Il 13 maggio 2015, profittando di un viaggio all’estero del presidente Nkurunziza, in Burundi alcune frange dell’esercito tentarono un golpe. Come di consueto, furono occupate la radio-televisione nazionale e altre emittenti, le quali – contrariamente a quanto diamo per scontato – furono riaperte dopo settimane di censura governativa. Per le strade di Bujumbura si riversarono migliaia di persone, con espressioni di giubilo come non se ne vedevano da tempo. In poche ore, tuttavia, l’altra parte dell’esercito e l’intera polizia – fedeli al presidente in carica – incarcerarono i golpisti e ristabilirono il regime: le radio furono chiuse nuovamente e vi fu un’ondata di arresti, cui seguirono innumerevoli casi di tortura, tuttora sotto osservazione dell’ONU. In un paio di giorni il presidente diede sue notizie via Twitter e rientrò nel Paese attraverso la frontiera con la Tanzania, mostrandosi in pubblico a Ngozi, sua città di origine e sua roccaforte.
Per ulteriori dettagli, potete leggere un mio post in cui raccolsi numerose informazioni: qui.
Meno di un mese fa, il 15 luglio 2016, in Turchia è accaduto qualcosa di simile: un golpe contro Erdogan, fallito in poche ore, il ché ha causato una risposta brutale da parte del regime, con 15mila professori privati del loro lavoro, centinaia di magistrati rimossi, decine di organi di stampa chiusi. In queste settimane ho sentito più volte delle ironie dal comodo dei nostri divani: “auto-golpe”, “finto golpe”, “golpisti incapaci” e così via. Io non so come sia andata, non so nemmeno quali intenzioni avessero realmente i putchisti, tuttavia so che in Burundi, un anno fa, i ribelli si arresero facilmente per evitare un bagno di sangue e so che la sollevazione del presidente Nkurunziza – da un punto di vista sostanziale – sarebbe stato un fatto maggiormente rispettoso della Costituzione locale rispetto alla sua terza rielezione, due mesi dopo.
Allora per il Burundi e oggi per la Turchia, tutto il mondo ha condannato il colpo di stato perché le democrazie hanno delle regole formali che ne determinano l’essenza, nonché stabiliscono i loro rapporti in base ad una certa dose di diplomazia (qualcuno può chiamarla anche ipocrisia, naturalmente, ma spesso salva da violenze maggiori) che non permettono di esultare in caso di rimozione militare di un despota. Tuttavia, ciascuno sa (per primi Nkurunziza ed Erdogan) che l’Europa, l’America e il resto del mondo non vedono l’ora che cadano.
Quel che non ho letto in queste settimane – ma che invece fu scritto un anno fa per il Burundi – è che la metà dei colpi di stato fallisce, come spiegò Robin Verner su “Slate.fr“, e che talvolta i golpe possono essere “buoni”, come argomentò Alexander Noyes sul “Washington Post“.
Insomma, ancora una volta, prestare maggior attenzione all’Africa sarebbe di grande aiuto per tutti.
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AGGIORNAMENTO del 20 ottobre 2016:
Appunto qui il link ad una foto terribile che può turbare molto; mostra una violenza raccapricciante e svela come si muore in Burundi nel 2016: QUI (o qui e qui). La didascalia dice che l’uomo si chiamava Kibinda, ucciso a colpi di machete nella zona di Magara, nel comune di Bugarama, provincia di Rumonge.