Ad ovest di Nizza c’è una zona chiamata “Centre administratif“, una sorta di centro direzionale dove sono concentrate varie istituzioni nazionali, regionali e locali. Tra queste c’è la “Préfecture“, dove non ero mai stato prima di stamattina. Per la verità, non ero mai stato in una prefettura in assoluto; credo giusto una volta alla questura di Napoli per il rinnovo del mio passaporto. Qui, invece, ho accompagnato un amico a riconvertire la patente di guida italiana in quella francese.
Il palazzetto è ben organizzato, ci sono indicazioni chiare e percorsi segnati in cui mettersi in fila per svolgere le proprie pratiche; difficile non riuscire ad orientarsi, ma anche se fosse, c’è un grande bancone con tre impiegati che danno informazioni. Entrando al piano terra, l’ufficio del “permis de conduire” è in fondo a destra, dall’altro lato del settore dei “permis de séjour“, piuttosto grande e con una fila lunga, piena di carrozzini con bébé che dormono mentre i genitori attendono il loro turno: prima per ritirare il numero d’ingresso e poi per essere ricevuti da un funzionario dell’immigrazione.
L’ala delle patenti automobilistiche, invece, è più piccola, con tre sportelli: il primo è di pre-accoglienza, dove si prendono o i documenti rinnovati o il numero per accedere agli altri due sportelli, dedicati alla presentazione di nuove pratiche. Pertanto, stamattina abbiamo fatto una prima fila per ritirare il numero d’attesa e poi abbiamo aspettato il nostro turno seduti sulle panchine dinnanzi agli sportelli (l’attesa sarà durata in tutto una mezz’oretta). In questo lasso di tempo ho potuto posare lo sguardo intorno a me e accorgermi che chi chiedeva il rinnovo della patente o il passaggio da un sistema nazionale straniero a quello francese era per la gran parte come noi, francesi d’adozione. Tra questi, diversi sembravano lavoratori che necessitano della patente per svolgere le loro mansioni: davanti a noi, in attesa, c’erano un paio di operai in tuta e almeno un autotrasportatore.
Come in ogni ufficio, c’erano cartelli informativi (uno recitava che dalla presentazione della richiesta di rinnovo, occorre aspettare 11,8 giorni per ricevere il documento nuovo), vari modelli precompilati per pratiche specifiche, divieti di fumo e così via. Quello che più mi ha colpito, tuttavia, è stato un avviso in cui era spiegato che, dato l’aumento considerevole di “outrages ou insultes à l’encontre de fonctionnaires” (ovvero di oltraggi o insulti agli impiegati), l’utente che dovesse andare in escandescenza verrà denunciato, processato e multato. In effetti, lo “spettacolo della burocrazia” può mettere ansia, innervosire o, addirittura, far pronunciare parole scomposte, per cui, per esserci un cartello apposito, questa eventualità deve capitare più spesso di quanto si immagini.
Mentre pensavo ciò, il mio amico fremeva: “e se nel mio incartamento manca qualcosa? e se la traduzione non è corretta? e se mi dicono di dover tornare?” (ci son voluti almeno 130 euro, tra documenti ufficiali e traduzioni autorizzate, e non so quante settimane). Fremeva, dicevo, e intanto allo sportello n. 2 una ragazza spagnola cominciava ad urlare contro l’impassibile impiegata dall’altro lato: “questo è l’originale, vede? è a colori, i due fogli sono spillati, c’è il timbro… questo è tutto ciò che mi hanno dato a Madrid, perché dice che non va bene? sono già venuta due volte qui…”. Il corpo e la voce trattenevano a fatica la rabbia della ragazza, che si muoveva sulla sedia, indicava firme e date sui suoi documenti e con gli occhi cercava approvazione in noi altri in attesa.
Allora mi sono guardato intorno anch’io, qualcuno fissava il monitor dei numeri progressivi, qualcun altro ricontrollava la lista dei documenti, altri ancora scorrevano la rubrica telefonica e ogni tanto sbirciavano verso lo sportello 2… ciascuno, così mi sembrava, tra la speranza di andarsene presto da quel limbo burocratico e l’augurio che tutto fosse in regola per loro. A quel punto sono tornato con lo sguardo alla ragazza spagnola e ho visto qualcosa di cui non m’ero accorto, ovvero il vetro tra lei e l’impiegata al di là dello sportello: un grande vetro con una feritoia in basso per il passaggio dei documenti e un foro all’altezza del viso per potersi parlare, come in alcuni uffici postali o bancari. Non essendoci denaro, la rapina mi sembra esclusa, per cui l’unica ragione plausibile è che gli oltraggi e gli insulti di cui all’avviso sulla parete, probabilmente potrebbero trascendere anche in sberle o scavalcamenti di scrivanie. Eppure quel vetro non mi è sembrato affatto una barriera di sicurezza, quanto piuttosto uno dei tanti confini che non si smette mai di dover affrontare, l’ennesima separazione tra chi è dentro e chi è fuori il godimento di certi diritti, forse il più trasparente tra gli innumerevoli ostacoli di cui è zeppa la nostra società, una separazione di cristallo che rinnova lo “spettacolo della frontiera” che, con tutta evidenza, non si conclude nell’attraversamento di una soglia tra Ventimiglia e Menton.
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