In Burundi non ci sono più giornalisti internazionali e la copertura mediatica delle proteste è calata bruscamente (anche perché, è bene ricordarlo, i media nazionali sono stati chiusi o danneggiati al punto da non poter trasmettere). Per la verità, anche le manifestazioni, dopo quasi due mesi, soffrono di stanchezza, tuttavia resta alta l’avversione alla candidatura del presidente uscente per un terzo mandato (che violerebbe la Costituzione e gli Accordi di Pace di Arusha). Tale opposizione si esprime in vari modi, spesso piuttosto creativi: dalle corse iniziali sventolando ramoscelli in segno di pace ai fischietti per far capire al governo che “il match è finito”, fino ad una nuova modalità di cui ha scritto ieri il website di “Radio Isanganiro”: nel quartiere Musaga ogni giorno alle 12:30 e alle 19, puntuali, gli abitanti fanno un gran rumore, in modo da sottolineare l’assordante silenzio imposto dalla censura governativa, che a quelle ore non permette più, da oltre un mese, la diffusione dei radiogiornali nazionali in kirundi, la lingua del Paese.
Questa inventiva, tuttavia, non significa che non ci siano più drammi: la settimana scorsa è stata particolarmente dura, con le morti di due manifestanti (di 18 e 25 anni) e il tentativo di assassinio di una militante dell’opposizione (colpita da numerosi proiettili). Ieri, inoltre, sarebbe stata lanciata una granata nella palestra di una scuola elementare del quartiere Kinindo, ferendo almeno un bambino (ma la notizia è da confermare). In totale, in sette settimane di proteste, i morti sono 77 e i feriti 500.
L’altro ieri a Johannesburg, in Sud Africa, si è concluso il 25esimo summit dell’Unione Africana, che ha emesso un documento per sollecitare la ripresa del dialogo inter-burundese e ha annunciato l’invio di “esperti militari”; se tali decisioni hanno reso una parte dell’opposizione speranzosa, tuttavia l’altra si dichiara ancora insoddisfatta.
Inoltre, è sempre emergenza per gli oltre 100mila rifugiati burundesi all’estero. Anche in questo caso le notizie sono poche, ma da un tweet dell’Unhcr in Rwanda si può dedurre che la situazione stia peggiorando: l’agenzia umanitaria, infatti, sta spostando i rifugiati dal campo di Mahama in un altro semi-permanente, così da fare spazio ai nuovi rifugiati che continuano ad arrivare. Intanto, 258 dei 1195 bambini burundesi rifugiati in Rwanda identificati come non accompagnati, sono stati ricongiunti con genitori o parenti. Sul campo di Mahama, consiglio la toccante testimonianza di Judith Mukeshimana (coordinatrice di “Plan Rwanda”, che gestisce la struttura), pubblicata su “El Pais” della settimana scorsa. Difficoltà alimentari, invece, sono denunciate dall’Unesco tra i rifugiati burundesi e le comunità congolesi che li ospitano nella RDC.
Per concludere, segnalo due iniziative accademiche. La prima è l’intervista sul “Washington Post” di Kim Yi Dionne ad Adam Branch e Zachariah Mampilly, autori di “Africa Uprising: Popular Protest and Political Change“, un recente libro che analizza la «terza ondata di proteste popolari in Africa» (ovvero quelle in corso in vari Paesi), tra le quali c’è quella così carica di speranze del Burundi. La seconda iniziativa riguarda una lettera indirizzata al Segretario di Stato USA John Kerry firmata da cinquanta docenti in “African studies” di Stati Uniti, Europa e Africa affinché «il governo USA applichi urgentemente ogni forma di pressione diplomatica ed economica al governo burundese, così da risolvere rapidamente e pacificamente la crisi».
– – –
Gli articoli (e i numerosi aggiornamenti successivi) dedicati alla crisi burundese apparsi qui sul “Taccuino” sono i seguenti:
1) quando sono cominciate le proteste, alla fine di aprile;
2) in seguito al tentativo di un colpo di Stato, a metà maggio;
3) dopo un mese di manifestazioni quotidiane;
4) per spiegare perché si tratta di un’opposizione che accende la speranza (originariamente su “Frontiere News”).
Tali post nascono quasi sempre sul mio profilo fb, come anche questo qui sopra.
– – –
AGGIORNAMENTO del 26 giugno 2015 (fb)
Star dietro la cronaca del Burundi è difficile, soprattutto senza più giornalisti che verifichino le notizie, che talvolta sono solo voci.
Tra i miei appunti segno di tutto, ripromettendomi di fare successivamente una scrematura. Ma poi passano i giorni e la quantità di informazioni è tale che l’operazione risulta sempre molto complessa. Comincio, allora, da due notizie recenti (di ieri, anzi di ieri sera), probabilmente le principali, anche per avere subito chiaro il quadro della situazione sociale e politica nel Paese africano.
La prima riguarda uno dei vicepresidenti del Burundi, Gervais Rufyikiri, che ieri è fuggito in Belgio: «Sono stato minacciato per essermi espresso contro il terzo mandato di Nkurunziza» [qui].
La seconda notizia attiene agli studenti universitari, che ieri si sono riversati in centinaia nell’ambasciata USA a Bujumbura. C’è da dire che il loro campus era stato sgomberato quasi due mesi fa, all’inizio delle proteste, e che molti studenti vivevano accampati in una zona dei dintorni, una situazione ritenuta sempre più a rischio, ma ieri per scappare dalla polizia hanno “invaso” lo spazio statunitense, la cui amministrazione ha confermato che gli universitari (circa un centinaio) stazionano nella propria area in maniera pacifica.
Altra notizia rilevante, ma da verificare, è quella diffusa in un’intervista radiofonica dal generale Philbert Habarugira, vicino ai putchisti dello scorso maggio, secondo il quale sarebbe in preparazione un falso colpo di Stato da parte dei filo-governativi, per cui è necessario preparare una lotta armata per la liberazione del Paese.
Negli ultimi giorni ci sono stati vari attacchi con granate, sia nella capitale che in altri centri della nazione. La violenza più ricorrente, tuttavia, è ancora quella contro i giornalisti (ormai sempre meno e in condizioni sempre più precarie): due sere fa ne è esplosa una davanti all’abitazione di Diane Nininahazwe, reporter di “Radio Bonesha” e a livello internazionale si levano sempre più spesso appelli per la riapertura degli organi d’informazione, come ha riferito anche Riccardo Noury di Amnesty International Italia.
Sul fronte diplomatico, è da segnalare l’arrivo di un nuovo mediatore delle Nazioni Unite, il senegalese Abdoulaye Bathily, già Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per l’Africa centrale, che ha sostituito Said Djinnit, accusato dall’opposizione burundese di non essere imparziale nelle trattative con il governo. Pertanto, sono ripartiti i negoziati, sebbene ora si registri la defezione del governo e del partito al potere.
L’Unione Europea, dal canto suo, continua a esprimere preoccupazione per la situazione burundese, a chiedere maggior dialogo e a dirsi preoccupata per il crescente numero di rifugiati all’estero. In particolare, l’UE cita gli Accordi di Cotonou, che riguardano il rispetto dei diritti umani, dei valori democratici e dello Stato di diritto, dove all’art. 96 sono previste delle procedure di consultazione in caso di violazioni di tali principi.
In effetti, ormai la situazione è particolarmente grave sia per i profughi all’estero (video-reportage della CNN), sia per i bambini in patria, come denuncia l’Unicef. Inoltre, la situazione economica nazionale è sempre più drammatica ed ha accentuato una precarietà presente da anni, come spiegano alcuni ricercatori e come testimoniano diverse recenti canzoni burundesi).
Per concludere, segnalo due testi della poetessa Ketty Nivyabandi. Il primo è in audio (in francese) sui “piccoli uomini”: «Des hommes aux petites idées / Des hommes aux petites actions / Des hommes aux petites ambitions / Des hommes sans imagination» (è un testo del 2010, leggibile qui). Il secondo è per iscritto (in inglese) in cui dice «respiriamo carbone, ma espiriamo speranza».
– – –
AGGIORNAMENTO del 27 giugno 2015 (fb)
L’aggiornamento odierno dal Burundi comincia da lontano e fa un giro largo. Il bollettino che sto per scrivere, in parte c’entra e in parte no. Ma sento il dovere di non ignorare ciò che è accaduto ieri in molti Paesi del mondo, fin nel cuore d’Europa.
Ebbene, una persona è stata uccisa (decapitata) e due sono state ferite a Saint-Quentin-Fallavier, nell’Isère, vicino Lione, in Francia.
Almeno 37 morti e altrettanti feriti, alcuni gravi, si sono avuti in due attacchi ad altrettante strutture turistiche di Sousse, in Tunisia.
Si contano almeno 27 morti e 200 feriti per un attacco suicida in una moschea sciita di Kuwait City.
A Kobane, nel Kurdistan siriano, negli ultimi giorni sono morte 146 persone, di cui almeno 120 civili (e, tra questi, decine di bambini), tra azioni di guerriglia e autobombe.
Infine, ieri si sono avuti almeno 50 morti (ma potrebbero essere 100) e un numero indefinito di feriti in un attacco suicida a Leego, a 130 km da Mogadiscio, in Somalia. Le vittime sono tutti soldati del contingente del Burundi, appartenente alla missione di peacekeeping dell’Unione Africana.
Quest’ultimo eccidio influirà sulla crisi politica burundese? Al momento è difficile dirlo, certo lo shock e la commozione nel Paese sono forti.
Ieri i partiti all’opposizione hanno annunciato che boicotteranno le elezioni (le prime, quelle comunali, si terranno il 29 giugno), che tuttavia alcuni propongono di posticipare ancora. In ogni caso, il Belgio ha annunciato che non riconoscerà il risultato delle consultazioni.
Intanto, mentre all’Onu si insiste sulla ripresa del dialogo, l’Unhcr riferisce che il numero di rifugiati burundesi nei Paesi confinanti è giunto a 127mila (62mila in Tanzania, 45mila in Rwanda, 8.855 in Uganda, 10.590 nella RDC, 400 in Zambia). Il flusso di profughi aumenta con l’avvicinarsi delle scadenze elettorali e oltre 100mila sono stati vaccinati contro il colera dall’Unhcr.
A Bujumbura l’Unicef ha messo in piedi una struttura dove far incontrare i bambini e tenerli al sicuro, come testimonia Eliane Luthi, mentre il “New York Times” raccoglie le esperienze di alcuni giovani attivisti di questi due mesi di proteste.
Infine, è da segnalare il ritorno in Burundi di Sonia Rolley, l’ottima corrispondente di “Radio France International”.
– – –
AGGIORNAMENTO del 29 giugno 2015 (fb):
Oggi in Burundi ci sono state le elezioni legislative e comunali (nelle prossime settimane ci saranno quelle presidenziali, le più temute e contestate). Nonostante l’opposizione avesse invitato al boicottaggio delle votazioni e sebbene negli ultimi giorni ci siano stati scontri sanguinosi, in molti seggi, specie fuori da Bujumbura, si sono registrate lunghe code per esprimere la propria preferenza.
Dopo la rinuncia dell’UE, queste consultazioni hanno avuto come osservatori internazionali solo esponenti dell’UA, ma secondo alcuni reporter se ne sono visti molto pochi ai seggi. In ogni caso, secondo quanto riporta “Radio Bonesha” (non ho verificato la fonte primaria), l’Europa avrebbe stigmatizzato ancora una volta la decisione del presidente Nkurunziza di ignorare gli appelli internazionali al dialogo e, piuttosto, di procedere con delle elezioni che offrono scarse garanzie di correttezza [qui].
Sempre oggi, l’Unhcr ha diffuso un nuovo bollettino sui profughi all’estero, che, verso la Tanzania, sono aumentati di 6000 negli ultimi tre giorni.
Infine, questa foto (di Nubwacu Yves Lionel) è stata scattata a Ngozi, roccaforte del presidente, il quale ha votato lì in mattinata.
Pingback: Il 2015 del Burundi | il Taccuino dell'Altrove