Negli ultimi giorni in Rwanda ci sono state delle piogge torrenziali che hanno causato numerose frane e colate di fango, provocando la morte di 49 persone, di cui molti bambini. Nel solo distretto di Gakenke, nel nord del Paese, una frana ha ucciso 34 persone nella notte tra sabato e domenica (7-8 maggio 2016).
Il Rwanda è noto anche come il “Paese dalle mille colline”, per cui è esposto a questo tipo di rischi che, tuttavia, quest’anno si sono moltiplicati: tra gennaio e aprile sono morte 67 persone per disastri simili, alcuni dicono per gli effetti di El Niño.
Intanto, nei Paesi limitrofi ci sono altri problemi, ugualmente gravi.
Secondo una radio congolese, nel Nord Kivu negli ultimi due anni sarebbero state uccise più di 1000 persone per mano di presunti ribelli, per cui degli attivisti locali chiedono al governo di Kinshasa di mettere fine alla violenza nella regione e, alla Comunità Internazionale (e alle forze ONU della missione Monusco), di fare delle inchieste sui crimini commessi nel territorio.
In Burundi, invece, proseguono arresti e torture, ma anche l’ormai insostenibile crisi economica: nelle stazioni di rifornimento c’è poca benzina e il prezzo di quella che resta è salito alle stelle. Naturalmente, il governo nega sia le prime accuse, sia le seconde.
In occasione del primo anniversario delle rivolte burundesi contro il regime di Nkurunziza, infine, vari giornali internazionali hanno scritto degli articoli interessanti. Ne segnalo due: “The Economist“, che definisce il Burundi una “bomba ad orologeria”, e “The New Yorker“, che propone un lungo ed esaustivo reportage di James Verini sull’inferno in cui è precipitato il piccolo Paese africano.
La foto è dell’UNHCR. (Questo testo è apparso originariamente sul mio Fb)