Nell’estate del 1884 a Napoli scoppiò il colera, proveniente dalla Francia e, prima ancora, dall’Indocina. Il morbo fu così devastante che l’allora Presidente del Consiglio Agostino De Pretis pronunciò la celebre frase: «Bisogna sventrare Napoli!», ispirata al titolo del libro “Il Ventre di Napoli” di Matilde Serao.
In questo articolo, Antonio Pascale racconta le terribili condizioni sociali e urbane in cui allora versava la città, nonché il successivo fallimento del colossale progetto di risanamento, gestito da una società privata di banchieri, libera da qualsiasi supervisione pubblica (questa parte è efficacemente riassunta in dieci punti). Il testo si conclude con una doppia comparazione: nello spazio (con Parigi e Londra, anch’esse “sventrate” alcuni decenni prima, ma con modalità e risultati profondamente diversi) e nel tempo (con l’emergenza rifiuti degli ultimi vent’anni e la realizzazione dell’inceneritore di Acerra).
Morale: i disastri sono sempre preparati e, soprattutto, durano nel tempo, talvolta per decenni o forse più.
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Cito un estratto dall’articolo di Antonio Pasquale, quello dei dieci punti che spiegano il fallimento del Risanamento di Napoli:
“[…] Fu un fallimento. Lorenzo Pinna in un capitolo del suo autoritratto nell’immondizia, scrive un paragrafo illuminante: dieci istantanee per un disastro – che qui riporto – riassumendo così alcune pagine della dimenticata relazione della Regia Commissione d’inchiesta per Napoli, istituita l’8 novembre 1900 e presieduta da Giuseppe Saredo, e che tra l’altro venne venne istituita nella certezza che non avrebbe concluso molto. Invece, la straordinaria efficienza e l’indipendenza della Commissione misero in imbarazzo, a sentire Nitti, in primo luogo, lo stesso governo.
Dunque:
1) Mancavano progetti precisi e studi dettagliati, soprattutto per quel che riguardava le case da espropriare e gli abitanti della città bassa da ricollocare in nuove abitazioni da costruire.
2) La totale responsabilità delle grandi opere per la bonifica di Napoli era stata affidata, in concessione, a una sola impresa privata, la Società Anonima per il Risanamento di Napoli (fondata da quattro banchieri settentrionali). Il comune di Napoli, nonostante le precise disposizioni della legge del 1885 sul risanamento, abdicò completamente al ruolo direttivo.
3) La commissione tecnica della Società Anonima per il Risanamento, cioè l’organo che dirigeva tutti i lavori era composta quasi completamente da persone esperte di finanza, ma non di ingegneria. Uno soltanto era ingegnere (ferroviario).
4) La Società Anonima per il Risanamento violava sistematicamente gli impegni contrattuali, elevando a quattro piani edifici previsti di tre, restringendo la larghezza delle strade, eliminando le aree verdi, non sincronizzando l’abbattimento dei vecchi edifici con la costruzione di quelli nuovi, nelle aree di «ampliamento». Il tutto in una logica bancaria e predatoria lontanissima da quella industriale delle spese produttive alla Haussmann.
5) Il comune dava prova di negligenza, «distrazione» e omissioni nel controllare che i lavori della Società Anonima procedessero secondo i progetti e i capitolati concordati. Gli ispettori non si accorsero mai delle violazioni.
6) Dopo appena 4 anni (il contratto era di 12), la Società Anonima dichiarò di essere sull’orlo della bancarotta e minacciò il comune di Napoli di interrompere i lavori lasciando la città sconvolta dai cantieri aperti e fermi. Ottenne, per riprendere i lavori, di stralciare 30 interventi di bonifica – quelli commercialmente meno interessanti – e così rimase in piedi il 50 per cento circa degli slum della città bassa. Nonostante gli stralci ne avessero ridotto gli impegni, la Società per il Risanamento riuscì a farsi rifinanziare per altre due volte.
7) La Società pagava pochissimo le ditte subappaltatrici e queste, per avere un margine di guadagno, costringevano i lavoratori a ritmi impossibili, con salari da fame, usando materiali scadenti e tecniche non adatte.
8) L’ingegnere-capo della commissione tecnica della Società, Martinoli, mise in piedi una fiorente impresa di mattoni, da cui, come è facile immaginare, dovevano rifornirsi le ditte subappaltatrici se volevano continuare a lavorare. I mattoni prodotti da Martinoli erano costruiti a basso costo e con materiali di pessima qualità, con il risultato che si sbriciolavano superata una certa pressione.
9) La rete fognaria (grandi collettori e diramazioni secondarie) fu costruita solo nella città alta e non in quella media e bassa, dove era assolutamente indispensabile. Neanche il rialzo del piano stradale venne realizzato. Le nuove abitazioni costruite (che portarono all’aumento degli affitti, non certo alla portata degli sfollati degli slum) erano insufficienti e di pessima qualità.
10) Nel 1900, oltre 11 anni dopo l’inizio dei lavori (quindi al termine previsto dal contratto) solo il 60 per cento delle opere era stato completato, e la città bassa non era stata bonificata. Come scrisse Matilde Serao: “vi sono dei vicoletti che precipitano per mezzo di dislivelli paurosi, di scalette ripide, difese da rozze ringhiere, in tutto ciò che sta dietro il Rettifilo, vicoletti sinuosi, vicoletti neri, angoli dove due o tre vicoli s’intersecano dirupandosi, tutto un disegno bislacco e grottesco”.
Ci fu una vera e propria cricca, guidata dal deputato Alberto Casale, in odore di camorra, dal sindaco Celestino Summonte, e da Edoardo Scarfoglio, direttore del Mattino, con molti altri complici che gestivano i lavori pubblici della città. […]”.