La Punta della Campanella è la finis terrae della Penisola Sorrentina, un luogo speciale in cui le nostre vite – nostre degli abitanti della cosiddetta Contrada delle Sirene – si concentrano in una vertigine. Quando mi trovo sull’estremità della mia Penisola, vado sempre ad affacciarmi dalla falesia: sento l’ebbrezza di volare e guardo i gabbiani con meno invidia, saluto le barche e faccio il tifo per quelle a vela contro i motoscafi. Quando vado su quell’ultimo lembo di terra sorrentina, nella mia mente risuona la voce di Giovanni Lindo Ferretti: «La libertà è una forma di disciplina». Già, lì i capogiri diventano una brezza dell’anima e sento di trovarmi non alla fine di qualcosa, bensì sulla soglia in cui comincia qualcos’altro: una nuova dimensione, che non è solo geografica, ma anche introspettiva e, forse, storica. Posso guardare mille percorsi e immaginare mille altrove, posso seguire mille raggi e ruzzolare in mille epoche, posso incontrare mille sguardi e ritrovarmi in mille me stesso.
Al Promontorium Minervae ci si affaccia sull’utopia, sulle infinite possibilità suggerite da quell’orizzonte di mare, su un tempo che rallenta mentre il battito cardiaco accelera, su una luce che divampa mentre il respiro diventa un atto consapevole, sul profumo degli asfodeli che diventa graffiante come le ondate di salsedine. Chiudendo gli occhi, alla Punta della Campanella si possono sentire dei rintocchi di campana provenienti dagli abissi, mentre gli insetti ronzano e i cespugli di olivi inselvatichiti fremono col vento: può darsi che sia opera di Atena o Minerva, di sant’Antonino o san Costanzo, oppure di un marinaio trasformato in pesce.
In questo luogo si concentrano intensità diverse, vibrazioni antiche, forze molteplici. Potete credere che c’entri una qualche divinità o una forma di energia cosmica, ma la realtà è differente: lì vi è la manifestazione di una potenza particolare, quella rappresentata da un atto completamente umano, ovvero il dare senso al mondo, il riempire di significato ciò che ci circonda. Quel luogo è tale per la parola con cui è stato pronunciato, per il nome che è stato dato alla sua natura, per l’intreccio di storia e fantasia inscritto su quelle rocce, per il reticolo di pensiero e sudore che ha modellato quella polena del continente europeo.
Quando, mesi fa, ho saputo dei lavori al sentiero che conduce alla mia (alla nostra) finis terrae, mi sono preoccupato immediatamente. Le ragioni erano tante: innanzitutto l’esperienza di decine di progetti e cantieri precedenti, tutti invasivi verso l’ecosistema, tutti incoerenti con la storia, tutti sospetti di interessi di parte, tutti anacronistici rispetto al principio di sostenibilità; poi la coscienza della straordinarietà di quel luogo, così denso di valore e di biografie, di pluralità e di sorprese; infine la consapevolezza che occuparsi oggi di paesaggio è quasi sempre una lotta di retroguardia, come puntualmente anche stavolta è accaduto. Quando ho saputo del cantiere, mi ci sono recato appena possibile, notando subito le evidenti incongruenze tra un budget di milioni di euro e la fragilità di un luogo che andrebbe attraversato in punta di piedi; ho scattato fotografie alla colata di cemento e alla rigida uniformità di una nuova lunga parete in calcestruzzo, ho girato un filmato ai tubi per l’energia elettrica che spuntano dal nuovo selciato e alle pietre divelte con una ruspa, ho letto le finalità dei lavori («abbattimento delle barriere architettoniche») e ho visto un futuro oscuro.
Nel corso di questi ultimi mesi si sono mobilitati tanti amici: il botanico che ha allarmato sul pericolo corso da felci e orchidee selvatiche e il naturalista che ha denunciato la distruzione delle tane dei piccoli animali, l’architetto che ha evidenziato la differenza tra restauro conservativo e restauro integrativo e lo storico che ha commentato la scelta dei materiali impiegati, l’avvocato che ha sottolineato l’incoerenza con le leggi vigenti e che ha individuato alcuni vizi procedurali e l’attivista che ha avvertito parlamentari e giornalisti riuscendo a portare la notizia sui media nazionali, lo studioso che ha urlato contro il silenzio di alcune associazioni locali e contro la cecità della sovrintendenza archeologica e il pittore che s’è preoccupato della bellezza e dell’estetica perché paesaggio vuol dire anche arte. E poi ci sono io che ho ripetuto più volte che cambiare la fruibilità di un luogo significa trasformarlo irreversibilmente perché se ne mutano per sempre due elementi prettamente antropologici: la sua funzione di “diario” intergenerazionale e la percezione che di esso ne hanno i suoi abitanti e frequentatori. Il paesaggio è un medium, un mezzo di comunicazione che permette uno scambio tra umani e non umani, tra cultura e natura, tra noi e gli altri, tra ieri, oggi e domani. Questo non significa che debba essere imbalsamato, perché un luogo è ciò che vogliamo che sia (il paesaggio è un farsi), eppure – specialmente oggi che siamo alla saturazione e disponiamo di mezzi altamente impattanti – andrebbe modellato rispettandone la stratificazione che l’ha reso tale nel corso del tempo, specie se fa parte di aree rurali ai margini delle metropoli: se, ad esempio, un luogo è sempre stato pedonale, facilitarne il raggiungimento motorizzato significa cancellare l’esperienza della distanza, della lentezza, della “lontananza”. Ebbene, che conseguenze simboliche e concrete può avere tale modifica? Se una torre plurisecolare ha sempre svolto una funzione di guardia, può oggi diventare uno spazio per eventi? Se un territorio è sempre stato buio e privo di interferenze acustiche, può oggi ricevere lampioni e motori senza risultarne stravolto? Se uno spazio appartato è stato per millenni accessibile solo con fatica e volontà, può oggi bastare l’apposizione di un cancello e di un lucchetto per proteggerne e rispettarne il genius loci?
La Punta della Campanella non è una meta, ma è il percorso che bisogna effettuare per arrivarci. A sua volta, quel sentiero è più di uno spazio fisico, perché è il tempo necessario per raggiungere un altrove. Averne intaccato l’equilibrio è, dunque, un attentato all’immaginazione, alla scoperta, alla sorpresa, all’immedesimazione. Si poteva conservare la sua «povera lietezza» e difenderla dalla cupidigia, invece si è deciso di alterarla ed esporla ai pirati e ai corsari.

Io sul sentiero di Punta della Campanella, in una fotografia di FSG, 18 maggio 2014.
«Ognuno ha – aveva – un suo luogo, un paesaggio che si porta dentro come un’immagine impressa in una memoria più profonda di quella dei ricordi. E lì, in questo luogo, quando ha bisogno di una tregua sogna di tornare» [Raffaele La Capria, “Ultimi viaggi nell’Italia perduta”, 1999]
«I luoghi conservano per anni un qualcosa della vita che vi si è svolta, un’eco delle voci che gli hanno conferito musicalità, un’ombra sfuggente dell’essere umano che vi aveva trovato la felicità o il dolore» [Francis Marion Crawford, “The Century”, 1894]
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AGGIORNAMENTO del 1° febbraio 2016:
Oggi il webjournal “Positano News” ha pubblicato questo mio post tra le sue pagine.
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AGGIORNAMENTO del 2 febbraio 2016:
Questo post è stato rilanciato anche da “TeleStreetArcobaleno”.
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AGGIORNAMENTO del 5 febbraio 2016:
Questo post ha avuto un’eco che non mi aspettavo e sono profondamente grato a tutti coloro che lo hanno condiviso e commentato. Tra i tanti, permettetemi un ringraziamento particolare ad Antonino De Angelis, che ha scritto le seguenti parole sul suo fb:
MEGLIO NON SI POTEVA DIRE.
Ho contrastato anch’io quel progetto e quella realizzazione, che viene proseguita a Punta Campanella. I tuoi rilievi, assai pertinenti e incisivi, sono stati anche i miei e delle varie associazioni territoriali. Rilievi e domande estese anche alle varie istituzioni che, così come le associazioni, perseguono (?) gli stessi obbiettivi, cioè la tutela del territorio, con una differenza sostanziale: se per le associazioni si tratta di un’attività culturale alimentata e sospinta dall’amore verso il territorio e la sua storia, quindi spontanea e volontaristica, per esse, cioè per le istituzioni, è un obbligo di legge. Ebbene, malgrado che le nostre segnalazioni abbiano prodotto sopralluoghi, controlli e riesami, con relazioni istituzionali da parte dei soprintendenti (e ministeri) interessati, nessuno delle Loro Signorie ha sentito il dovere, e neppure la cortesia, di dare una benché minima risposta di condivisione e neppure di critica, mostrando un disprezzo inspiegabile verso coloro che da anni si impegnano (spesso ad adiuvantum) nella stessa direzione. Un progetto redatto in maniera ambigua pregna di ipocrisia che ha anteposto i diversamente abili quali SCUDI UMANI per un’operazione ottusamente incolta e distruttiva. Distruttiva sia fisicamente che verso quei valori di cui tu Giogg hai così chiaramente evidenziato. Mi rendo conto che il tuo intervento, così come qualcuno dei miei, costituisce per molti “lingua incomprensibile”, tuttavia la speranza mi induce a credere che prima o poi riusciremo a comprenderci. Purché non sia troppo tardi
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INTEGRAZIONE:
In conclusione del suo articolo “Punta della Campanella: tra mito, leggenda e realtà“, pubblicato sulla rivista “Corso Italia News” (anno 1, n. 5, 27 febbraio 2016), l’archeologo Mario Russo ha fatto un riferimento a questo mio post:
….non ho parole da aggiungere a tanto sconforto e “tradito” sentimento.
luciano
mi piange il cuore e anche gli occhi un luogo cosi incantato che ogni volta mi dava un emozione diversa non solo a me ma anche ai miei amici si debba distruggere cosi e tutto questo in nome del dio denaro
Salve.. ho letto con amarezza la testimonianza. Anche a me negli anni il sentiero della Punta Campanella ha regalato momenti e scorci splendidi.
Attualmente il sentiero è riaperto? E soprattutto.. è davvero persa la magia del percorso? Conto di andarci presto per dare un’occhiata, e perchè mi manca.
Attualmente l’accesso è chiuso per la presenza di un cantiere. Non so quando riaprirà e non so se sarà quello di sempre.
La ringrazio!
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Il webjournal “Sorrento Post” ha ricevuto e pubblicato una lettera a favore di Punta della Campanella (11 febbraio 2016): QUI
A PROPOSITO DI PUNTA DELLA CAMPANELLA
di Luciana Siddivò
Dopo tanto avere sentito parlare della nuova strada di Punta della Campanella ho deciso di andare a vedere, le opinioni e le ragioni sono diverse.
Non scendo al faro da tanto tempo, ma, nei miei ormai sessanta anni di frequentazione della costiera, ci sono andata tante volte, a ogni età, forse ad ogni ora, sempre sentendo il fascino unico e irripetibile di quel luogo come un privilegio di noi, all’inizio pochi,che amavamo quella natura estrema.
Da anni è meta di camminatori che hanno scoperto l’emozione di quella lingua di terra protesa nel mare, da anni quelli che hanno scelto di abitare le sue solitudini sono aumentati, trent’anni fa mi ricordo solo della torre e di piccole costruzioni per i cacciatori o depositi per i contadini. Molti di quelli sono diventate case.
Però vorrei fare delle osservazioni, sentire le ragioni di chi lancia “il grido di allarme” e di chi invece sostiene l’intervento.
Sono andata a piedi a fare la ‘più bella passeggiata del mondo’. Forse è così a portata di mano per noi che a volte ne dimentichiamo l’unicità. Il punto è che sono andata a vedere e ho pensato che l’intervento in corso è un bell’intervento dove si vedono la cura e l’attenzione alla scelta delle pietre, ho visto la ‘ratio’ amministrativa del progetto di urbanizzazione di una parte oramai sufficientemente abitata da richiedere i normali servizi ai cittadini come acqua, luce, recupero della spazzatura, possibilità di soccorsi, di trasportare un disabile o un carico per la campagna. Ho visto un intervento che mi ha fatto pensare all’attenzione e al rispetto per la bellezza del luogo. Diciamo che anche questo non è scontato dalle nostre parti. Ma la bellezza ha tante facce.
Quello che si è realizzato nel tratto costruito fino ad oggi è un bell’intervento nella logica dell’antropizzazione del territorio. In fondo bisogna sapere leggere la realtà e non dire sempre di no. E io voglio anche dire bene di quanto fatto fin’ora. Però esiste una bellezza che è quella di una natura che ancora parla la sua lingua, che ancora comunica emozioni, che da secoli – come a Punta Campanella – insegna a chi la raggiunge il rispetto profondo per i limiti dell’uomo e per l’immensità della natura che mostra la sua essenza divina (come mai quella baia dietro la punta si chiama Ieranto? Etimologicamente divino?).
Quell’immenso di Ungaretti che illumina l’anima di chi lo scopre, di cui c’è bisogno oggi molto più di prima e che è una bellezza che va difesa e tutelata.
Quella bellezza che cercano le persona che vogliono arrivare a Punta Campanella.
Per questo a Punta Campanella non dovranno arrivare mai la luce e le macchine, non dovrà mai essere dato un permesso per un bar o quant’altro, non dovrà mai essere costruito uno stabilimento balneare. Punta Campanella è un’altra cosa!
Io penso che ora il progetto dovrebbe fermarsi, finire i muretti di sicurezza, lasciare le fontanine per chi cammina, ma fermarsi. Non rischiare di distruggere un ecosistema unico al mondo.
Penso addirittura che i cittadini dovrebbero ribellarsi loro per primi a un eventuale progetto che punti alla strada fino al faro, che – in vista di obiettivi a breve termine ed effimeri come tanti miti dello sviluppo – rischia di rovinare per sempre un luogo che anzi dovrebbe rientrare tra i luoghi tutelati come patrimonio dell’umanità.
Chi va a Punta Campanella non vuole la strada, vuole le emozioni che solo quella lingua di terra protesa su Capri può donare nel suo silenzio e tra le sue pietre battute dal vento. Ci pensi chi si sta prendendo la responsabilità di qualcosa che ne modificherà per forza la natura e la bellezza.
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Se mettono le loro sporche mani anche in questo luogo che emana sacralità è la fine di tutto. Mio padre è nato a Massalubrense e poi i miei nonni si sono trasferiti a Termini: da piccola ho respirato quell’aria piena di profumi, ho ascoltato i suoni e il silenzio, ho guardato il mare….Mio padre non c’è più da tre anni ma son convinta che è ritornato in questi posti che tanto amava. Vi prego, facciamo qualcosa. Donatella Evangelista. Levico Terme (TN)
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