Stasera, in centro a Nizza, gli ultimi minuti della finale sono stati in apnea.
Migliaia di persone con i pugni chiusi e lo sguardo incollato ai tre maxischermi, sudate di tensione e calura, hanno rilasciato i nervi solo al fischio di chiusura dell’arbitro, quando è esplosa la gioia di un gruppetto di portoghesi immersi in un mare di risentimento e invidia.
Quel mare, però, si è diradato velocemente: a passo svelto e in silenzio, ciascuno ha preso la propria direzione, con il blu-bianco-rosso scolorito sulle guance e con la bandiera indossata a mo’ di mantello di Superman. Qualcuno in un bar grida ancora una volta “Alé les Blues”, ma nessuno lo segue.
Intanto i festeggianti si sono spostati di alcuni metri, al centro della piazza principale, così mi avvicino e vedo una decina di ragazzi che saltano e si abbracciano. Scandiscono “Por-tu-gal, Por-tu-gal!”, ma soprattutto sventolano tre bandiere: una del Portogallo, una del Brasile, una dell’Angola.
Sorrido per la loro felicità, ma soprattutto perché mi accorgo che le vere vittorie stanno nella rottura degli schemi.
Torno a casa, comincia qualche carosello di auto.