Ieri mattina in Indonesia una serie di esplosioni hanno seminato morte: 7 vittime.
L’altro ieri mattina c’era stato un attentato in Pakistan, dove un terrorista suicida si era fatto esplodere in mezzo ad una fila per le vaccinazioni anti-polio: almeno 15 morti.
Sempre l’altro ieri, nell’Afghanistan orientale, un altro sconsiderato aveva causato la morte di almeno 4 persone.
E, ancora, dopo poche ore un kamikaze aveva ucciso almeno 10 fedeli in una moschea in Camerun.
Il giorno prima, un jihadista si era fatto saltare in aria tra i turisti in Turchia, uccidendone 10, mentre in Iraq venivano lanciate bombe contro un caffè, causando 14 vittime.
La settimana scorsa un camion-bomba era stato lanciato contro una scuola di polizia in Libia, provocando 74 morti, e il giorno di capodanno in Israele un altro invasato aveva sparato in un pub, uccidendo 2 persone.
Ora, personalmente non ho problemi a dire “Je suis Charlie” e “Je suis Paris”, la ritengo una forma contemporanea di empatia col dolore (come dite? è uno slogan scialbo? è facile? è autoconsolatorio? è uniformante? si, so bene che è tutto ciò e pure altro, ma – e questa è una mia considerazione molto personale – credo che in fondo in fondo le sue ripercussioni positive siano comunque preminenti). Inoltre, non sono uno di quelli per cui bisogna necessariamente piangere allo stesso modo tutte le vittime di qualche orrore, capisco che si possa sentire maggior coinvolgimento con alcuni fatti, piuttosto che altri: gli esseri umani sono (sarebbero) tutti uguali, eppure per quelli più prossimi sentiamo maggior partecipazione. Dovrebbe essere diverso, ma.
Ebbene, stando tutti questi aspetti ideali e/o pragmatici, che ne dite, cari amici, se questa empatia con l’Altro, specie se “lontano” e “diverso”, proviamo anche ad aumentarla, ad educarla, a costruirla? Insomma, abbiamo il web, la tanto celebrata rete globale, allora non dico che noi si debba tutti cambiare la foto del profilo su fb o riempire twitter di #JeSuisQualcosa (Jakarta, Quetta, Nangarhar, Douala, Istanbul, Muqdadiyah, Zliten, Tel Aviv… Colonia…), ma, insomma, che ne dite di giusto un po’ più di attenzione a quel che accade oltre Quarto?
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L’ “affaire Quarto” è importante, eh, rappresenta molto di più di una disputa locale, ma qui mi serviva solo per concludere lo sproloquio; spero di aver reso l’idea.
Grazie e scusate.
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Integrazione al post originale su fb:
Quando esorto a prestare maggior attenzione alle vittime, ovunque esse siano, dunque ad alimentare l’empatia con chi soffre, chiunque esso sia, intendo che dobbiamo avere tutti la consapevolezza che l’orrore di un attentato non dura l’attimo di una detonazione, ma ha una scia lunga, che talvolta dura per il resto della vita di chi ne è stato coinvolto direttamente. A due mesi dagli attentati di Parigi, ad esempio, 51 persone sono ancora in ospedale, di cui 3 in rianimazione. Probabilmente non sapremo mai quante sono le vittime (nel tempo) degli altri attentati citati qui sopra.
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INTEGRAZIONE:
“Je suis Charlie”, storia e anatomia di un simbolo: di Jean-Laurent Cassely, su “Slate.fr”:

La diffusione di #JeSuisCharlie su Twitter il 7 gennaio 2015: clicca sull’immagine per accedere alla mappa.
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AGGIORNAMENTO del 17 gennaio 2015:
- Siria, strage dell’Is a Deir Ezzor. Civili uccisi, rapimenti di massa. 300 morti nella città controllata dai governativi. Fra le vittime “maggioranza di donne, bambini e anziani”.
- Afghanistan, attacco suicida a Est: almeno 13 morti. Un kamikaze si è fatto esplodere vicino alla casa di un politico uccidendo molti suoi ospiti.
- Burkina Faso, 12 ore di assalto a hotel. Al Qaeda: “Vendetta contro la Francia”. 27 morti, almeno due francesi. Liberi 150 ostaggi. “Attacco mirato a una giovane democrazia“, scrive Cécile Kyenge. Farnesina: bimbo italiano tra le vittime, si chiamava Michel ed era il figlio di 9 anni del padrone del bar.