Un anno fa, accanto ai «Je suis Charlie» emersero quasi contemporaneamente – sul web più che su qualsiasi altro media – coloro che dichiaravano di «non essere Charlie», i «Je ne suis pas Charlie».
Romain Badouard, ricercatore in scienze della comunicazione presso l’Università di Cergy-Pontoise, ha pubblicato uno studio su questa specifica categoria, più composita di quanto si possa immaginare. Sono stati individuati, infatti, almeno tre sotto-gruppi di «Je ne suis pas Charlie» (o di «Pas Charlie»):
- il primo riguarda coloro che criticano l’unità nazionale e le possibili derive securitarie che potrebbero essere favorite dall’emozione (sono i «Je suis Charlie, però…», che talvolta muovono critiche ispirate all’antirazzismo);
- il secondo gruppo è formato da varie reazioni “conservatrici”, come quelle dei cattolici tradizionalisti e dei movimenti d’estrema destra, i quali avanzano soprattutto giudizi di tipo ideologico;
- il terzo insieme, infine, è costituito da membri della comunità musulmana che criticano “Charlie Hebdo” perché alimenterebbe l’islamofobia.
Per tanti, un anno fa «essere Charlie» significava stare dalla parte della libertà di espressione, rifiutare la violenza come mezzo di risoluzione dei conflitti e, non da ultimo, manifestare una forma di cordoglio contemporaneo, per cui, come si può intuire, l’opposizione tra i «Je suis Charlie» e i «Je ne suis pas Charlie» è artificiosa: come osserva Badouard, essa svela più un’incomprensione di fondo sul senso dello slogan che, piuttosto, una polarizzazione del dibattito pubblico su posizioni antagoniste.
Naturalmente, lo studio è più articolato e se volete approfondirlo, lo trovate in francese su “Academia”, col titolo «“Je ne suis pas Charlie”. Pluralité des prises de parole sur le web et les réseaux sociaux» (in Lefébure P. & Sécail C. (dir.), “Le défi Charlie. Les médias à l’épreuve des attentats“, Lemieux Editeur, collection Mundo médias, 2016).
Su questo argomenti ha scritto anche “Slate.fr” il 7 gennaio 2015: qui.
Io ne ho scritto sul mio fb.