Cinque ragioni per andare a visitare l’Expo di Milano:
- E’ divertente, colorato, affollato (e per queste stesse ragioni, è anche stancante).
- Le architetture di molti padiglioni sono belle, intriganti, interessanti (designer di tutte le università e di tutti gli studi, vi consiglio di andarle a vedere).
- Vi sono rappresentate le gerarchie del pianeta e, va da sé, anche le autorappresentazioni degli Stati (vi anticipo un dato: sono tutti felici e buoni).
- Ci si può avvicinare a Paesi generalmente nascosti o taciuti (ma anche lì bisogna andarseli un po’ a cercare, sebbene vi siano alcune sorprese: i padiglioni dell’Angola e dell’Azerbaijan, ad esempio).
- Si possono ammirare dei linguaggi multimediali e museografici di grande interesse ed efficacia. Da questo punto di vista, per eleganza dell’esposizione, focalizzazione del messaggio, chiarezza del linguaggio, uso consapevole (e misurato) della tecnologia, il Marocco e l’Austria, tra i padiglioni che ho visitato, hanno realizzato due mostre belle e funzionali allo scopo. Poi ci sono singole installazioni davvero ben fatte o spettacolarmente interessanti (nei padiglioni della Svizzera, del Kuwait e della Cina, ad esempio). Allo stesso tempo, vi sono esposizioni scarse e deludenti, come dirò nel prossimo elenco.
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Cinque ragioni per non andare all’Expo di Milano:
- Non si capisce a cosa serva (chiaramente, non è detto che debba servire a qualcosa, ma siccome si tratta di un evento che ha la pretesa di essere unico e mondiale, oltre che impattante per l’ambiente e costoso per le casse pubbliche, forse dargli un senso più lungimirante e costruttivo sarebbe stato auspicabile).
- Dopo Expo, non si sa cosa vi sarà su quei terreni asfaltati e questa mancanza di progettualità tradisce lo spirito effimero e poco avveduto che affligge i nostri amministratori (si, non si sa nemmeno cosa c’era prima, nel senso che quell’area della Lombardia è da parecchio devastata da cemento e rotatorie: ecco numerosi esempi).
- Più che un evento “globale”, è un’apoteosi di nazionalismi del globo: bandiere, abiti “tradizionali”, cibi “tipici” e musica “etnica” sono sciorinati con grande enfasi (però la si può prendere anche positivamente e pensare che questa sia un’occasione per approcciarsi a realtà comunque ricche, culturalmente e socialmente). Gli spazi migliori, sebbene i più trascurati, sono quelli tematici: i cosiddetti “cluster“, che riguardano più Paesi intorno a singoli prodotti, come il caffè, il riso, il cacao, il mare, le zone aride e così via. (Se ci andate, vi consiglio il caffè burundese).
- Nell’insieme, appare come una Borsa Internazionale del Turismo, ma esplosa: ogni Paese vi presenta il meglio di sé (o che suppone tale; non a caso in molti padiglioni si è accolti dalla gigantografia del locale sovrano/capo-di-stato/presidente-della-repubblica, anche quando sono generazioni che non molla il potere).
- Come anticipavo nell’elenco precedente, vi sono esposizioni deludenti. Farò solo l’esempio del padiglione italiano, singolare e con una sua personalità dal punto di vista architettonico (anche se personalmente preferisco lo stadio di Pechino e il Mucem di Marsiglia), ma del tutto privo di idee nel contenuto espositivo. Vi è un uso abnorme della tecnologia (multivisioni con 12 proiettori, ad esempio) che però non ha nulla da dire: vi sono stanze colme di specchi che riflettono e amplificano paesaggi e architetture, ma ripetere questa formula per ben tre sale è decisamente segno di scarsezza d’inventiva (solo l’ultima, dove dei dettagli d’arte vengono ingranditi e riverberati ad libitum, mi ha realmente toccato, le precedenti sono solo disorientanti e confusionarie). In un’altra sala un grande plastico dell’Europa e del Mediterraneo, monco dell’Italia, fa da spunto per otto schermi in cui a turno degli stranieri dicono quanto sono necessari gli italiani alle sorti del pianeta (lo slogan del padiglione è il terrificante “Orgoglio Italia”). Insomma, un grande (e, volendo, anche un bel) contenitore, ma del tutto vuoto. Per fortuna che in un angolo (è giusto un angolo, per di più buio e senza il necessario spazio per permetterne una visione appagante) c’è l’originale di “La Vucciria” di Renato Guttuso (la sola vera opera d’arte del padiglione italiano). (Va aggiunto che fuori, in un piccolo spazio dedicato alla Sicilia, ci sono i due straordinari acroliti delle dee Demetra e Kore, che tuttavia consiglio di vedere nella loro sede originale, ovvero al Museo di Aidone, in provincia di Enna).
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Dunque, quale bilancio?
Personalmente sono contento d’aver visitato questo spettacolo (non sono mai stato a Disneyland, ma ho l’impressione che l’effetto sui visitatori sia piuttosto simile: ci si diverte e vien voglia di ballare o, se amate la critica sprezzante, ci si infantilizza). Vabbè.
Sì, ero scettico fin dall’inizio, ma non avevo preconcetti, per cui la mia curiosità mi ha comunque portato a fare quest’esperienza (ho taciuto dei mega parcheggi a 20 minuti di bus-navetta e dello scandaloso sistema informatico, ché se l’avessi saputo prima…), ma come avete letto, ora ho delle basi empiriche per affermare che è un’occasione mancata. Lungi dal considerarmi un disfattista, non posso non notare che se lo slogan è “nutrire il pianeta” (e i telegiornali ci raccontano quotidianamente che fame e carestia flagellano ampie regioni del mondo, anche “occidentale”), allora l’Expo non risponde ai suoi stessi propositi e dà l’impressione di mettere la testa sotto la sabbia. Come ha commentato “ArcipelagoMilano”,
si concentra soprattutto sulle tradizioni alimentari, sull’educazione a una corretta alimentazione per favorire nuovi stili di vita, sulle malattie sociali – obesità, etc. – della nostra epoca, sulla qualità e sicurezza dell’alimentazione. In buona sostanza, “nutrire il mondo” significa secondo Expo mangiare tutti meglio, soprattutto nei nostri paesi che possono permetterselo.
Clicca sulla foto in basso per accedere alla galleria fotografica su Flickr:

Interno del padiglione Bolivia. Clicca sull’immagine per accedere alla galleria fotografica del weekend all’Expo.
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Sul profilo YouTube della Rai c’è una playlist degli spot realizzati per ogni padiglione:
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Ho segnalato questo post su fb, dove si sono susseguiti alcuni commenti interessanti.
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INTEGRAZIONE del 2 novembre 2015:
“Era impossibile capire che in un Paese dove fioccano le sagre ogni fine settimana e in cui perfino la città più oscura ha il suo capannone, ehm, padiglione fieristico, con festival delle discipline olistiche, del tatuaggio e della pizza, la cosa avrebbe potuto funzionare? Non è che forse ci ostiniamo a credere che gli scrittori siano in grado di comprendere la società quando, in realtà, perfino i migliori non ci vanno neanche vicino? […] Che poi, a dirla tutta, ma davvero la didattica di Expo era così insignificante? Perché, per come la vedo io, se proprio c’era qualcosa in eccesso a Expo, beh quella era proprio la didattica. Ogni singolo padiglione era infarcito di una tale quantità di informazioni e con un tono così paternalistico che a tratti sembrava di vedere un esibizione per bambini“.
Su “Rivista Studio”, Arnaldo Greco scrive di Expo e di come gli intellettuali italiani non ci abbiano capito niente.