Franco Berardi Bifo ha letto “La soumission”, il nuovo romanzo di Michel Houellebecq e ne ha scritto una lunga e articolata recensione sul suo profilo facebook, ripresa poi da “Dinamopress” (23 gennaio 2015, QUI).
Sul finale, riferendosi ad un elogio dell’identità pronunciato da un politico, il filosofo fornisce una sua definizione di tale nozione:
[…] identità è un concetto senza contenuto e senza senso. Cosa sarebbe l’identità? Sarebbe ciò che ti differenzia dagli altri? Sarebbe ciò che ti rende uguale ad alcuni? L’identità è un mito che confonde la visione: la differenza risiede nel singolare, non nell’appartenenza a un popolo, a una nazione o a una razza. Il singolare si congiunge ad altri singolari, non per appartenenza, ma per condivisione solidale.
L’identità è un costrutto psico-politico che serve generalmente a rinsaldare un corpo sociale che ha perso il senso della solidarietà. L’identità si afferma attraverso l’aggressione, quando i lavoratori perdono coscienza del loro comune interesse e sanno riconoscersi soltanto come serbi o come croati, come bianchi o come neri, come islamici o come cristiani. Hanno perso la guerra sociale, e si preparano per altre guerre […].
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INTEGRAZIONE:
Parallelamente al concetto di “identità“, se ne sviluppano altri, come “nazione” e “nazionalismo“. Na he scritto Tayie Selasi sull’ultimo numero di “Internazionale: “Non c’è niente di eterno nelle nazioni, niente di biologico nella nazionalità”.
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INTEGRAZIONE del 21 aprile 2015:
«L’identità non è un oggetto storico. È un oggetto mentale, un parto della mente, un’invenzione, che può avere conseguenze storiche reali». Lo dice Francesco Remotti in un’intervista ad Antonio Gnoli in cui, tra l’altro, l’antropologo dice anche: «Questa filosofia dello scomparire certamente si oppone alla nostra idea del “rimanere”: pensi all’anima del cristianesimo. Al presenzialismo a oltranza. All’angoscia del non esserci. La iper-modernità vuole rendere immortale anche il corpo. Vogliamo diventare dei. Vogliamo essere eterni. È la cosa più ridicola che ci potesse accadere».
L’intervista si intitola “Ero un adolescente emarginato. Mi sono salvato con Lévi-Strauss. La lettura di ‘Tristi tropici’ fu per me un’emozione indicibile. Questa disciplina diventò la mia passione” (“Repubblica”, 19 aprile 2015).
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INTEGRAZIONE del 15 marzo 2017:
Il 24 gennaio 2017 lo storico e filosofo Achille Mbembe ha pubblicato su “Le Monde” un articolo intitolato «L’identité n’est pas essentielle, nous sommes tous des passants», da cui estraggo i passaggi seguenti:
[…] le propre de l’humanité, c’est le fait que nous sommes appelés à vivre exposés les uns aux autres, et non enfermés dans des cultures et des identités. Mais tel est aussi le cours que prend désormais notre histoire avec d’autres espèces sur cette Terre. Vivre exposés les uns aux autres suppose de reconnaître qu’une part de qui nous sommes devenus trouve son origine dans ce que la philosophe Judith Butler appelle notre vulnérabilité. Celle-ci doit être vécue et entendue comme appel à tisser des solidarités et non à se forger des ennemis. En vérité, ce que l’on appelle l’identité n’est pas essentiel. Nous sommes tous des passants. Alors qu’émerge lentement une nouvelle conscience planétaire, la réalité d’une communauté objective de destin devrait l’emporter sur le culte de la différence. […] On ne l’a pas suffisamment fait ressortir, mais à la racine du racisme propre aux sociétés prises dans les rets du néolibéralisme se trouve la difficulté de jouir. Cela étant, les pulsions racistes sont devenues des pulsions de type libidinal. Pour fonctionner, le racisme a besoin de la fiction selon laquelle il y aurait des corps purs, des cultures pures, du sang pur. Or, il n’existe aucun corps humain qui soit pur, diaphane. En matière de corps, de religion, de culture ou de sang, le blanc n’existe tout simplement pas. Tous les corps sont gris ocre et obscurs. Et c’est ce qui fait d’eux des corps vivants et humains, et à ce titre poreux, ouverts sur ce qui les fait vivre, sur la chair du monde. […]
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“Repubblica”, 19 aprile 2015, QUI
ERO UN ADOLESCENTE EMARGINATO. MI SONO SALVATO CON LEVI-STRAUSS
La lettura di ‘Tristi tropici’ fu per me un’emozione indicibile. Questa disciplina diventò la mia passione
di Antonio Gnoli
Mentre salgo in ascensore, destinazione quinto piano di un vecchio palazzo di un quartiere popolare di Torino, vengo assalito da un piccolo dubbio: cosa accade a un antropologo – professione nella quale Francesco Remotti è un maestro assoluto – che non vuole essere prigioniero del presente? Come saranno i suoi pensieri, la sua vita? In quale astronave del tempo finirà col viaggiare? E quando giro, in maniera un po’ sbrigativa, questo interrogativo Remotti si spiega con una metafora: “Davanti alla contemporaneità mi sono spesso sentito una preda. Più l’attualità mostrava i suoi denti più io me ne allontanavo. Credo che il mio lavoro di antropologo si sia sviluppato in questa scena di ipotetica caccia”.
Ah, il potere delle immagini: cacciare o essere cacciato. A quanto pare gli anni che Remotti ha vissuto in Africa non sono passati invano: “Mi restano dentro come una grande esperienza: formativa, creativa, umana. Sono un po’ ostaggio del mio passato e non sempre è un male, non sempre è solo nostalgia”.
E che cosa è?
“Una distanza, resa necessaria se si vogliono capire alcune cose. Faccio una professione che è il massimo della concretezza, ma anche della rarefazione. Entrai in contatto con mondi che non sono i miei. Abitudini che mi apparivano estranee, costumi che mi sconcertavano”.
È la diversità.
“Non è soltanto quella. Tutta la modernità ci ha abituati a confrontarci con la diversità”.
E con l’identità.
“Sta sfiorando la parte più recente del mio lavoro: questa cosa che ci ossessiona, ci stravolge e che non sempre è un fattore positivo”.
In che senso?
“L’identità è a volte un modo distorto di guardare al passato e ci impedisce di pensare il futuro”.
Eppure senza identità non vi sarebbe riconoscimento Una comunità sarebbe minacciata dalla disgregazione.
“Distinguerei tra comunità immaginaria e comunità reale. La prima ricorre a un’identità che ha scarsi legami con la storia. È il frutto del nostro pensiero, della nostra mente. È una rappresentazione. Meglio un’invenzione”.
Se affermo che gli italiani sono tutti egoisti, o brava gente, non sto dando un’identità?
“Se davvero gli italiani fossero tutti egoisti, o tutta brava gente, allora sì. Ma so empiricamente e storicamente che alcuni sono egoisti e altri generosi. E così via. L’identità non è un oggetto storico. È un oggetto mentale, un parto della mente, un’invenzione, che può avere conseguenze storiche reali”.
Ossia?
“Se io dico che gli ebrei sono un popolo inferiore e subdolo – affermazione che fu “scientificamente” legittimata con il “manifesto della razza” – sto creando un’identità immaginaria. Un’invenzione. Le cui conseguenze possono essere devastanti. In questo caso il passo successivo furono le famigerate leggi razziali del 1938. Quelle sì storicamente verificabili. Gli antropologi non devono chiudere gli occhi sulle mistificazioni”.
Come è nata la sua passione per l’antropologia?
“Dovrei cominciare a raccontarle dove sono nato: Pozzolo Formigaro. Un paese da niente tra Alessandria, Novi Ligure e Tortona. Vi restai fino alla seconda elementare. Poi trasferirono mio padre a Vercelli. E la famiglia dietro. Poi mio padre morì e tornammo a Pozzolo. Per me quel paese ha due volti. Quello della prima infanzia: piacevole e incantato. E quello dell’adolescenza con i suoi anni difficili”.
Difficili quanto?
“Parecchio. Da una madre cattolicissima maturai il conflitto con la religione. Fu un primo shock. Poi giunse l’incubo della scuola. Il senso di oppressione e di inutilità. Quelle mattine al banco, ad ascoltare le lezioni, mi mettevano a disagio. Sembrava di mangiar sabbia. Credo di aver sofferto molto l’assenza della figura paterna. Qual- cuno di autorevole con cui parlare. Poi, nel 1960, mia madre, mio fratello e io ci trasferimmo a Torino”.
Uscì dal buco.
“Per entrare in uno più grande. Erano gli anni della grande immigrazione. Perfino noi, che venivamo dal Piemonte, eravamo visti come degli immigrati. Mia madre, con sacrifici notevoli, mi iscrisse al liceo D’Azeglio. Sentivo, da povero provinciale, l’assenza di cordialità, il rifiuto scostante di chi avrebbe dovuto essermi compagno di scuola”.
Come reagì?
“Crebbe il silenzio e un senso di impotenza. Smisi di interessarmi alla scuola. Tanto è vero che soprattutto la seconda liceo fu terribile. Andavo malissimo. Ma dovevo in qualche modo farcela. Non potevo disattendere le speranze di mia madre. Vivevo cacciato dentro il mio mondo. Cominciai a leggiucchiare Freud. Ascoltavo musica classica. Mi piaceva la poesia. Per anni oscillai tra autodistruzione e autodisciplina. L’università ricompose questo dissidio. Placai le mie nevrosi. Mi iscrissi a filosofia. Scoprii alcuni maestri: Luigi Pareyson e Nicola Abbagnano. Ma soprattutto Pietro Chiodi”.
Che ricordo ha di Chiodi, celebre per aver tradotto alcuni testi di Heidegger e aver scritto un bellissimo romanzo sulla Resistenza?
“Quando lo frequentai, era già un uomo malato. Soffriva di un artrosi pesante. Ricordo che un giorno venne all’università. Era il 1967, mi stavo laureando. Cominciavano le prime contestazioni. Chiodi era stato un partigiano e gli studenti lo volevano dalla loro parte. Entrò nell’aula e a fatica si trascinò verso la cattedra. Poi sbatté il bastone sul tavolo. Sembrava arrabbiato. Si fece silenzio. E disse: sapete cosa c’è? Telefonerò ai miei amici di Alba e andrò da loro. Cosa ci faccio qui? Pensai che Alba era il solo luogo dove quest’uomo aveva realizzato se stesso: studiato, tradotto, insegnato. Combattuto per la sua e la nostra libertà”.
Si laureò con lui?
“Sì con una tesi su Lévi-Strauss. Fu allora che l’antropologia mi apparve come un mondo di pietà e arroganza. Di supponenza e di solidarietà. La lettura di Tristi tropici mi procurò un’emozione indicibile. L’antropologia divenne la mia passione quotidiana. Il mio battesimo sul campo fu una ricerca sugli zingari di Pinerolo. Una famiglia di sinti piemontesi. Poi gli anni a Milano con Remo Cantoni e infine l’occasione di partire per l’Africa”.
Quando andò la prima volta?
“Nel 1976. Un missionario mi invitò a raggiungerlo in Congo. L’impatto fu forte. Con un aereo giunsi a Kinshasa, di lì un altro viaggio aereo fino a Bukavu e poi due giorni in jeep per raggiungere il villaggio dei Banande, una popolazione che allora cominciai a studiare. L’odore della savana era stordente. La vegetazione con i suoi colori sembrava avermi gettato in un pianeta sconosciuto. Per l’umidità insopportabile e la stanchezza mi ammalai”.
Cosa le accadde?
“Si infiammò un nervo ottico. Un occhio si chiuse, l’altro si dilatò. Emicranie fortissime. Pensai che non ce l’avrei fatta. L’Africa equatoriale può essere tremenda per un europeo. Partii per l’Italia e tornai l’anno dopo. Tre cose mi avevano colpito nell’ordine. La prima che intorno al villaggio cresceva un grande bananeto. La seconda era la progressiva deforestazione dei luoghi vicino al villaggio; la terza che l’ultimo rito di iniziazione, con cui i giovani Banande entravano nella vita, risaliva agli anni Quaranta del Novecento”.
C’era una relazione tra questi tre eventi?
“Erano i tre volti di un popolo. Il bananeto era una forma di economia da cui si ricavavano frutti e derivati: la birra, ad esempio. Ma era altresì il luogo della vita e della morte. Della putrefazione e della rinascita. Scoprii che vi venivano sepolti i loro morti. Provai disgusto, sulle prime. Ma in seguito compresi che lì, in quel luogo, avveniva la trasformazione della vita”.
Quanto alla foresta?
“I Banande erano ostili alla foresta. Si mostrarono grandi disboscatori e ne erano orgogliosi. Chiesi loro perché quella distruzione progressiva. Mi risposero che così era da sempre. Che “rubavano” spazio alla foresta per guadagnare terre da coltivare. Scoprii che secoli prima dei coltivatori provenienti dall’Uganda, pressati e incalzati dai pastori, si erano spinti fin laggiù. C’era una ragione storica. Ma c’era anche qualcosa di più importante”.
Cosa?
“Notai dall’alto che non tutta la foresta, in quella zona, era stata disboscata. Si vedevano chiaramente dei lembi verdi e rigogliosi. E chiesi la ragione di quella disposizione e perché alcuni tratti di foresta fossero stati risparmiati. Mi risposero che “il mangiare non mangia la foresta senza che lei non lo sappia””.
Cosa significa?
“È un detto bellissimo di quel popolo. Significa che la foresta è la coscienza. Non puoi distruggere interamente la coscienza. Quei lembi erano lì a ricordarlo. E mi raccontarono che lì abitavano anche gli spiriti malevoli della foresta, che ci procurano le malattie e la morte. Chiesi perché non disboscare anche quella parte. “Come puoi eliminare la morte?”, mi risposero. La foresta si vendicava così delle ferite che le erano state inferte. Ristabiliva un equilibrio. Un ciclo di vita e di morte”.
A quale conclusione giunse?
“Che dietro l’apparente semplicità di un popolo c’era un pensiero fortemente articolato. Una cultura alimentata da una meta-cultura. Tutte le culture funzionano in questo modo. Ci sono pratiche culturali che noi eseguiamo spontaneamente, ma dietro hanno un livello di consapevolezza che è la coscienza critica di ciò che si sta facendo. Senza questo livello, diciamo meta-culturale, le culture sono destinate a morire. Ed è un po’ ciò che è accaduto a quelle popolazioni africane. Ed è ciò che sta accadendo a noi”.
Quali fattori ne hanno scatenato la distruzione?
“Due in particolare ed entrambi decisivi: cristianesimo e capitalismo. Quando i missionari giunsero su quelle terre la cosa che fecero fu di cancellare il rituale di iniziazione “.
In che cosa consisteva?
“Era un rito di passaggio che avveniva nella foresta. Il giovane, che vi si inoltrava, era lasciato lì per sei mesi. Cresceva e si trasformava affrontando le difficoltà. La foresta, oltretutto, era anche il luogo della prova. Di intelligenza. Di forza. Di coraggio. Cancellare quel rito fu come uccidere la loro scuola. La loro educazione. Gli spiriti della foresta hanno lasciato il passo agli spiriti del capitalismo. Di qui il progressivo impoverimento culturale”.
Perché dice che ci riguarda?
“Anche noi, in circostanze diverse, stiamo andando verso la distruzione di quel livello meta-culturale cui facevo riferimento. Una cosa che mi ha sempre colpito di quel popolo con cui ho vissuto a lungo è stata la loro maniera di elaborare il lutto. Quando da loro muore qualcuno, le attività produttive si fermano. E quanto più importante è la persona che muore tanto più lungo il tempo di sospensione. Se moriva un capo, o un re, tutto si fermava per mesi. I buoi si fermavano. I campi restavano incolti. Provocando spesso come contraccolpo delle carestie. La foresta riguadagnava i suoi spazi”.
Il tempo della sospensione era un tempo ozioso.
“Era un tempo soprattutto drammatico e riflessivo. Come se la società tutta insieme prendesse una pausa e cominciasse a riflettere su di sé. Non è una cosa che ci riguarda? Che ci interpella? La nostra società, per venire a noi, è come un treno che ormai va a una velocità pazzesca. Non c’è un guidatore. C’è solo movimento. Anche noi avremmo bisogno di una lunga pausa e di un autoriflessione “.
Ha mai pensato di tornare su quei luoghi?
“L’ultima volta fu un paio di anni fa. Non desidero più tornarci. I miei più cari amici sono morti. Come pure i collaboratori. Le popolazioni sono state travolte dal “progresso”. Tendono a imitarci. Scimmiottano i nostri modi. Con orrore ho visto che hanno cementificato il bananeto. Dove un tempo andavano a partorire le donne, che poi seppellivano la placenta, si ergono costruzioni grottesche. Perfino le tombe arboree dei capi sono state sostituite dal cemento. Che pena!”.
Che cosa le resta di quell’esperienza?
“Sensazioni profonde, certo ma anche un senso di sconfitta. Quel mondo aveva una sua filosofia fondata sull’idea di scomparsa. Scompariva l’anima dopo circa un mese; scompariva la memoria del defunto, quando morivano coloro che lo avevano conosciuto in vita. Nella loro visione tradizionale il destino di chi muore era letteralmente di scomparire. È il ciclo morte/vita. Questa filosofia dello scomparire certamente si oppone alla nostra idea del “rimanere”: pensi all’anima del cristianesimo. Al presenzialismo a oltranza. All’angoscia del non esserci. La iper-modernità vuole rendere immortale anche il corpo. Vogliamo diventare dei. Vogliamo essere eterni. È la cosa più ridicola che ci potesse accadere”.
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“Le Monde”, 24 gennaio 2017
«L’identité n’est pas essentielle, nous sommes tous des passants»
Une nouvelle conscience planétaire émerge, qui se joue des appartenances et des frontières. Il est temps d’inventer une démocratie pour notre temps, estime Achille Mbembe, historien et philosophe.
par Achille Mbembe
Il n’y a pas longtemps, l’on prétendait délimiter avec plus ou moins de précision la frontière entre ici et ailleurs. Aujourd’hui, un tel exercice est futile. La frontière tend désormais à se distendre, sinon à se dissoudre. Inexorablement. En effet, nonobstant les nationalismes, il n’y a jamais eu qu’un seul monde. Qu’on le veuille ou non, nous en sommes tous des ayants droit. Les temps n’ont donc jamais été aussi propices pour redéfinir les paramètres de ce qui nous est commun en cet âge planétaire.
L’humanité a en commun le fait qu’il n’y a pas de monde, de société ou de communauté dont le fondement ne trouve son origine dans une idée ou une autre de la dette. Sauf à prétendre au divin, nous ne nous auto-engendrons point. Ce sont d’autres que nous qui, toujours, nous ouvrent à la vie. Nous ne leur devons pas seulement notre naissance, mais aussi la langue, les institutions fondamentales, divers héritages et richesses immatérielles, à la fois incalculables et non remboursables, dont nous ne sommes pas les auteurs premiers.
Cette forme originaire de la dette nous place dans l’obligation de léguer à ceux et celles qui viennent après nous un monde autrement possible. Elle est évidemment différente de la dette expropriatrice qui, sous sa forme marchande, obère de nos jours les conditions de reproduction ou même de survie de millions de femmes et d’hommes.
Par ailleurs, le propre de l’humanité, c’est le fait que nous sommes appelés à vivre exposés les uns aux autres, et non enfermés dans des cultures et des identités. Mais tel est aussi le cours que prend désormais notre histoire avec d’autres espèces sur cette Terre. Vivre exposés les uns aux autres suppose de reconnaître qu’une part de qui nous sommes devenus trouve son origine dans ce que la philosophe Judith Butler appelle notre vulnérabilité. Celle-ci doit être vécue et entendue comme appel à tisser des solidarités et non à se forger des ennemis.
En vérité, ce que l’on appelle l’identité n’est pas essentiel. Nous sommes tous des passants. Alors qu’émerge lentement une nouvelle conscience planétaire, la réalité d’une communauté objective de destin devrait l’emporter sur le culte de la différence.
Forces obscures et perverses
Malheureusement, le propre du moment néolibéral est de libérer toutes sortes de forces obscures et perverses que l’on était plus ou moins parvenu sinon à dompter, du moins à reléguer dans le domaine des tabous dans un passé pas très lointain. Tel est le cas du racisme, mais aussi de toutes les pulsions autoritaires dont il faut répéter qu’elles n’épargnent pas les démocraties libérales.
On ne l’a pas suffisamment fait ressortir, mais à la racine du racisme propre aux sociétés prises dans les rets du néolibéralisme se trouve la difficulté de jouir. Cela étant, les pulsions racistes sont devenues des pulsions de type libidinal.
Pour fonctionner, le racisme a besoin de la fiction selon laquelle il y aurait des corps purs, des cultures pures, du sang pur. Or, il n’existe aucun corps humain qui soit pur, diaphane. En matière de corps, de religion, de culture ou de sang, le blanc n’existe tout simplement pas. Tous les corps sont gris ocre et obscurs. Et c’est ce qui fait d’eux des corps vivants et humains, et à ce titre poreux, ouverts sur ce qui les fait vivre, sur la chair du monde.
Pour donner une nouvelle chance à la démocratie, il faudra d’une façon ou d’une autre imposer des limites au processus de financiarisation de l’existence et faire échec aux formes nouvelles de la guerre, qu’il s’agisse des guerres d’agression, d’occupation ou de pillage propres à notre époque. Il faudra d’autre part réinventer les termes de la représentation de manière telle que toutes les voix soient entendues et effectivement comptées. Si au fondement de la démocratie se trouve le principe de l’égalité, alors il faut reconnaître qu’un certain seuil d’inégalité sociale met en péril l’idée même de la démocratie.
Pour le reste, notre monde est un monde fini, qui a des limites et par conséquent n’est pas extensible à l’infini. Les humains n’en sont ni les seuls habitants ni les seuls ayants droit. Ils ne sauraient dès lors exercer sur ce monde une souveraineté illimitée. Cela étant, la véritable démocratie ne saurait être que celle des vivants dans leur ensemble.
Cette démocratie des vivants appelle un approfondissement non dans le sens de l’universel, mais dans celui de l’« en-commun », et donc dans un pacte de soin – le soin de la planète, le soin apporté à tous les habitants du monde, humains et autres qu’humains.
D’autre part, le projet de l’en-commun fait place au passant. Le passant renvoie en dernière instance à ce qui constitue notre condition commune, celle de mortel, en route vers un avenir par définition ouvert. Etre de passage, c’est cela finalement la condition humaine terrestre. Assurer, organiser et gouverner le passage et non instruire de nouvelles fermetures, telle est à mon sens la tâche de la démocratie à l’ère planétaire.