Che le seguiate o meno (ci vuole tempo e costanza, ovviamente), che vi piacciano o meno (ma ne sono talmente tante che qualcuna di vostro gradimento c’è senza dubbio), le serie-tv sono una narrazione importante dell’oggi. La serialità favorisce la fidelizzazione (in certi casi la dipendenza) e la relativa libertà da schemi cinematografici consolidati permette una certa sperimentazione (tanto nel linguaggio, quanto nei temi), al punto che qualcuno ha fatto un parallelo tra questi prodotti narrativi e i romanzi d’appendice, i feuilleton ottocenteschi. Devo dire che in un interessante seminario della prof.ssa Signorelli, alcuni anni fa, cambiai prospettiva sulla serialità televisiva: fece un riferimento alla pluralità di famiglie rappresentate in “Un medico in famiglia” (o “Un posto al sole”, non ricordo con esattezza), per cui gli scienziati sociali avrebbero dovuto vederla “obbligatoriamente”; si trattava – sosteneva la prof.ssa – di una vera e propria “finestra” sulla società italiana, da cui affacciarsi senza preconcetti, bensì con curiosità e spirito etnografico, diciamo così.
Tra le tante disponibili in tv e sul web è difficile fare un elenco o anche solo una classifica, ma le serie-tv statunitensi e britanniche sono di certo le più note (un giorno, però, bisognerà parlare anche dell’ottimo livello di alcune serie-tv francesi, danesi, italiane…). Io ne seguo alcune, sia per evasione, sia per la loro capacità di scavare in aspetti sociali, psicologici, politici, tecnologici.
In queste settimane sta facendo parlare la terza stagione di “Black Mirror” (ho amato le prime due, ma non ho ancora approcciato questa) che è tutta dedicata al futuro possibile, in genere con un ottimo livello di scrittura. Così come di grande successo sono “The walking dead” (dove gli zombie sembrano una chiara allegoria al presente, sempre più conflittuale; ma a proposito di francesi, guardate la prima stagione di “Les revenants“) e particolarmente acclamate dalla critica sono le più recenti “The get down” e “Atlanta” sulla nascita del rap (e sulla condizione razziale negli USA).
Stamattina vorrei segnalarvi le puntate della settimana scorsa di due serie-tv meno conosciute, ma che hanno dei soggetti piuttosto interessanti e, soprattutto, che fanno riferimento al presente, ciascuna nel proprio stile. Appartengono a generi molto diversi: la prima è una sit-com di 20′ che vedo saltuariamente, non presentando un filo conduttore specifico, mentre la seconda è un autentico drama di 50′ dove la storia del protagonista e dei suoi familiari evolve come in un romanzo in cui non si può saltare alcun capitolo. Si tratta di “Fresh off the boat” e di “Rectify“.
“Fresh off the boat” è ambientata negli anni Novanta e racconta le vicende di una famiglia originaria di Taiwan che da Washington si trasferisce in Florida per aprire una steak-house (locale eminentemente americano): è il racconto, in altre parole, di una minoranza della minoranza che deve far fronte agli stereotipi (da contrastare, ma talvolta da usare) e all’equilibrio identitario (tra il “sogno americano” e l’appartenenza cinese). L’ultimo episodio, “Citizen Jessica”, è ambientato durante le elezioni presidenziali del 1996 che videro contrapposti Bill Clinton e Bob Dole. I riferimenti all’immigrazione, ai muri sui confini, all’integrazione, alle tasse e così via sono numerosi e il rimando all’attualità del 2016 è fortissimo (il promo è qui, mentre un estratto è qui).
“Rectify“, invece, racconta la vita di Daniel Holden, rilasciato di prigione dopo 19 anni nel braccio della morte: era stato condannato per un omicidio, ma ci sono dubbi sulla sua colpevolezza. Tra vicende giuridiche e turbamenti psichici (e sociali, perché tutto il suo ambiente familiare è davastato da quell’evento), Daniel riesce a trovare un lavoro e la prima puntata della quarta stagione (che sarà anche quella finale, come è stato annunciato) affronta questa sua nuova situazione. L’episodio ha un monologo di enorme pathos: Daniel si sente vuoto, anzi evaporato, dopo 19 anni di isolamento in una stanza di pochi metri, è come se fosse morto, ma allora non riesce a spiegarsi il perché di quella profondissima solitudine che lo sta schiacciando (il brano è qui). “Rectify”, così come anche “Orange is the new black“, sono serie-tv dedicate alla detenzione che presentano una forte impronta politica, a dimostrazione che la condizione carceraria negli USA è oggetto di riflessione, sebbene ancora per una parte minoritaria di quella società.
Io sono tra coloro che ritengono le carceri da abolire e se ieri [6 novembre] fossi stato a Roma avrei partecipato alla marcia dei Radicali per l’amnistia e al Giubileo dei carcerati in Vaticano.
Per concludere, segnalo un’ulteriore coincidenza: sempre ieri l’ex-magistrato Gherardo Colombo ha rilasciato un’intervista all’Huffington Post che si chiude con questo scambio:
Perché si è dimesso dalla magistratura?
“Non sopportavo più l’idea di dover mandare in galera delle persone. E quando ho lasciato il posto, mi sono sentito sollevato”.
Cosa la disturbava del carcere?
“Credo che chi è pericoloso debba stare lontano dalle persone a cui può fare male. Ma in quel luogo devono essergli garantiti tutti i diritti che non confliggono con la salvaguardia della comunità: cioè, la libertà individuale, lo spazio vitale, la possibilità di coltivare gli affetti e curare la propria igiene. Garanzie che in Italia non sono assicurate”.
Si spingerebbe sino ad abolire il carcere?
“Sì”.
È una posizione molto impopolare.
“È la mia posizione”.