Probabilmente in futuro quest’epoca sarà ricordata come quella delle grandi migrazioni, dei grandi spostamenti umani attraverso deserti e mari per fuggire all’orrore, comunque si manifesti, in cerca di speranza.
Ho molti amici che si occupano di migranti: dal momento dell’accoglienza a quello delle pratiche burocratiche, dal sostentamento nei campi sui confini alla cura dei minori non accompagnati, dalla ricerca di lavoro all’inserimento in società, dalla raccolta delle loro storie al racconto delle loro memorie. Ascoltare quelle voci è parte fondamentale del processo con cui tutti siamo chiamati a costruire una convivenza duratura e, possibilmente, virtuosa.
Le frontiere esterne ed interne dell’Europa producono ancora tanto dolore e troppe ingiustizie, ma sono convinto che ad un livello più profondo qualcosa stia cambiando, se le storie dei migranti cominciano ad essere rappresentate al cinema e al teatro, specie quando il loro vissuto s’intreccia con le biografie dei narratori.
Due anni fa il film-documentario “Io sto con la sposa” arrivò alla Mostra del cinema di Venezia e poi, da lì, in tutto il mondo. (Ora Gabriele Del Grande continua a cercare storie da raccontare e il suo prossimo progetto è decisamente importante; lo si può finanziare ancora per una settimana).
Un anno fa a Nizza ho assistito al toccante monologo “Lampedusa Beach“, scritto nel 2003 da Lina Prosa, recitato da Romane Bohringer e messo in scena da Irina Brook. (Lo spettacolo è stato riproposto anche nel nuovo tabellone del Théâtre National de Nice, in programma il 14 gennaio 2017).
Alcuni giorni fa il mio amico Raffaele Calvanese ha pubblicato un racconto in cui è difficile separare gli aspetti biografici da quelli immaginati, la storia dalla cronaca, l’illusione dal desiderio. “L’abbandono” è un testo che parte in Burundi nel 2005 e arriva a Napoli, oggi, alimentandosi di radio e canzoni, di sussurri e urla, di testimonianze ed empatia. E’ una narrazione che nasce dall’incontro e dall’ascolto, favorendo un intreccio di fili esistenziali che riportano me e tanti amici ad esperienze di vita che hanno contribuito a renderci quel che siamo oggi.
“Di notte avevo paura, perché faceva freddo, un freddo dannato. Di giorno avevo paura lo stesso, perché faceva caldo e non arrivavamo mai. Alcuni compagni di viaggio non sono riusciti a vedere la Libia, sono rimasti lì nel deserto. Bevevamo la nostra urina e pregavamo, ognuno pregava ciò che voleva, ognuno sperava in ciò che poteva”.