano, tedesco, ucciso nel Mato Grosso mentre viveva fra gli indios Bororo, difendendone i diritti; padre Ezechiele Ramin, comboniano, italiano di Padova, anche lui colpito dagli agrari…
    Qualcuno ha sussurrato questi nomi al papa, non per chiedergli una canonizzazione (le canonizzazioni dei poveri arrivano dopo secoli) ma per suggerirgli che la Chiesa può e deve, se vuole vivere nella storia, legarsi alla vicende dei poveri? Qualcuno gli ha ricordato i grandi vescovi i cui legami con le comunità di base tenevano, oltre a tutto, a freno, le sette “evangeliche”? Parlo di Helder Camara, Paulo Evaristo Arns, Joâo Baptista Fragoso, Ivo Lorscheiter, Aloisio Lorscheider, Fernando Gomes dos Santos, Pedro Casaldaliga, Tomàs Balduino… Chi ha conosciuto queste persone o ne ammira la paziente e coraggiosa vecchiaia, chi ascolta i poveri che ne raccontano la storia sa che il Regno di Dio è già presente sulla Terra. Se potessi dare un consiglio al papa, che appare così frequentemente oppresso da un senso di tragedia, gli direi: Santità, non permetta che a descriverle la realtà del nostro pianeta siano soltanto i diplomatici o i porporati.

    NOTE:
    1. http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2007/may/documents/hf_ben-xvi_spe_20070509_welcome-brazil_it.html
    2. http://it.wikipedia.org/wiki/Adolf_Eichmann
    3. http://www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?idpa=&idc=2&ida=&idt=&idart=7966
    4. http://www.grillonews.it/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=2502
    5. http://www.corsodireligione.it/etica/eticdotsoc_2.htm
    6. http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/encyclicals/documents/hf_p-vi_enc_26031967_populorum_it.html
    7. http://en.wikipedia.org/wiki/Dorothy_Stang

    PS: il sito web dell’autore è http://www.ettoremasina.it.

    PPS: questo breve saggio (del 28 maggio 2007) è tratto da http://www.grillonews.it/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=2638.

  7. anonimo ha detto:

    Ho chiesto per curiosità al mio amico di Rio de Janeiro che ne pensasse delle parole del papa in Brasile. « E’ antropologo », mi sono detta, « mi farà una bella critica dettagliata al discorso sull’introduzione del vangelo in America Latina ». Mi ha risposto molto semplicemente, nella maniera garbata e allegra che ho spesso riscontrato nei brasiliani: « ma a chi ha domandato, per poter dire così? » .
    Man mano che ci rifletteva evidentemente però un po’ si arrabbiava, perchè, dai pochi epiteti che ha poi aggiunto, ho capito che considerava il santo padre affine a certi movimenti tedeschi della metà del ‘900. In verità, ha anche fatto, a mezza voce ed in portoghese, un’illazione sul mestiere della madre del pontefice; commento che ho potuto agevolmente comprendere grazie alla notevole assonanza con l’analoga espressione italiana..
    Ambasciatore non porta pena, sto solo esercitando il diritto di cronaca! Non me ne vogliano i più.

    V.

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