Prendendo spunto dalle polemiche sorte intorno alla piantumazione di palme in piazza Duomo a Milano (che stanotte qualcuno ha tentato di bruciare), Alessio D’Auria, architetto e docente universitario, ha scritto un post su Facebook che chiarisce quanto il paesaggio sia identitario, proprio perché dinamico. Ripubblico il testo, ringraziando l’autore per la sua disponibilità.

Una fotografia di piazza Duomo a Milano alla fine dell’Ottocento (fonte: profilo Fb del Comune di Milano)
All’interrogativo: «che cos’è il Mediterraneo?» Fernand Braudel rispondeva: «Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre. (…) Nel paesaggio fisico come in quello umano, il Mediterraneo crocevia, il Mediterraneo eteroclito si presenta al nostro ricordo come un’immagine coerente, un sistema in cui tutto si fonde e si ricompone in un’unità originale». D’altra parte, l’identità del Mediterraneo, in cui le relazioni materiali ed immateriali confluiscono in uno “spazio-movimento” che hanno creato storicamente un immaginario unitario fortissimo, non è rimasta immutata nei secoli. Se infatti, ci ricorda Lucien Febvre, citato da Braudel, Erodoto si mescolasse ai turisti contemporanei non riconoscerebbe nessuno di quelli che per noi sono senza dubbio componenti costitutive del paesaggio mediterraneo: aranci, limoni, pomodori, cipressi, castagni, peperoncini, melanzane..
Scrive Braudel: «Se Erodoto, il padre della storia, vissuto nel V secolo a.C., tornasse e si mescolasse ai turisti di oggi, andrebbe incontro a una sorpresa dopo l’altra. “Lo immagino”, ha scritto Lucien Febvre, “rifare oggi il suo periplo del Mediterraneo orientale. Quanti motivi di stupore! Quei frutti d’oro tra le foglie verde scuro di certi arbusti – arance, limoni, mandarini, – non ricorda di averli mai visti nella sua vita. Sfido! Vengono dall’Estremo Oriente, sono stati introdotti dagli arabi. Quelle piante bizzarre dalla sagoma insolita, pungenti, dallo stelo fiorito, dai nomi astrusi – agavi, aloe, fichi d’India -, anche queste in vita sua non le ha mai viste. Sfido! Vengono dall’America. Quei grandi alberi dal pallido fogliame che pure portano un nome greco, eucalipto: giammai gli è capitato di vederne di simili. Sfido! Vengono dall’Australia. E i cipressi, a loro volta, sono persiani, Questo per quanto concerne lo scenario. Ma quante sorprese, ancora, al momento del pasto: il pomodoro, peruviano; la melanzana, indiana; il peperoncino, originario della Guyana; il mais, messicano; il riso dono degli arabi; per non parlare del fagiolo, della patata, del pesco, montanaro cinese divenuto iraniano, o del tabacco”. Tuttavia, questi elementi sono diventati costitutivi del paesaggio mediterraneo: “Una Riviera senza aranci, una Toscana senza cipressi, il cesto di un ambulante senza peperoncini … che cosa può esservi di più inconcepibile, oggi, per noi?” (Lucien Febvre, in “Annales”, XII, 29)». (Braudel, Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni, Milano 1987, pag. 45).
Eppure entrambi -il paesaggio coevo ad Erodoto ed il nostro- sono paesaggi originali, dotati di una loro inconfondibile identità. In entrambi, infatti, trova dimora ed espressione il senso di appartenenza di una comunità al proprio ambiente di vita, inteso come «valore continuamente costruito dalla volontà di chi abita e usa il territorio».
L’identità di un paesaggio non è dunque un prodotto fisso e immutabile, ma è un concetto evolutivo, nella misura in cui esiste un legame biunivoco di continui feedback ed interferenze attive tra comunità insediate e territori. L’identità, allora, risulta essere l’esito -storico e geografico- di un processo di differenziazione di una comunità rispetto alle altre.
Ed è la definizione di paesaggio che restituisce il Codice dei Beni Culturali ed del Paesaggio, che, all’articolo 131, recita: “Il paesaggio è il territorio espressivo di identità”.
L’identità va intesa pertanto come un succedersi ininterrotto di caratteri evolutivi. Questo implica innanzitutto riconoscere il carattere dinamico -per il suo continuo mutare nel tempo- e paradossale –per la capacità di offrirci novità oggettuale e permanenza simbolica- dell’identità del paesaggio urbano.
Questa definizione processuale del paesaggio è perfettamente coerente con la definizione di “identità”, che, facendo riferimento alla matematica, indica “un’equazione che continua ad essere vera qualunque sia il valore dei simboli di cui è composta”. È una definizione che non nega ma anzi implica il continuo cambiamento dei simboli che entrano nell’equazione. Questa condizione di continuo cambiamento avviene comunque in uno stato di coerenza, perché interno ad una equazione che deve continuare a tornare; ovvero perché equilibrato da un sistema di proporzioni.
Il complesso rapporto fra le componenti del paesaggio, è iscritto in un sistema reciproco ed interattivo, nel senso che le azioni rivolte alle componenti oggettive modificano l’intelligibilità e la percezione delle stesse, ma, allo stesso tempo, cambiamenti nell’immaginario simbolico collettivo (magari dettate da mutamenti nelle preferenze sociali a livello globale) incidono sulla qualità del territorio.
I riverberi per la progettazione e modificazione dell’esistente sono particolarmente significativi e fecondi: il progetto nel paesaggio dovrà necessariamente porsi in maniera dialettica con le regole esistenti, preliminarmente individuando e riconoscendo il sistema di invarianti non negoziabili, o “strutturali”, da cui trarre legittimazione.
Al tempo stesso, la capacità di interpretare quello che Christian Norberg-Schulz, con un’espressione tanto efficace quanto abusata, definì il genius loci, non può tradursi in una grottesca operazione di riproposizione mimetica di modelli pre-esistenti (altrimenti non avremmo mai avuto Villa Malaparte a Capri o la Casa sulla Cascata di Wright).
In maniera provocatoria ma al contempo altamente problematica, Bruno Zevi sottolinea che l’idea secondo cui «fare architettura significa visualizzare il genius loci», è una «assurdità tesa a passivizzare il progetto rispetto all’intorno, anziché spingere a crearlo o almeno a rinnovarlo. Se Wright, nell’anodina foresta di Bear Run, si fosse proposto di rispecchiare il genius loci, invece della leggendaria Casa sulla Cascata avrebbe costruito un’immonda baracca». Prosegue pervicacemente Zevi: «In che consiste un “luogo”? Si risponde con disarmante vaghezza: nel suo “carattere”, nella sua “atmosfera”. Sotto sotto, i patiti del genius loci, anche se lo negano, sono deterministi e prescrittivi, vorrebbero imporre forme assonanti all’ambiente (…) Invero, bisognerebbe raccomandare di preoccuparsi del “genio” trascurando il “loci” poiché, se il genio opera, crea i luoghi» (B. Zevi, Controstoria dell’architettura in Italia. Paesaggi e città, Milano 1995, p. 12).[Testo di Alessio D’Auria]

Palme in piazza Duomo a Milano, 15 febbraio 2017 (foto LaPresse – Stefano Porta; fonte: “IlPost.it”)
Per ulteriori approfondimenti, consiglio il seguente saggio:
Alessio D’Auria, “Immagine e identità del paesaggio urbano tra conservazione e trasformazione“, in: Pasquale Rossi (a cura di), “Imago_Urbis. Antico e contemporaneo nel centro storico di Napoli“, Guida editore, Napoli, 2011.
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INTEGRAZIONE del 14 marzo 2017:
Oggi, in occasione della prima Giornata del Paesaggio Italiano, Alessio D’Auria ha pubblicato una ulteriore riflessione sul paesaggio. Ed anche stavolta lo ringrazio per avermi dato la possibilità di conservare le sue parole qui sul “Taccuino”:
PAESAGGIO E POST-VERITA’
(a favore di un approccio soft alle scienze del paesaggio).Oggi si celebra la Prima Giornata Nazionale del Paesaggio, indetta dal MiBACT. Credo che a quasi 17 anni dalla sottoscrizione della Convenzione Europea del Paesaggio (CEP), molti nodi rimangano irrisolti, nel nostro Paese.
Innanzitutto: che cosa è il paesaggio? Per poterlo tutelare/governare/pianificare è necessario intendersi su questo.
Secondo la CEP “landscape is an area, as perceived by people, whose character is the result of the action and interaction of natural and/or human factors”. Quindi, affinchè un paesaggio esista, è necessaria la percezione da parte della popolazione che ha contribuito a crearlo.
Il paesaggio, dunque, non esiste in natura, per dirla crocianamente, ed è sempre un concetto antropologico, che prevede cioè l’interazione con l’uomo (anche solo nel pensarlo e nel viverlo: si pensi ai sacri monti come l’Uluru in Australia, dove di artificiale vi è ben poco, ma che rappresenta un simbolo religioso, spirituale e identitario per gli indigeni).
Eugenio Turri già nel 2003 con la sua efficace immagine del “paesaggio come teatro” ci ricordava che il paesaggio è lo spazio all’interno del quale individui e società recitano le loro storie, si comportano come attori che trasformano l’ambiente di vita e soprattutto come spettatori che colgono, attraverso di esso, il senso del loro operare.
Il paesaggio ha a che vedere con le caratteristiche sociali, produttive, architettoniche, con le modalità di insediamento e di utilizzo delle risorse ambientali; ma contiene -appunto- una dimensione di tipo antropologico, ovvero non è solo un concetto di tipo oggettivo, misurabile attraverso parametri e indicatori, ma ha a che fare anche con la rappresentazione che del territorio danno coloro che lo vivono, con il tipo di immaginario e di aspettative che questo suscita, con le complesse dinamiche di identità e di appartenenza sociale.
Non possiamo, insomma, considerare il paesaggio intessuto solo sulle due grandi trame della geografia “naturale e perenne” (l’aspetto fisiconaturale del paesaggio, cioè l’ecosfera) e della storia in cammino continuo (l’aspetto storico-culturale del paesaggio, cioè la antroposfera), ma è necessario andare oltre considerando una dimensione estetico-semiotica del paesaggio. Se infatti si riconosce un duplice fondamento dell’esperienza paesisitica, occorre anche riconoscere che il “palinsesto di segni” costituito dalla sostanza sensibile del paesaggio non può certamente tradursi in un insieme dato di significati, ma si iscrive in un processo perennemente aperto.
Insomma: la dinamica delle cose (l’ecosfera e la antroposfera) è inseparabile dalla dinamica dei significati (la semiosfera) e quindi dagli stessi processi sociali in cui essa si produce. E allora il paesaggio non può ridursi a quello “cognitivamente perfetto” che le scienze della terra tendono a proporci.
L’interpretazione semiologica del paesaggio risulta certamente scomoda da tradurre nei dispositivi di pianificazione, ma sarebbe senz’altro sbagliato ridurre la questione “paesaggio” alla dimensione oggettivamente descrivibile (e regolamentabile), considerando solo la dimensione ambientale.
Già accettare la complessità di questa sfida sarebbe un buon punto di partenza (ancorché tardivo).
Per approfondire, due ulteriori letture:
- Alessio D’Auria, “La città come sistema autosostenibile: dall’approccio ecologico a quello paesaggistico“, in “ItalianiEuropei”, 2012.
- Alessio D’Auria, “Lasciare libero il paesaggio! (Anche di notte) Valoripaesaggistici e sviluppo locale“, in “Urbanistica DOSSIER”, 2006.