Tra oicofobia e antropofobia

Alain Finkielkraut ha coniato il termine «oicofobia» per indicare «l’odio per la casa natale», cioè la tendenza a valorizzare le differenze culturali degli stranieri, disinteressandosi del patrimonio autoctono. Il filosofo francese compie una sorta di celebrazione dell’identità nazionale, in quella che sembra essere una nuova sfumatura del vecchio dibattito sul relativismo.

Adriano Favole, a questo proposito, gli contrappone il termine «antropofobia», ovvero «la paura, lo sgomento e la difficoltà di riconoscere e valorizzare la diversità culturale prodotta dall’umanità, distinguendo la sua importanza dagli usi strumentali di tipo politico, militare e persino terroristico che spesso se ne fanno. È la paura di riconoscere l’umanità nella variabilità delle sue forme (interne ed esterne a una società) e nel suo divenire creativo, attraverso l’inevitabile fusione di orizzonti. È, ancora, l’idea che la condivisione di valori e obiettivi debba comportare il cristallizzarsi di un’identità monolitica. L’antropofobia si manifesta oggi in una risoluta e testarda negazione dei risultati delle ricerche scientifiche compiute da discipline come l’antropologia culturale e l’antropologia fisica (e più in generale nelle humanities), ridotte dagli antropofobici ad arene ideologiche della post-sinistra intellettuale».

In realtà, c’è anche una terza categoria, quella degli «antropofili» che, spiega ancora Favole, apprezzano l’umanità nella sua varietà e fanno di essa il punto di partenza per la costruzione di percorsi condivisi, il ché non vuol dire essere oicofobici: «Anche perché, quando si studiano le radici, si finisce per vedere che spesso esse sono ben radicate altrove, anche se nutrono la nostra pianta».

Tutto il testo di Favole è pubblicato su “La Lettura” del “CorSera” dell’aprile 2015.

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INTEGRAZIONE del 15 marzo 2017:
Il 24 gennaio 2017 lo storico e filosofo Achille Mbembe ha pubblicato su “Le Monde” un articolo intitolato «L’identité n’est pas essentielle, nous sommes tous des passants», da cui estraggo i passaggi seguenti:

[…] le propre de l’humanité, c’est le fait que nous sommes appelés à vivre exposés les uns aux autres, et non enfermés dans des cultures et des identités. Mais tel est aussi le cours que prend désormais notre histoire avec d’autres espèces sur cette Terre. Vivre exposés les uns aux autres suppose de reconnaître qu’une part de qui nous sommes devenus trouve son origine dans ce que la philosophe Judith Butler appelle notre vulnérabilité. Celle-ci doit être vécue et entendue comme appel à tisser des solidarités et non à se forger des ennemis. En vérité, ce que l’on appelle l’identité n’est pas essentiel. Nous sommes tous des passants. Alors qu’émerge lentement une nouvelle conscience planétaire, la réalité d’une communauté objective de destin devrait l’emporter sur le culte de la différence. […] On ne l’a pas suffisamment fait ressortir, mais à la racine du racisme propre aux sociétés prises dans les rets du néolibéralisme se trouve la difficulté de jouir. Cela étant, les pulsions racistes sont ­devenues des pulsions de type libidinal. Pour fonctionner, le racisme a besoin de la fiction selon laquelle il y aurait des corps purs, des cultures pures, du sang pur. Or, il n’existe aucun corps humain qui soit pur, diaphane. En matière de corps, de religion, de culture ou de sang, le blanc n’existe tout simplement pas. Tous les corps sont gris ocre et obscurs. Et c’est ce qui fait d’eux des corps vivants et humains, et à ce titre poreux, ouverts sur ce qui les fait vivre, sur la chair du monde. […]

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Studio il rapporto tra gli esseri umani e i loro luoghi, soprattutto quando si tratta di luoghi "a rischio"
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3 risposte a Tra oicofobia e antropofobia

  1. giogg ha detto:

    “La Lettura” (“Corriere della Sera”), aprile 2015, QUI

    ANTROPOFOBIA
    Ossessionati da identità e radici, temiamo (e ignoriamo) la varietà di società e culture del pianeta. Per questo Finkielkraut sbaglia
    di Adriano Favole

    Nel suo libro L’identità infelice (Guanda), Alain Finkielkraut la chiama «oicofobia», ovvero «l’odio per la casa natale». Riferendosi alla sua Francia, il filosofo sostiene che vi è una diffusa tendenza a valorizzare le differenze culturali degli stranieri, mentre il patrimonio autoctono sarebbe oggetto di disinteresse e spesso di una radicale critica. È una Francia «in cui l’origine non ha diritto di cittadinanza se non a condizione di essere esotica e in cui una sola identità è tacciata d’irrealtà: l’identità nazionale». L’identità è infelice perché i francesi, e più in generale gli europei, rifiutano di celebrare e difendere i simboli della loro cultura, quella stessa cultura occidentale contro cui i terroristi che si richiamano all’islam scagliano l’odio omicida. «Perché la Francia è a immagine dell’Europa e l’Europa ha smesso di credere nella sua vocazione (passata, presente o futura) di guida dell’umanità nella realizzazione della sua essenza», dice Finkielkraut.
    La critica all’«oicofobia» è molto diffusa di questi tempi, anche in Italia. Si rivolge in genere contro chi, come Francesco Remotti e Maurizio Bettini, ha reso sospetti termini come «identità» e «radici». L’uso di «oicofobia» è originale e arguto, ma in fondo non è altro che la riproposizione della vecchia querelle contro i «relativisti».
    Una fenomenologia dell’oicofobico italiano rimanda, per limitarci ad alcuni esempi, a chi mette in discussione la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche; a chi, nonostante i terroristi e la jihad globale (o forse proprio per questo), ritiene comunque importante non dimenticare le pagine buie del colonialismo occidentale. Temo di essere classificato tra questi se, quando i media diffondono orrende immagini di distruzione del patrimonio artistico da parte dell’Isis, non posso fare a meno di pensare a quando, un paio di secoli prima, i missionari cristiani bruciavano gli idola pagani delle società polinesiane in cui mi è capitato di fare ricerca (statue lignee e reliquie degli antenati), trasformando i marae (i «templi» sacri) in recinti per i maiali e per i polli. L’oicofobico italiano è accusato di difendere l’operazione Mare nostrum per salvare le vite di chi tenta di attraversare il Mediterraneo, superando il filo spinato dell’indifferenza verso la fame, la guerra e la morte, anche se si tratta di uomini e donne in prevalenza islamici, e di non scandalizzarsi abbastanza davanti ai massacri dei cristiani in Kenya.
    Davvero è un «pericolo» l’oicofobia? Ma soprattutto: è così diffusa come si vuol far credere? A me pare che il saggio di Finkielkraut colga un diffuso «bersaglio» più che un pericolo. Molto più diffuso e pericoloso, a mio modo di vedere, è un atteggiamento che si potrebbe definire «antropofobia». L’antropofobia è la paura, lo sgomento e la difficoltà di riconoscere e valorizzare la diversità culturale prodotta dall’umanità, distinguendo la sua importanza dagli usi strumentali di tipo politico, militare e persino terroristico che spesso se ne fanno. È la paura di riconoscere l’umanità nella variabilità delle sue forme (interne ed esterne a una società) e nel suo divenire creativo, attraverso l’inevitabile fusione di orizzonti. È, ancora, l’idea che la condivisione di valori e obiettivi debba comportare il cristallizzarsi di un’identità monolitica. L’antropofobia si manifesta oggi in una risoluta e testarda negazione dei risultati delle ricerche scientifiche compiute da discipline come l’antropologia culturale e l’antropologia fisica (e più in generale nelle humanities), ridotte dagli antropofobici ad arene ideologiche della post-sinistra intellettuale.
    Lasciando da parte il crescente neorazzismo quale forma paradigmatica di antropofobia, vorrei porre l’attenzione su un’istituzione come la scuola, che il filosofo francese accusa di «oicofobia» in quanto trascurerebbe lo studio degli autori classici della tradizione occidentale. Quanto insegniamo nella scuola (e nell’università) ai ragazzi e ai giovani della variabilità culturale dell’essere umano? Uno studente all’ultimo anno di liceo non conosce neppure i nomi delle più diffuse etnie africane: non sa chi sono hutu e tutsi e tanto meno nuer e dinka. Della Cina conosce probabilmente l’inquinamento e lo straordinario progresso economico degli ultimi decenni, ma ne ignora del tutto la storia, così come i nomi delle lingue minoritarie. Forse i cherokee ricordano al nostro studente un’automobile e i wampum un paio di jeans, ma difficilmente ha potuto acquisire qualche elemento di conoscenza delle società native americane. D’altra parte non conosce neppure le principali tipologie di famiglia, discendenza e alleanza matrimoniale presenti nelle società umane.
    Per non parlare delle religioni, che pure sono indiziate di essere un «problema» molto rilevante del nostro tempo. L’insegnamento relativo a riti, credenze e precetti dell’islam e dell’ebraismo, dell’induismo e del buddhismo, tralasciando le «primitive» religioni native dell’Amazzonia o dell’Oceania, sono lasciati al buon cuore di qualche insegnante di religione cattolica o a qualche contestato laboratorio didattico pomeridiano. Non c’è traccia di tematiche antropologiche (salvo un cenno all’insegnamento della lingua italiana per gli stranieri) nel recente disegno di legge sulla «buona scuola» presentato dal governo, eppure ogni giorno la «questione interculturale» ci viene presentata come uno dei problemi maggiori del nostro tempo.
    L’antropofobia delle istituzioni formative porta con sé la mancanza di un lessico minimo della comunicazione interculturale e diffusi equivoci. Termini come «etnia» e «cultura» sono costantemente utilizzati nel linguaggio mediatico come se si riferissero a realtà ontologiche primordiali e persistenti, mentre gli scienziati sociali non cessano di documentare il loro carattere storicamente costruito. Insigni editorialisti utilizzano i termini «antropologia» e «antropologico» come se si riferissero ad aspetti profondi e immutabili dell’essere umano, mentre l’antropologia (sia sul versante biologico sia su quello culturale) mette costantemente in luce la variabilità e la trasformazione delle forme.
    Gli antropofobici detestano in genere la complessità dell’essere umano e cercano comode scorciatoie. L’homo oeconomicus, l’individuo che ovunque cerca di massimizzare i profitti, è una di queste, così come il diffuso ricorso a determinismi neurologici e biologici — proprio in questi giorni è uscito in Italia Una scomoda eredità di Nicholas Wade (Codice Edizioni), un libro che ripropone un paradigma razziologico, mentre le comunità degli antropologi fisici e culturali hanno da poco ribadito con forza l’inconsistenza scientifica del concetto di razza. In realtà, essere «antropofili», apprezzare cioè l’umanità nella sua varietà e fare di essa il punto di partenza per la costruzione di percorsi condivisi, non vuol dire essere oicofobici. L’incapacità di accogliere l’humanitas nella sua interna complessità impedisce infatti di guardare con affetto e pietas alle peculiarità della cultura da cui si proviene. Anche perché, quando si studiano le radici, si finisce per vedere che spesso esse sono ben radicate altrove, anche se nutrono la nostra pianta. I tronchi degli alberi con cui si fabbricano le case, afferma un detto polinesiano, sono gli stessi con cui si producono le piroghe per navigare in alto mare
    .

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  3. giogg ha detto:

    “Le Monde”, 24 gennaio 2017

    «L’identité n’est pas essentielle, nous sommes tous des passants»
    Une nouvelle conscience planétaire émerge, qui se joue des appartenances et des frontières. Il est temps d’inventer une démocratie pour notre temps, estime Achille Mbembe, historien et philosophe.

    par Achille Mbembe

    Il n’y a pas longtemps, l’on prétendait délimiter avec plus ou moins de précision la frontière entre ici et ailleurs. Aujourd’hui, un tel exercice est futile. La frontière tend désormais à se distendre, sinon à se dissoudre. Inexorablement. En effet, nonobstant les nationalismes, il n’y a jamais eu qu’un seul monde. Qu’on le veuille ou non, nous en sommes tous des ayants droit. Les temps n’ont donc jamais été aussi propices pour redéfinir les paramètres de ce qui nous est commun en cet âge planétaire.
    L’humanité a en commun le fait qu’il n’y a pas de monde, de société ou de communauté dont le fondement ne trouve son origine dans une idée ou une autre de la dette. Sauf à prétendre au divin, nous ne nous auto-engendrons point. Ce sont d’autres que nous qui, toujours, nous ouvrent à la vie. Nous ne leur devons pas seulement notre naissance, mais aussi la langue, les institutions fondamentales, divers héritages et richesses immatérielles, à la fois incalculables et non remboursables, dont nous ne sommes pas les auteurs premiers.
    Cette forme originaire de la dette nous place dans l’obligation de léguer à ceux et celles qui viennent après nous un monde autrement possible. Elle est évidemment différente de la dette expropriatrice qui, sous sa forme marchande, obère de nos jours les conditions de reproduction ou même de survie de millions de femmes et d’hommes.
    Par ailleurs, le propre de l’humanité, c’est le fait que nous sommes appelés à vivre exposés les uns aux autres, et non enfermés dans des cultures et des identités. Mais tel est aussi le cours que prend désormais notre histoire avec d’autres espèces sur cette Terre. Vivre exposés les uns aux autres suppose de reconnaître qu’une part de qui nous sommes devenus trouve son origine dans ce que la philosophe Judith Butler appelle notre vulnérabilité. Celle-ci doit être vécue et entendue comme appel à tisser des solidarités et non à se forger des ennemis.
    En vérité, ce que l’on appelle l’identité n’est pas essentiel. Nous sommes tous des passants. Alors qu’émerge lentement une nouvelle conscience planétaire, la réalité d’une communauté objective de destin devrait l’emporter sur le culte de la différence.

    Forces obscures et perverses
    Malheureusement, le propre du moment néolibéral est de libérer toutes sortes de forces obscures et perverses que l’on était plus ou moins parvenu sinon à dompter, du moins à reléguer dans le domaine des tabous dans un passé pas très lointain. Tel est le cas du racisme, mais aussi de toutes les pulsions autoritaires dont il faut répéter qu’elles n’épargnent pas les démocraties libérales.
    On ne l’a pas suffisamment fait ressortir, mais à la racine du racisme propre aux sociétés prises dans les rets du néolibéralisme se trouve la difficulté de jouir. Cela étant, les pulsions racistes sont ­devenues des pulsions de type libidinal.
    Pour fonctionner, le racisme a besoin de la fiction selon laquelle il y aurait des corps purs, des cultures pures, du sang pur. Or, il n’existe aucun corps humain qui soit pur, diaphane. En matière de corps, de religion, de culture ou de sang, le blanc n’existe tout simplement pas. Tous les corps sont gris ocre et obscurs. Et c’est ce qui fait d’eux des corps vivants et humains, et à ce titre poreux, ouverts sur ce qui les fait vivre, sur la chair du monde.
    Pour donner une nouvelle chance à la démocratie, il faudra d’une façon ou d’une autre imposer des limites au processus de financiarisation de l’existence et faire échec aux formes nouvelles de la guerre, qu’il s’agisse des guerres d’agression, d’occupation ou de pillage propres à notre époque. Il faudra d’autre part réinventer les termes de la représentation de manière telle que toutes les voix soient entendues et effectivement comptées. Si au fondement de la démocratie se trouve le principe de l’égalité, alors il faut reconnaître qu’un certain seuil d’inégalité sociale met en péril l’idée même de la démocratie.
    Pour le reste, notre monde est un monde fini, qui a des limites et par conséquent n’est pas extensible à l’infini. Les humains n’en sont ni les seuls habitants ni les seuls ayants droit. Ils ne sauraient dès lors exercer sur ce monde une souveraineté illimitée. Cela étant, la véritable démocratie ne saurait être que celle des vivants dans leur ensemble.
    Cette démocratie des vivants appelle un approfondissement non dans le sens de l’universel, mais dans celui de l’« en-commun », et donc dans un pacte de soin – le soin de la planète, le soin apporté à tous les habitants du monde, humains et autres qu’humains.
    D’autre part, le projet de l’en-commun fait place au passant. Le passant renvoie en dernière instance à ce qui constitue notre condition commune, celle de mortel, en route vers un avenir par définition ouvert. Etre de passage, c’est cela finalement la condition humaine terrestre. Assurer, organiser et gouverner le passage et non instruire de nouvelles fermetures, telle est à mon sens la tâche de la démocratie à l’ère planétaire.

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