Ne “Lo cunto de li cunti“, una raccolta di fiabe napoletane della prima metà del XVII secolo, Giambattista Basile cita «la Morte de Sorriento», nella storia “Li due fratielle”, per descrivere lo stato pietoso in cui versa una ragazza: «le masche erano così rezucate, che pareva la Morte de Sorriento».
Nel corso del tempo quell’immagine è diventata un modo di dire, come hanno ricordato Angie Cafiero nel 2015, Raffaele Palmieri nel 2016 e Antonio Pio Iannone nel 2017. Tuttavia, è oltre due secoli e mezzo dopo, nel 1890, che quell’espressione viene affrontata con maggior attenzione in un testo: in “Tradizioni e usi nella Penisola Sorrentina“, Gaetano Amalfi – riportando delle notizie di Gaetano Canzano Avarna – spiega che «la Morte de Sorriento [è] un’antica costumanza» (già scomparsa al tempo in cui scrive), dove si affrontavano due personaggi, Carnevale e Quaresima. Il primo era «un fantocciaccio con enorme ventraja, inghirlandato dei cibi più succulenti, [che] fra i prodotti del porco se ne stava sdrajato in una carretta». Il secondo, invece, era «una vecchiaccia maghera, lunga, lurida, adorna di salacche, baccalà, legumi ed altri segni del magro». A mezzanotte dell’ultima sera di carnevale, provenendo da parti opposte dell’abitato, i due si incontravano sotto la Porta principale della città (diroccata nel 1863), dove si trovava un terzo personaggio: un alto scheletro di legno e cartone, ovvero la Morte, «che, vedendo apparir Carnevale, con l’inesorabile falce gli mieteva la vita, mentre Quaresima si avanzava in Città, in aria trionfale. Intanto la plebaglia furente ed ubbriaca, urlando dilaniava il corpo dell’ucciso; e faceva un falò dei miseri avanzi».
Com’è noto, la “Lotta tra Carnevale e Quaresima” è ancora più antica, come testimoniano numerosi testi – non solo italiani – a partire dal XIII secolo e, visivamente, un celebre dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio, datato 1559.
Ricordato ciò, buon Carnevale a tutt*.