Sul website dell’Osservatorio Antisemitismo ho letto un’intervista del 3 settembre 2014 allo storico francese Georges Bensoussan, pubblicata inizialmente sul “Bollettino della Comunità Ebraica di Milano”. Mi hanno colpito, in particolare, due argomentazioni, una sulle fonti dell’attuale antisemitismo europeo, soprattutto francese, e l’altra sulla qualità dell’acculturamento odierno nell’era del web e dei socialmedia:
L’antisemitismo ha due origini diverse: una è dell’estrema destra europea che si approfitta della popolazione araba per esprimersi apertamente. E poi c’è un antisemitismo di ultra sinistra che, celandosi dietro le critiche della politica governativa israeliana, nega in realtà il diritto allo Stato ebraico di esistere. E questo è ancora più grave.
Dunque, le radici dell’antisemitismo sono tre: l’estrema destra, l’ultra sinistra antisemita e la popolazione di emigrati soprattutto tra i maghrebini, ma non tutti. Ce ne sono alcuni che non sono antisemiti, bisogna dirlo. Sfortunatamente la loro voce non si sente mai, nessuno li ascolta, nessuno li vede per strada. Tra loro ci sono alcune persone che si espongono pubblicamente, sono molto coraggiose, ma purtroppo non sono numerose e rimangono inascoltate. Ci si aspetta che qualche intellettuale arabo maghrebino alzi la voce e si rivolti contro questo antisemitismo radicato nel più profondo dello spirito.Ci sono ambiti della società in cui il livello medio culturale è in aumento; allo stesso tempo assistiamo a un “acculturamento” generale grazie a Google e Internet. Tuttavia non sono per niente convinto che ci siano generazioni più colte: al contrario, penso che lo siano di meno. Cosa sta accadendo? Che ci sarà un’élite più raffinata, che legge molto e quindi portata all’elaborazione del pensiero e alla riflessione, da un lato; dall’altro ci sarà sempre di più una massa incolta che basa tutta la sua cultura su Internet, vale a dire la cultura dell’emozione, dell’istante e dello zapping. E questo equivale a un’assenza della riflessione. Perché per riflettere bisogna leggere, prendere del tempo e confrontare i testi. La cultura presuppone la lentezza e il silenzio. E noi viviamo nella società della rapidità e del rumore.
Quindi la massa sarà sempre di più permeata da una “non-cultura”, in una società dove i pregiudizi contro gli ebrei certamente non diminuiranno. E non soltanto contro gli ebrei. Aumenteranno le società dove tutte le credenze irrazionali avranno la possibilità di espandersi e lievitare.
Soprattutto il primo tema è ulteriormente sviluppato in un’intervista che Bensoussan ha concesso a Laura Fontana: QUI (e tra i commenti di questo post).
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AGGIORNAMENTO del 15 settembre 2014:
Antonio Ferrari spiega in un servizio di “Corriere TV” il montante antisemitismo europeo: “L’allarme antisemitismo scuote l’Europa. La denuncia ad Anversa dell’inviato del dipartimento di stato americano” (6′).
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AGGIORNAMENTO del 24 settembre 2014:
Il fenomeno dell’antisemitismo magrebino in Europa probabilmente ha una certa rilevanza, se anche “Yalla Italia”, il “blog delle seconde generazioni”, ne scrive in un post intitolato Marocchini nazisti? Il colmo!, di Sara Zennaoui.
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AGGIORNAMENTO del 29 settembre 2014:
Domenico Quirico il 25 settembre 2014 ha intervistato su “La Stampa” lo storico George Bensoussan su totalitarismo islamista ed antisemitismo. Tra l’altro dice:
«Una frangia marginale della opinione pubblica europea ha simpatie naziste, ma è un fenomeno che viene esagerato. Il vero pericolo è la nascita di un antisemitismo di tipo nuovo, violento, fisico: in gran parte legato alla congiunzione di una estrema destra antisionista come la vediamo in Francia e in Belgio, non necessariamente neonazista, e di un antisionismo molto violento di estrema sinistra non legato alla critica della politica di Israele, che è totalmente legittima, ma all’esistenza dello Stato di Israele, il che è molto diverso. Ma soprattutto c’è un terzo fattore: l’immigrazione arabo musulmana in Europa, di popolamento, estremamente numerosa, che ha completamente modificato il panorama demografico del continente». Ragioni economiche o sociali non sono il motivo principale, «perché altre minoranze sono colpite dalla disoccupazione e non diventano violente. La causa economica serve come schermo per non vedere le cause più profonde, che sono due. In primo luogo un risentimento coloniale contro la Francia. Poi, l’antisemitismo nel Maghreb era molto potente ben prima dell’avvento di Israele. E vi è ancora un’altra dimensione ed è quella del Corano. Si trascura sempre di leggere il testo in arabo, lo si legge in francese o in italiano spesso in cattive traduzioni… Vi è nel Corano un antisemitismo e un anticristianesimo molto violento e per i musulmani praticanti il Corano è parola sacra, è la parola di Dio».
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INTEGRAZIONE del 24 novembre 2014:
Lo scrittore e traduttore italo-israeliano Alon Altaras spiega gli eccessi delle critiche italiane (di esponenti politici e di mass-media, soprattutto) su Israele:
“[…] Io, come intellettuale che vive fra le due culture, quella italiana e quella israeliana, noto da diverso tempo il senso critico smisurato che si usa in Italia quando si parla di Israele. Certi esponenti della sinistra radicale, come Diliberto (non so se i giovani lettori del blog se lo ricordano), dicevano “io riconosco il diritto di Israele di esistere” come fosse necessario che un politico italiano desse un sigillo di legittimità allo stato ebraico. In molte altre occasioni, per esempio nella seconda guerra del Libano (2006), si bruciavano bandiere israeliane a Milano. Non ricordo nemmeno una bandiera siriana bruciata in nessuna città italiana, e nel caso di Assad si parla di genocidio. Mi sembra umanamente ed eticamente doveroso che chi è sensibile all’occupazione israeliana dei Territori dovrebbe inorridire di fronte a un genocidio di questa portata. […] Un altro campo dove si rivela questo eccessivo senso critico verso Israele sono i commenti sui diversi giornali italiani. Comparare il sionismo all’apartheid è una cosa inacettabile. Parlare dell’esercito israeliano come simile a quello nazista o accusare Israele di “pulizia etnica” sono toni che si sono insinuati nel dibattito politico italiano che riguarda il Medio Oriente […]”
(“Israele, le facili critiche degli italiani“, in “Il Fatto Quotidiano”, 24 novembre 2014).
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Il giovane regista Ami Horowitz ha fatto un interessante esperimento all’interno dell’università americana di Berkley in California. Prima si è esibito sventolando la bandiera dell’Isis, inneggiando al Califfato e insultando gli Stati Uniti. La reazione degli studenti è stata di indifferenza, ma anche di sostegno all’Isis.
Poi si è esibito sventolando la bandiera israeliana, inneggiando a Israele e denunciando il terrorismo di Hamas. In questo caso molti passanti si sono fermati per condannare Israele ritenendosi offesi per l’esibizione della bandiera d’Israele.
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INTEGRAZIONE del 20 dicembre 2014:
Mi sembra ci siano dei punti di contatto tra il discorso di Bensoussan e questo di Jean-Loup Amselle, intervistato da “il manifesto” ieri, 19 dicembre 2014. Il celebre antropologo francese ha pubblicato un nuovo libro – “Les nouveaux rouges-bruns. Le racisme qui vient” (Editions Lignes, pp. 120, euro 14) – sulla convergenza nella politica francese – ma il discorso è europeo – tra rossi e neri, cioè tra una «destra dei valori» (ossia la difesa della famiglia, delle tradizioni di mutuo soccorso del popolo e dell’educazione tradizionale) e una «gauche de travail» (ossia la critica del liberalismo e del capitalismo). Questo avvicinamento non costituisce in sé alcuna novità perché già sperimentata nel fascismo e nel nazismo. La specificità attuale, sostiene Amselle,
«si inscrive nella congiuntura del secondo dopoguerra, segnata dalla crescente influenza delle idee dell’etno-antropologia e delle tesi postcoloniali». Attualmente, aggiunge l’antropologo, «assistiamo a una «razzizzazione» ambigua, di tipo postcoloniale che avanza anteponendo la logica dei «due pesi, due misure». Tutto questo è legato indubbiamente alla questione del conflitto israelo-palestinese e all’emergere di un nuovo antisemitismo. L’attuale giudeofobia non è infatti la prosecuzione dell’antisemitismo degli anni Trenta. E cosa ben diversa e poggia su un fatto elementare: possiamo prendercela fin che vogliamo con i musulmani senza correre alcun rischio, mentre non possiamo toccare un solo capello a un ebreo senza rischiare di incappare negli strali di qualche «lobby sionista». L’alleanza che esisteva fra le diverse minoranze etniche e religiose si è rotta poiché neri e arabo-musulmani oggi si considerano vittime delle attività di una minoranza attiva: quella della diaspora ebraica associata allo Stato d’Israele. Si stabilisce così una congiunzione fra antisemitismo, negazionismo e anti-imperialismo che ha tratti inediti. La lotta delle razze ha sostituito la lotta di classe. […] Si tratta di un fenomeno europeo, che però si può osservare quasi in ogni regione, sia nei paesi dove la prosperità economica ancora c’è – pensiamo alla Svizzera, all’Austria ma anche ai paesi scandinavi -, sia in nei paesi che sono più duramente colpiti dalla crisi: l’Italia, la Spagna, la Francia o la Grecia. Intendiamoci, però: non si tratta però di antagonismo fra «i bianchi» e gli altri, ma di un antagonismo fra coloro che si erano anticamente stabiliti su quei territori e i nuovi arrivati, siano questi ultimi europei o non europei. Questo spiega anche il fortissimo razzismo e l’ostilità nei confronti dei rom che, benché siano europei, sono ostracizzati come i maghrebini. L’onda nuova del populismo si spiega a mio avviso cogliendo questa dinamica». «Il razzismo procede esattamente seguendo questa logica: imputazione di gruppo, negazione costante della esistenza degli individui. Oggi siamo dentro questa logica, sia quando pratichiamo odio sia quando affermiamo amore». In questo quadro i massmedia giocano un ruolo capitale, «sono corresponsabili dell’avanzare del nuovo populismo e dell’estrema destra, perché ciò che amano, questi media, sono i personaggi «ibridi», i rosso-neri appunto. Amano il filosofo provinciale, pensiamo a Michéa o Onfray, il nero antisemita, come Dieudonné, o l’ebreo razzista, è il caso di Eric Zemmour. Amano tutto ciò che è in grado di confondere e offuscare le categorie e le opposizioni politiche».
L’intera intervista, raccolta da Marco Dotti, è qui: I chierici rosso-bruni di Jean-Loup Amselle.
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INTEGRAZIONE del 5 gennaio 2015:
In occasione della morte di Ulrich Beck, ho recuperato un’intervista del 29 luglio 2014 che avevo perso. Nel dialogo con Andrea Tarquini, il sociologo tedesco disse:
«Ora spunta un’altra incapacità, quella di distinguere. Noi – tedeschi e molti europei – equipariamo gli ebrei tedeschi, francesi, italiani agli israeliani: all’improvviso i vicini tornano ebrei, quindi stranieri. Questo equiparare ogni ebreo a un israeliano e ogni israeliano a un killer di palestinesi, è lo sfondo della nuova ondata d’antisemitismo. […] In Francia in particolare si parla di nuovo antisemitismo. La novità è la globalizzazione del conflitto in Palestina: si svolge anche a Parigi, Berlino, Roma. C’è l’antisemitismo delle sinistre, quello dei migranti, quello di chi nei paesi d’arrivo vive svantaggi e sente le radici religiose dei paesi d’origine. Tutto ciò produce violenza: è la globalizzazione del conflitto. […] L’arrivo del conflitto nelle città europee è una minaccia violenta: una intifada in Francia non è più da escludere, e sveglia in molti ebrei i peggiori ricordi. Si sentono come stranieri non amati, europei degradati a stranieri, stranieri nel loro paese. […] All’insopportabile acutizzazione della violenza in Medio Oriente si risponde con proteste antisemite, di una nuova qualità: nel mondo globale l’antisemitismo ha una nuova infiammabilità. E il silenzio degli intellettuali europei risulta dall’incapacità di differenziare, tra critica a Israele e chiaro impegno contro l’antisemitismo e per i valori europei, accettati anche dai cittadini europei ebrei e critici di Israele. Se accettiamo questa differenziazione, è possibile criticare da una prospettiva europea l’ossessione militare del governo israeliano e l’orribile antisemitismo militante di Hamas. Se la critica si azzoppa, diventa difficile giudicare senza cadere nella trappola dell’antisemitismo».
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INTEGRAZIONE del 16 febbraio 2015:
A Copenaghen c’è stato un doppio attacco armato, contro un vignettista e contro una sinagoga. Su “La Stampa” Roberto Toscano ha scritto l’editoriale “Aprirsi all’altro Islam“, da cui estrapolo i passaggi seguenti:
“[…] E poi, questo discorso su offesa e blasfemia può essere fuorviante, se pensiamo che sia a Parigi che a Copenaghen sono stati presi contestualmente di mira non soltanto i blasfemi caricaturisti, ma anche gli ebrei – ancora una volta colpiti, come tante volte nella storia, per quello che sono piuttosto che per quello che fanno. […] Sorge anche un’altra domanda: chi sono i terroristi e cosa li ispira? Negli ultimi tempi è capitato spesso di sentir dire che gli attentatori «non sono musulmani», ma solamente pazzi criminali. Lasciamo che a questa affermazione risponda la dichiarazione di un gruppo di intellettuali musulmani (fra cui Tariq Ramadan, un moderato ma pur sempre islamico, se non islamista): «Affermare che gli atti terroristi commessi in nome dell’islam non hanno niente a che vedere con la religione è come dire che le crociate non avevano niente a che vedere con il cristianesimo». […] Il fatto è che le religioni non possono pretendere di essere giudicate soltanto sulla base dei principi dei loro fondatori e dei loro testi sacri, e non sul comportamento dei loro fedeli e sul concreto impatto sulle società in cui si radicano. Come dice il Vangelo, «dai loro frutti li riconoscerete». Tutte le religioni, tutte le ideologie politiche, possono avere versioni intolleranti e anche violente. Versioni che – con una definizione forse storicamente impropria ma politicamente centrata – si possono definire come «fasciste» […].
Intanto in Francia, a Sarre-Union nel Basso Reno, nell’est del Paese, sono state profanate trecento tombe in cimitero ebraico. Il ministro dell’Interno Cazeneuve ha dichiarato: «La Repubblica non tollererà questa ferita»; il Primo Ministro Valls ha aggiunto: «l’unità deve essere la nostra forza per combattere l’islamofascismo».
Infine, a esemplificazione dell’antisemitismo dilagante in Francia, la testata “NRG” ha filmato la passeggiata di un uomo con kippah per le strade di Parigi:
Di filmati del genere se ne vedono spesso (sul sessismo, sul razzismo e così via). Vanno presi con cautela perché il montaggio può far dire di tutto e girarli in certe zone invece che altre può fuorviare la percezione generale; tuttavia resta la testimonianza che determinate reazioni esistono, oggi, nel 2015, a Parigi, in Francia, in Europa.
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APPROFONDIMENTO del 16 febbraio 2015:
I termini “islamofascismo” o “nazislam” sono controversi e sicuramente il loro uso è spesso improprio da parte di molti. Christian Rocca ne scrisse nel 2005 sul “Foglio” intervistando Christopher Hitchens, uno dei primi ad usare l’analogia tra fondamentalismo islamico e ideologia nazifascista: “Hitchens spiega l’islamofascismo e la mollezza della sinistra” (ora in “Camillo blog”, 11 dicembre 2005):
“[…] Il radicalismo islamista e il fascismo nazionalista, nella definizione di Hitchens, coincidono: “Condividono il culto del leader e il culto della morte che in qualche caso è positivo perché autodistruttivo”. Secondo Hitch, “sono entrambe ideologie irrazionali, estremamente violente, caratterizzate da un odio fanatico verso il popolo ebraico e volte a ricreare un glorioso passato perduto: il califfato”. Insieme con Paul Berman, Hitchens è l’unico intellettuale di sinistra ad aver notato come la settimana scorsa, con un solo gesto e con una sola frase, Saddam Hussein abbia confermato questa identità ideologica quando al suo processo, col Corano in mano, si è paragonato orgogliosamente a Mussolini e alla resistenza dei repubblichini di Salò nei confronti dell’occupazione militare alleata che liberò l’Italia dal nazifascismo […]”.
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INTEGRAZIONI del 18 febbraio 2015:
Tahar Ben Jelloun ha scritto un editoriale su “Libération” molto interessante. Ad un certo punto parla degli eccidi di Parigi e Copenaghen, compiuti da europei, figli di immigrati, che riproducono sempre lo stesso schema: prima un attacco alla libertà d’espressione e poi agli ebrei, con “lo stesso odio, la stessa ignoranza, la stessa volontà di fare dell’islam una religione sanguinosa“. Parallelamente, tutti gli aggressori hanno anche un percorso esistenziale simile:
“délinquance, agressions, prison, radicalisation entre-temps, libération, et là le nerf de la vengeance comme le nerf d’entrer dans une célébrité de quelques minutes ont poussé cet individu à faire le malheur. Cette soif du Mal n’arrive pas comme une fièvre soudaine. Elle a été préparée par tout un environnement marqué par une sous-culture où les images vidéo ont joué un rôle important”.
Il website “Osservatorio Antisemitismo” ha estrapolato tre brani ad altrettante interviste ad esperti sull’antisemitismo contemporaneo in Europa, pubblicate sulla stampa italiana:
Sul “Giornale” Sergio Della Pergola analizza intanto i flussi migratori dall’Europa verso Israele e si chiede: “Dove va l’Europa? Se crescerà e si integrerà, gli ebrei resteranno. Ma se l’Ue fallisce e si spacca, oppure se si arriva a un’islamizzazione furibonda, allora non ci sarà più spazio per gli ebrei. A oggi la risposta non è molto chiara” [fonte].
Michel Wieviorka, direttore dell’École des Hautes études en sciences sociales e specialista di antisemitismo dice al “Fatto Quotidiano” che: “Da 20-25 anni, l’odio per gli ebrei cresce in popolazione venute del mondo arabo e musulmano che, spesso su uno sfondo di esclusione e discriminazione, si identificano con la causa palestinese o con l’Islam in urto con l’Occidente. Si diffonde anche l’idea che gli ebrei sono più protetti, che hanno più diritto di altri popoli alla compassione e questo genera un senso di ingiustizia. E poi c’è la nuova cultura di internet, dove tutto pub essere detto. L’odio dell’ebreo si incarna in chi vuole mettere dei limiti alla libertà di opinione. Essa si sviluppa soprattutto nei paesi dove le élite sono screditate, i politici, i giornalisti, gli insegnanti. Ed è il caso della Francia” [fonte].
Rav Melchior, a “Repubblica”: “Gli ebrei danesi non se ne vanno”. “È impensabile che uno si debba trasferire in Israele per paura. Nessuno ha il diritto di dirci e decidere dove dobbiamo andare: e mi riferisco ovviamente ai terroristi. Se decidi di ritornare in Israele deve essere per motivi religiosi, per il sionismo. Come hanno fatto per esempio i miei genitori. Sono tornati guidati dalla passione, dalla fede, dall’amore. Non per paura”. È quanto afferma il rabbino capo di Danimarca Jair Melchior in una intervista a Repubblica. A proposito dell’appello rivolto agli ebrei d’Europa dal primo ministro Benjamin Netanyahu Melchior rileva: “In un momento come questo, non mi è sembrato un appello opportuno” [fonte].
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AGGIORNAMENTO del 19 marzo 2015:
Il 13 marzo un lettore del “CorSera” ha chiesto a Sergio Romano di spiegare perché l’antisemitismo sta aumentando in Europa; l’editorialista ha risposto così. Pochi giorni dopo, Amit Zarouk, consigliere dell’Ambasciata d’Israele in Italia, ha contro-risposto a Romano, così.
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INTEGRAZIONE del 19 aprile 2016:
Su “Rivista Studio” Anna Momigliano racconta di una certa difficoltà della sinistra inglese nei confronti degli ebrei, segnale di una particolare concezione del razzismo, ancorato ad una visione data di tale fenomeno, dipendente cioè da una dicotomia tra “potere” e “oppressione” (in quest’ottica, “Il razzismo dunque è principalmente lo strumento con cui una maggioranza al potere, il centro egemonico, cerca di impedire l’emancipazione di una minoranza emarginata, socialmente ed economicamente. È l’insieme dei meccanismi che rendono più difficile che un ragazzo di colore diventare medico o ingegnere, perché ha accesso a delle scuole più scadenti e perché ospedali e studi legali sono meno inclini ad assumere personale di colore“).
Il razzismo, però, è qualcosa di più ampio, per cui una minoranza può essere perseguitata pur non essendo discriminata: “che il razzismo possa essere anche una questione di semplice odio e non soltanto di oppressione, può essere difficile da metabolizzare (tant’è vero che sebbene “Non [risulti] che gli ebrei siano marginalizzati, svantaggiati nel mondo del lavoro o degli studi […], risulta però che, ogni tanto, gli ebrei vengano insultati – e in qualche raro caso, com’è accaduto Parigi, a Tolosa e a Bruxelles, persino ammazzati – per il loro essere ebrei“).
“Osservatorio Antisemitismo”, 3 settembre 2014, QUI
Georges Bensoussan racconta il nuovo antisemitismo contemporaneo e i suoi molteplici volti
Fonte: Bollettino della Comunità Ebraica di Milano – CRIF
ANTISEMITISMO, UNA PASSIONE COSI’ EUROPEA, COSI’ AVVELENATA
Georges Bensoussan, classe 1952 è nato in Marocco e vive in Francia. Tra i più noti studiosi europei dell’antisemitismo e della Shoah, è impegnato su diversi fronti che vanno dalla scrittura (è autore di libri importanti, tra cui Il Sionismo, una storia politica e intellettuale, Einaudi; Genocidio, una passione europea, Marsilio; Israele, un nome eterno…, Utet) fino alla responsabilità editoriale del Mémorial de la Shoah di Parigi alla direzione della Revue d’histoire de la Shoah. Ospite del Festival di Cultura Ebraica, Jewish and the City, anticipa in questa intervista la sua riflessione sulle parole del Festival: “Liberazione e Libertà”, parole indissolubilmente legate al destino del popolo ebraico.
L’antisemitismo è più vivo che mai, in Francia, in Europa, in Medio Oriente e non ultimo in Nord Africa. Roman Polanski sta per girare un film paradigmatico sul famosissimo Affaire Dreyfus, dal romanzo di Robert Harris, un caso che divenne simbolo dell’odio nascente per gli ebrei e che riporta la questione in primo piano. Un ritorno quindi dell’antisemitismo, oggi come allora?
Indubbiamente c’è, in Francia e non solo. Non si tratta tuttavia del vecchio antisemitismo dell’Affaire Dreyfus, ma di qualcosa di molto diverso, un antisemitismo nuovo importato dalla popolazione di origine maghrebina che non sa nulla del passato. Non da tutta la popolazione, ma in gran parte. Succede in Francia, in Belgio, nei Paesi Bassi, in Olanda e non solo, in tutti quei Paesi dove la presenza maghrebina è alta. Pensiamo solo a quanto è appena successo in Francia: il 12 luglio degli jihadisti, armati di spranghe di ferro e mazze da baseball hanno presidiato una sinagoga al grido minaccioso di: “Morte agli ebrei. Hitler aveva ragione”.
La Francia resta comunque un caso unico in Europa. È il risultato di un flusso migratorio venuto dal Maghreb e di un indebolimento dello Stato. Lo stesso fenomeno non si riscontra per esempio in Germania, dove ci sono molti turchi. Là invece, dove si registra una forte presenza maghrebina, si può star certi che l’antisemitismo è violento. Non è legato soltanto al conflitto arabo-israeliano, bensì alla tradizione culturale del Maghreb.
Attualmente ci sono molto ebrei nel Maghreb?
Non ce ne sono praticamente più, in tutto saranno circa 5.000, per due ragioni: la prima ragione, più superficiale e più accreditata, è a causa del conflitto arabo-israeliano che di fatto ha aggravato il problema. La ragione più profonda non ha tuttavia niente a che vedere con questo conflitto. Il problema esisteva già molto prima che si parlasse di antisemitismo e prima ancora dello Stato d’Israele. Soprattutto in Marocco.
Secondo lei l’odio nei confronti degli ebrei è in aumento in considerazione di quanto accade attualmente in Israele e a Gaza?
Aumenterà sempre di più. È evidente che quando Israele difende i suoi cittadini dai missili, l’antisemitismo si ripresenta ogni volta in modo estremamente violento. Va però precisato che l’antisemitismo ha due origini diverse: una è dell’estrema destra europea che si approfitta della popolazione araba per esprimersi apertamente. E poi c’è un antisemitismo di ultra sinistra che, celandosi dietro le critiche della politica governativa israeliana, nega in realtà il diritto allo Stato ebraico di esistere. E questo è ancora più grave.
Dunque, le radici dell’antisemitismo sono tre: l’estrema destra, l’ultra sinistra antisemita e la popolazione di emigrati soprattutto tra i maghrebini, ma non tutti. Ce ne sono alcuni che non sono antisemiti, bisogna dirlo. Sfortunatamente la loro voce non si sente mai, nessuno li ascolta, nessuno li vede per strada. Tra loro ci sono alcune persone che si espongono pubblicamente, sono molto coraggiose, ma purtroppo non sono numerose e rimangono inascoltate. Ci si aspetta che qualche intellettuale arabo maghrebino alzi la voce e si rivolti contro questo antisemitismo radicato nel più profondo dello spirito.
Le nuove generazioni, grazie a una maggiore cultura, saranno più pronte a lottare contro i pregiudizi e gli stereotipi nei confronti degli ebrei?
Ci sono ambiti della società in cui il livello medio culturale è in aumento; allo stesso tempo assistiamo a un “acculturamento” generale grazie a Google e Internet. Tuttavia non sono per niente convinto che ci siano generazioni più colte: al contrario, penso che lo siano di meno. Cosa sta accadendo? Che ci sarà un’élite più raffinata, che legge molto e quindi portata all’elaborazione del pensiero e alla riflessione, da un lato; dall’altro ci sarà sempre di più una massa incolta che basa tutta la sua cultura su Internet, vale a dire la cultura dell’emozione, dell’istante e dello zapping. E questo equivale a un’assenza della riflessione. Perché per riflettere bisogna leggere, prendere del tempo e confrontare i testi. La cultura presuppone la lentezza e il silenzio. E noi viviamo nella società della rapidità e del rumore.
Quindi la massa sarà sempre di più permeata da una “non-cultura”, in una società dove i pregiudizi contro gli ebrei certamente non diminuiranno. E non soltanto contro gli ebrei. Aumenteranno le società dove tutte le credenze irrazionali avranno la possibilità di espandersi e lievitare.
Secondo lei i media europei hanno la tendenza ad amplificare le sofferenze del popolo palestinese e a mettere in secondo piano i pericoli e le difficoltà degli ebrei in Israele?
Sì, è così. Quello che per esempio è successo in luglio a Gaza è la risposta degli israeliani al fatto che nei mesi tra gennaio e giugno hanno ricevuto 84 missili sul territorio.
Nessun Paese al mondo accetterebbe di vedere i propri cittadini costretti a ripararsi nei rifugi. Proviamo a immaginare semplicemente degli italiani a Padova, Mantova, Venezia, Milano, Torino o altrove, obbligati all’improvviso a interrompere le loro attività quotidiane e correre verso la metropolitana per rifugiarsi da qualche parte. Nessun italiano sopporterebbe tutto questo per più di due giorni e chiederebbe all’esercito di intervenire. Dunque Israele ha il diritto morale di difendere i suoi cittadini in tutti i modi. Il rimprovero che viene mosso a Israele è di essere troppo forte, si amerebbe di più che Israele fosse debole.
Nello stesso modo, si amano gli ebrei morti e si detestano quelli vivi. Ma non ho risposto alla sua domanda: è vero che i media, in generale, tendono ad amplificare le sofferenze dei palestinesi e a considerare Israele sempre come quello forte e aggressivo. Anche qui ci sono molte risposte: se Israele non fosse stato forte oggi Israele non esisterebbe. È molto semplice. Se l’esercito israeliano non fosse stato il più agguerrito, Israele sarebbe stato cancellato dalla cartina geografica perché il mondo arabo ha un progetto genocida nei confronti di Israele, non vuole riconoscere il suo diritto di esistere. Per quanto riguarda i media, soprattutto quelli di sinistra, hanno sempre cercato una figura che rappresentasse il Bene e il Giusto sulla terra: una volta era il proletariato per il comunismo; dopo erano Cuba, il Vietnam e così via, tutti i luoghi che rappresentavano i poveri e gli oppressi sulla terra. Oggi è la Palestina a rappresentare l’oppressione sulla terra. Questa è la prima ragione. La seconda è la colpevolizzazione della Shoah. Se si riesce a dimostrare che gli israeliani si comportano come i nazisti, allora la colpa degli europei viene cancellata.
Gli ebrei della Diaspora devono avere paura?
Assolutamente no. Bisogna far sentire, a qualunque costo, la propria voce, combattere contro i pregiudizi e le situazioni avvelenate. Farsi prendere dalla paura equivale a perdersi. È una questione psicologica. La propaganda araba del genocidio nei confronti degli ebrei va fermata. La maggior parte degli israeliani ha condannato l’uccisione del giovane palestinese, mentre la maggior parte degli arabi hanno esultato per l’uccisione dei tre ragazzi israeliani. Non c’è altro da dire.
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Conseil Représentatif des Institutions juives de France – CRIF
GEORGES BENSOUSSAN : « JAMAIS NOUS N’AVIONS VU UN TEL DECHAINEMENT DE VIOLENCE PHYSIQUE ET DE LIBERATION DE LA PAROLE ANTISEMITE EN FRANCE »
Georges Bensoussan a notamment publié sous sa direction « Les territoires perdus de la République ». L’historien, auteur en 2012 de « Juifs en pays arabes. Le grand déracinement 1850-1975 », souligne les racines culturelles et politiques de l’antijudaïsme contemporain en France.
Georges Bensoussan : C’est un antisémitisme culturel, d’origine maghrébine, très ancien et antérieur à la colonisation. Il est relatif à la condition de dhimmi, une condition inférieure marquée souvent par l’humiliation et la violence. Contrairement à la légende, il n’y a jamais eu de véritable lune de miel entre Juifs et Arabes et ce n’est pas l’Etat d’Israël qui l’a rompue. Il y eut certes des périodes de coexistence mais toujours marquées par un sentiment d’anxiété.
En revanche, il est vrai que la colonisation française a aggravé le ressentiment arabe contre les Juifs. En Algérie surtout, la colonisation a renforcé le ressentiment antijuif de la population car du jour au lendemain les Juifs ont été faits français par le décret Crémieux. En conséquence, le Juif, qui fut toujours une figure d’opprimé dans le monde maghrébin, devenait d’un seul coup un supérieur. Cela a constitué une source de colère et de frustration. Cette émancipation du Juif a profondément insupporté ce que j’appelle « l’économie psychique du monde arabo-musulman », parce que le dominant n’accepte jamais l’émancipation du dominé.
Les populations du Maghreb, venues très nombreuses et qui ont parfois et jusqu’aujourd’hui connu de gros problèmes d’intégration, ont vu dans l’émancipation du signe juif, dans l’intégration des Juifs à la société française, tout ce qui pouvait aggraver leur ressentiment. Ce facteur-là n’est pas assez pris en compte par les médias occidentaux qui ignorent cette histoire de longue durée.
L’Etat français peut-il être dépassé par cet antisémitisme populaire ?
L’appareil d’Etat est irréprochable. Du côté de l’opposition, Bruno Le Maire parmi d’autres l’est également. Mais les responsables politiques prennent en charge le problème très tard, surtout à gauche. Aujourd’hui on peut craindre qu’il ne soit trop tard tant la violence est installée et la population d’origine maghrébine nombreuse. La grande crainte des politiques, c’est la résurgence des émeutes de 2005 et la crainte d’une nouvelle guérilla urbaine. Ils font de nombreux efforts pour contrer la violence antijuive, mais il faut savoir aussi que dans ces situations difficiles, la lâcheté n’a jamais assuré la paix civile.
Or une grande partie des élites politiques et surtout médiatiques craint de nommer les choses, en particulier quand elle évoque des « incidents de fin de manifestation » à propos des tentatives de pogrom rue de la Roquette, à Sarcelles et rue des Rosiers.
La situation des Juifs de France est-elle en partie comparable à ce qu’ont vécu les Juifs des pays arabes au milieu du XXe siècle ?
Non, ce n’est pas comparable. Dans les pays arabes, ce sont aussi les appareils d’Etat qui ont fait partir sournoisement les Juifs, en les poussant peu à peu au départ. En France, en revanche, la société commence à prendre en compte ce qui se passe et l’appareil d’Etat est solidaire. Mais ce qui s’est passé en juillet peut parfaitement être compris comme un signal, en particulier pour la population la plus jeune, je pense en particulier aux jeunes parents.
Une ligne rouge a été franchie. A cinq reprises en deux semaines, on a assisté à des tentatives de mini-pogroms en France. Jamais nous n’avions vu un tel déchaînement de violence physique auquel a participé la libération de la parole antisémite. Une libération qui, stimulée par l’extrême droite – Soral, Dieudonné, Jean-Marie Le Pen – permet de faire tomber les derniers tabous nés de la Seconde Guerre mondiale.
La cause palestinienne semble la seule pour laquelle les Français d’origine maghrébine descendent défiler. Or d’autres causes arabes pourraient mobiliser, mais celle-ci est la seule dans laquelle ils affrontent des Juifs. Or dans l’économie psychique de ce monde, le Juif est toujours marqué par l’infériorité et la soumission, et son émancipation bouscule son schéma mental. A fortiori avec l’Etat d’Israël.
«L’antisémitisme dans les banlieues est devenu aujourd’hui un code culturel»
Existe-t-il dans le monde ashkénaze des précédents historiques qui rappelleraient notre situation ?
Si l’on prend l’exemple de l’antisémitisme russe du tournant du XIX-XXe siècle, l’attitude de l’Etat y était nettement différente. Le déchaînement russe a été favorisé par la police et le pouvoir. En France, le déchaînement est aujourd’hui autonome et tient à la massivité de la population d’origine maghrébine dont le ressentiment se cristallise sur la Palestine. La violence, elle, est le fait d’une minorité dangereuse et active.
En revanche, du côté des émeutiers, les ressemblances sont nombreuses. Beaucoup de ceux qui cassent sont en situation d’échec social, habités par un profond ressentiment et portés par une frustration typique du lumpenprolétariat. C’est le profil de ceux qui ont constitué en Allemagne les S.A., des casseurs, des voyous qui donnent une couleur politique à leur frustration. On nous dit qu’ils ne sont qu’une minorité, mais ce sont précisément les minorités qui sont toujours à l’origine des violences.
L’antisémitisme dans les banlieues est devenu aujourd’hui un code culturel comme il l’était au XIXe siècle en France. Mais c’est aussi un code d’intégration culturelle car les émeutiers antijuifs comme on l’a vu à Sarcelles ne sont pas forcément d’origine maghrébine. La population immigrée en échec d’intégration, au chômage, s’est coulée dans le moule de l’antijudaïsme maghrébin et voit dans le signe juif le signe de la réussite, de l’argent, mais aussi d’une modernité qui la fascine et qu’elle déteste en même temps (je pense à l’émancipation des femmes).
Est-ce que cet antisémitisme populaire pourrait prendre des formes encore plus radicales dans notre pays ?
Oui. Nous ne sommes qu’au début d’un processus. La pesanteur démographique est du côté des émeutiers qui ont pour eux le nombre, qui savent qu’ils font peur et que dans ce pays le principe d’autorité même est de plus en plus contesté.
Mais l’erreur des Juifs est de croire qu’ils sont enfermés dans un tête-à-tête avec ces extrémistes. Alors que la majorité de la population française se montre au contraire inquiète par cette évolution qui ne concerne pas les Juifs seuls. En effet, ce que cette masse silencieuse sent confusément, c’est que lorsque vous remplacez un drapeau français par un drapeau algérien comme à la suite des matchs de l’Algérie au mois de juin, c’est l’idée même de France qui est menacée.
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“Osservatorio Antisemitismo”, 18 agosto 2014, QUI
Intervista esclusiva a Georges Bensoussan di Laura Fontana
L’ANTISEMITISMO CONTEMPORANEO DOPO AUSCHWITZ: UN “NUOVO” CODICE CULTURALE EUROPEO?
Storico francese di livello internazionale, responsabile editoriale del Mémorial de la shoah, Georges Bensoussan è autore di numerosi saggi sulla memoria della shoah, sull’antisemitismo, sul sionismo e su Israele. Nel 2012 ha pubblicato “Juifs en pays arabes. Le grand déracinement 1850-1975” (Ebrei nei paesi arabi. Il grande sradicamento 1850-1975, edizione originale per Tallandier) in cui ha ricostruito la storia della dissoluzione, nel giro di una sola generazione, delle antiche comunità ebraiche installate in tutto il Nord Africa e nel Vicino e Medio Oriente. Un poderoso e documentato studio per narrare la distruzione di un mondo segnato da una secolare condizione di inferiorità umiliante, a cui si devono un insieme di fattori diversi, come la decolonizzazione, la nascita dello Stato di Israele, le condizioni di vita sempre più precarie e il radicarsi dell’ostilità arabo-musulmana. Un capitolo di storia ancora poco trattato e di cui, pertanto, non si conosce quasi nulla. Eppure si tratta di vicende che hanno molto da insegnarci sulla convivenza nel passato tra ebrei ed arabi, ma anche per aiutarci a leggere il contesto dell’antisemitismo contemporaneo in molti paesi occidentali – tra cui la Francia – in cui proprio quel passato sembra incidere con tutta la sua forza.
L.F. Negli ultimi mesi la stampa internazionale ha riportato il verificarsi di episodi sempre più gravidi violenza e odio nei confronti degli ebrei in molti paesi europei, dalla Francia alla Germania, dal Belgio alla Svizzera e, in minore misura, in Italia. Si tratta di manifestazioni apertamente antisemite, caratterizzate sia dalla violenza fisica che da una retorica molto aggressiva ed espressa in una generale caduta dei freni inibitori, in cui ricompare una giudeofobia dal volto conosciuto, mista però a qualcosa che non sempre riusciamo a decifrare e comprendere. Una miscela esplosiva di odio per gli ebrei che sembra auto-alimentarsi dall’ondata emotiva di reazioni inerenti la recente guerra a Gaza – in cui la protesta per le bombe e per i civili uccisi nel conflitto ha tirato in ballo Auschwitz e l’equazione Israele-nazismo -, ma anche dalla crescita di atteggiamenti sempre più intransigenti e violenti nei confronti delle minoranze di buona parte del mondo arabo musulmano dominato dall’islamismo (lo dimostra ciò che sta accadendo in paesi come la Siria, l’Irak, la Nigeria) e, infine, dalla rabbia delle giovani generazioni di immigrati di origine magrebina che popolano le banlieues delle grandi metropoli occidentali.
Professor Bensoussan può aiutarci a comprendere cosa sta accadendo? Siamo di fronte a un aggravarsi del fenomeno dell’antisemitismo o alle prese con un nuovo antisemitismo di matrice arabo-musulmana, importato in Europa sulla scia del conflitto in Medio Oriente?
Mi riferirò soprattutto alla Francia, paese in cui vivo e di cui conosco meglio la storia e le vicende. Innanzitutto la Francia non è un paese antisemita e l’antisemitismo tradizionale di Vichy e dell’estrema destra è oggi in declino. Ma indubbiamente siamo confrontati a una forma di antisemitismo che possiede uno stretto legame con l’immigrazione magrebina. Per una buona ricostruzione storica occorre sempre tenere conto anche dello sviluppo demografico e non è possibile comprendere la Francia contemporanea senza riferirsi alla sua storia culturale e antropologica, dopo l’ondata immigratoria che ha conosciuto negli ultimi decenni, dall’Africa del Nord e dall’Africa sub sahariana.
Credo, tuttavia, che non sia corretto parlare di importazione in Occidente del conflitto araboisraeliano per spiegare ciò che sta accadendo. Se indubbiamente i recenti fatti di Gaza – e più a lungo raggio le guerre che dal 1948 a oggi si sono succedute in Medio Oriente – hanno ravvivato la scintilla dell’odio, non l’hanno però originato.
Il mondo arabo è lacerato da tante conflittualità e tensioni. Eppure sono solamente Gaza e la Palestina a motivare la gente a scendere nelle piazze e a manifestare con passione. Poi, a ben guardare, la maggioranza dei manifestanti qui in Francia è di origine magrebina, ma non ha alcun legame biologico con la Palestina. Sono persone più vicine per cultura e origini all’Algeria, per esempio. Ciò nonostante, non si era mai assistito a manifestazioni di questa portata nemmeno all’epoca della guerra civile algerina degli anni Novanta. Il problema di fondo è che abbiamo importato sì un antisemitismo culturale di origine maghrebina, ma molto più antico e precedente alla colonizzazione, ovvero già esistente per secoli, in forme e livelli diversi, in tutto il Nord Africa e Medio Oriente.
Dove dobbiamo allora individuarne l’origine?
Bisogna ricostruire l’economia psichica del mondo arabo-musulmano, basata sulla sottomissione e sull’oppressione e all’interno della quale l’ebreo è sempre stato contrassegnato dalla condizione di “dhimmi”, una condizione di inferiorità segnata dall’umiliazione e dalla violenza. La dhimmitudine entrò in crisi nel corso dell’Ottocento con l’ingresso del mondo ebraico nella cultura illuminista e poi con l’incontro con la colonizzazione europea che permise agli ebrei arabi di raggiungere la modernità culturale e in molti casi anche un reale benessere economico. L’emancipazione, anche se spesso parziale, e l’elevazione dell’ebreo da essere sottomesso e appena tollerato a essere dotato di diritti e libertà, ha aggravato il risentimento della popolazione araba nei confronti degli ebrei, attizzando la rivalità, la collera e la frustrazione della popolazione locale. Il clima si è quindi fatto incandescente a seguito del fenomeno della decolonizzazione che ha portato con sé un ritorno aggressivo alla politica di oppressione da parte araba, unita a minacce, misure di espropriazione e discriminazioni umilianti. La conseguenza di tutto ciò è stato un lento ma inesorabile esodo degli ebrei arabi da quei paesi che nel giro di pochi decenni si sono letteralmente spopolati. Se nel 1945 oltre un milione di ebrei vivevano in Marocco, in Tunisia, nello Yemen, in Turchia, in Irak, in Egitto, oggi ne restano a malapena poche migliaia. La maggioranza ha scelto l’esilio o la fuga, per paura e per disperazione.
Allora qual è il legame tra queste vicende e le sorti attuali della Palestina?
La Palestina cristallizza la frustrazione degli arabi. Gli ebrei, che peraltro in Francia hanno raggiunto un grande livello di integrazione e di riuscita sociale, sono visti dai cittadini di origine magrebina o dagli immigrati arabi come rivali, come responsabili di tutti i loro problemi e in genere di tutti i mali della società moderna. Logicamente non sarebbe giusto generalizzare, ma la tendenza è questa. D’altro canto, l’islamizzazione di una parte della gioventù magrebina ha svolto un ruolo determinante nella radicalizzazione dell’odio per gli ebrei. Alcuni responsabili delle comunità, come il rettore della Grande moschea di Parigi Dalil Boubakeur, l’antropologo Malek Chobel o lo scrittore Abdelwahab Meddeb, lo hanno denunciato a chiare parole, ma restano voci isolate del mondo arabo. C’era già stata un’accentuazione del problema all’epoca della prima guerra del Golfo nel 1991 e i sociologi ci avevano messo in guardia, ma nessuno li ha presi sul serio. Oggi tutti pretendono di dare facili spiegazioni a quanto accade senza risalire alle origini e senza tener conto della demografia di un paese.
Perché la situazione in Francia appare più grave che altrove in Europa? Lo scorso luglio a Sarcelles, alla periferia parigina, ma anche in altre occasioni sia nella capitale che in altre città francesi abbiamo assistito a scene di inaudita violenza pubblica, con manifestanti che lanciavano molotov contro la sinagoga e urlavano “Allah è grande! Morte agli ebrei!”. Siamo di fronte a una situazione dalle proporzioni allarmanti?
Oggi la comunità ebraica francese rappresenta lo 0,7% della popolazione. Secondo le statistiche del Ministero degli Interni, essa è oggetto della metà delle aggressioni e degli atti razzisti e violenze fisiche che vengono commessi. Mi pare che la sproporzione tra queste cifre sia evidente e in sé allarmante. La violenza è diventata un fatto ricorrente e quasi banale purtroppo. Inoltre l’antisemitismo è oggi assunto a una sorta di codice culturale di integrazione delle minoranze immigrate. Ma va detto che violenze razziste e antisemitismo non derivano né dall’intera comunità araba, né dai soli magrebini immigrati in Francia, perché sono matrice comune di gran parte dell’immigrazione, soprattutto giovane anagraficamente, che popola le nostre periferie. Confrontati al problema della disoccupazione e di un’integrazione sociale e culturale non facile, buona parte di questi giovani immigrati tendono a identificare nell’ebreo la riuscita sociale, il benessere economico e quella modernità che da un lato li affascina e dall’altro li ripugna profondamente (penso in particolare alla questione dell’emancipazione femminile). Sebbene le autorità francesi facciano di tutto per reagire e condannare tali violenze, spesso il problema viene affrontato troppo tardi, senza cercare di capirne le origini e motivazioni, ma soprattutto senza il coraggio di andare a fondo nell’analisi. Perché non si può negare che buona parte delle élite politiche e degli organi di informazione temono di nominare le cose col loro nome, anche in ragione delle proporzioni numeriche della popolazione maghrebina o di origine arabomusulmana. Si preferisce allora parlare genericamente di violenze razziste o di tensioni violente tra minoranze e comunità, come se anche gli ebrei andassero in giro ad attaccare le moschee o a insultare i musulmani, occultando il fatto che sono essenzialmente vittime di attacchi e aggressioni e non gli artefici di analoghi atti.
Quindi pensa che oggi gli ebrei francesi siano in pericolo?
In parte certamente sì, anche se la situazione è diversa da regione a regione ovviamente. In Francia diventa pericoloso per gli ebrei portare segni identitari come la kippa, molte giovani coppie non osano più iscrivere i propri figli alla scuola pubblica. E basta osservare le stime delle emigrazioni per Israele, quasi 5.000 fino ad oggi nel 2014 (500 solo nel mese di luglio), rispetto a 1900 nel 2012 e appena 1000 alla fine degli anni Novanta. È stato oltrepassato un punto di non ritorno con 5 tentativi di mini pogrom in quindici giorni e centinaia di aggressioni fisiche e verbali negli ultimi due anni. Niente ci aveva preparato a una tale escalation di violenza fisica e a una tale liberalizzazione della parola antisemita. Liberazione che è stata stimolata da personaggi dell’estrema destra come Soral, Dieudonné e certamente Jean-Marie Le Pen e che ha permesso di far cadere il tabù del “dopo Auschwitz”. Se pensavamo che l’antisemitismo fosse morto nella shoah, beh eravamo proprio fuori strada! Tuttavia l’errore sarebbe di credere che il problema di questa violenza dilagante riguardi solo gli ebrei francesi. La maggioranza della popolazione è inquieta al riguardo, anche se tende a rimanere silenziosa in pubblico; soprattutto intuisce che ad essere in vero pericolo è l’identità francese che è qualcosa di più preoccupante, che va ben oltre i problemi tra minoranze. Relativamente invece al conflitto arabo-israeliano e alla guerra a Gaza, va riscontrato che gran parte della popolazione francese, e non solo francese, tende per ignoranza ed emotività a mescolare le carte e a confondere i piani, in questo una grossa responsabilità l’hanno i mass media con la scelta delle immagini che mostrano, dove il pathos è scelto come mezzo comunicativo. Allora si scende in piazza per protestare contro le violenze subite dalla popolazione palestinese e per i diritti dei palestinesi, attivismo in sé del tutto legittimo e che merita attenzione e spazio nel dibattito pubblico, ma contemporaneamente si incita all’odio contro Israele e contro tutti gli ebrei del mondo, insinuando il dubbio che siano tutti colpevoli di essere oggi i nuovi carnefici di vittime innocenti.
In effetti la stampa, le istituzioni pubbliche e le associazioni internazionali parlano di genocidio in Palestina e di crimini di pulizia etnica commessi dalla politica israeliana, il che rende facile, anche se deplorabile, l’identificazione Israele-ebrei, oltre ad esporre gli ebrei a divenire bersaglio di critiche e di ostilità, accusandoli di aver rovesciato il paradigma della vittime della shoah in persecutori e carnefici dei palestinesi.
Bisogna mantenere il rigore del vocabolario e la misura delle parole. Denunciare le vittime cadute nella guerra a Gaza non ci autorizza a parlare di genocidio, perché si tratta di una catastrofe umanitaria che è una conseguenza di un fatto di guerra, come purtroppo accade in qualunque conflitto armato. Ogni vita umana merita rispetto e a maggior ragione la morte di innocenti. Tuttavia non serve rincarare la dose e usare parametri inappropriati per denunciare la gravità di qualcosa. Inoltre, cosa significa parlare di una « purificazione etnica » in Palestina ? Come si può affermare una cosa simile quando il nazionalismo arabo non ha permesso alle altre minoranze, per esempio copta e berbera, in nessun paese a maggioranza arabo-musulmana di godere di una condizione di uguale dignità e integrazione giuridica e sociale? Senza parlare di come vivono oggi in molti paesi arabi le minoranze cristiane. Infine come parlare oggi di espulsione ed esproprio in Palestina senza prima ricordare che storicamente fu proprio l’ebraismo arabo ad essere pesantemente discriminato, spogliato di tutti i propri beni e cacciato via dalle terre in cui erano sempre vissuti tra il 1930 e il 1970 (soprattutto in Irak e in Libia)? L’ignoranza storica di questi fatti, ma anche del sionismo e della creazione di Israele fa sì che molti siano accecati dalla propria ingenuità. Inoltre si tende a ragionare per emotività, senza raziocinio, il che rende difficile la strada verso la comprensione.
Allora per concludere, l’antisionismo sarebbe una nuova forma dell’antisemitismo?
Nonostante la catastrofe di Auschwitz, la passione dell’antisemitismo sta rivivendo sotto i nostri occhi, si tratta di una passione polimorfa e polisemica, capace di risvegliarsi sotto molteplici aspetti, ma sempre rivitalizzando vecchi schemi di pensiero.La giudeofobia tradizionale poteva assumersi in quanto tale, poiché fino agli anni Trenta era frequente, direi normale, veder sorgere in Europa movimenti politici apertamente antisemiti. Non dimentichiamoci che l’antisemitismo rappresentava un codice culturale diffusissimo e riconoscibile. Oggi invece, per lo meno nel mondo occidentale, dopo Hitler e dopo la shoah non è più possibile dichiararsi esplicitamente antisemiti. Assumere allora il partito degli antisionisti che attaccano Israele e ne fanno un mostro criminale diventa una scelta di campo ipocrita, perché non è possibile minare la legittimità dello Stato di Israele e pretendersi non antisemiti. Che ovviamente non ha nulla a che vedere con la critica, sempre legittima in quanto espressione di democrazia, della politica del governo di un paese. Ma la cecità e l’ignoranza dei fatti rendono la visione sfocata e producono derive allarmanti, anche perché Israele permette a ognuno di vedere quello che cerca, non quello che realmente ha sotto gli occhi. Allora la sfida e il coraggio, come ha scritto Charles Péguy, sono che « bisogna sempre dire quello che si vede. Soprattutto bisogna sempre – il che è ben più difficile -, vedere quello che si vede”.
Il livello di antisemitismo sta crescendo anche in Italia. Gli episodi sono innumerevoli, online e non.

A Roma il mese scorso sono comparsi manifesti di questo tipo:
Fonte: Osservatorio Antisemitismo.
Già a luglio erano comparse scritte razziste, sempre con la stessa scusa: “criticare Israele”.

Fonte: Osservatorio Antisemitismo.
I casi, però, sono molto più numerosi, come testimonia la raccolta di questa pagina.
“Yalla Italia”, 24 settembre 2014, QUI
MAROCCHINI NAZISTI? IL COLMO!
di Sara Zennaoui
Un titolo in apparenza privo di senso, quasi ridicolo per descrivere, però, una situazione che si sta espandendo a macchia d’olio.
Basta farsi un giro su qualche profilo Facebook per scoprire una sconcertante e irreale alternanza fra post sull’integrazione e commenti esplicitamente razzisti.
L’apice dell’incoerenza, però, e soprattutto dell’ignoranza, viene toccato quando marocchini che solo poco prima si erano lamentati di qualche episodio razzista, si ritrovano comunemente d’accordo nell’inneggiare a niente di meno che ad Adolf Hitler.
Quest’ultimo, infatti, avrebbe dovuto (sempre secondo l’ottica dei nostri esperti storici e politologi) liberare i Palestinesi dall’oppressione israeliana.
“Hitler, se solo fossi qui..” , “Tu sapresti che fartene di questi ebrei” sono tra le citazioni più gettonate.
Partendo dall’osservazione forse scontata (ma a quanto pare non troppo) che ebrei e israeliani non coincidono, così come arabo non significa necessariamente musulmano, mi sfugge ancora in che modo il Fuhrer possa “aiutare” la Palestina: siete davvero convinti che sia l’ennesimo genocidio la soluzione? Domanda retorica..
E pensare che eravate così orgogliosi di aver partecipato alle PACIFICHE manifestazioni pro Palestina.
Sarà una sottigliezza, ma io colgo un’incoerenza di fondo tutt’altro che trascurabile. Denunciate l’odio, le violenze, i crimini disumani ma siete i primi, invertite le parti, a farvene promotori.
D’altra parte vi va riconosciuto un coraggio, anche se il termine più corretto sarebbe sfacciataggine: augurarsi che Hitler ritorni in vita e poi parlare di un’integrazione mancata o difficile, suona come una triste barzelletta.
Carissimi compaesani, proprio voi che siete i primi a puntare il dito contro l’ottusità e l’ignoranza di molti, proprio voi che vi sentite in diritto di denunciare (giustamente!) ogni atto discriminatorio e xenofobo, proprio voi che volete valorizzare la vostra diversità e farne il vostro punto di forza, proprio voi inneggiate a un uomo, la cui filosofia, che ben poco di umano aveva, vi avrebbe in ogni caso classificato come membri di una RAZZA INFERIORE?
Giungo alla triste conclusione che sia impossibile sconfiggere il razzismo se noi stessi, spesso vittime, siamo annebbiati di simili pensieri di odio ed emarginazione.
Ho ancora la speranza, forse vana, che noi giovani delle più variegate origini e tradizioni dovremmo essere in prima linea nella battaglia contro ogni manifestazione di discriminazione. Ogni sua manifestazione, sì: la xenofobia, l’islamofobia e l’omofobia , per citarne alcune, indipendentemente dalle nostre opinioni, culture e religioni. Dovremmo tutti quanti essere portatori di un messaggio di reciproco rispetto e istruttiva tolleranza.
Forse è ora di iniziare a puntare il dito contro noi stessi, forse è giunto il momento di fare un po’ di autocritica: non condanniamo una limitatezza mentale, quando la stessa, purtroppo, anche a noi appartiene.
Non scordiamoci che ciascuno di noi ha il diritto e la libertà di manifestare la sua diversità, sempre a patto che questa non ferisca o danneggi qualcun altro.
“Il Fatto Quotidiano”, 24 novembre 2014, QUI
ISRAELE, LE FACILI CRITICHE DEGLI ITALIANI
di Alon Altaras
Il grande scrittore israeliano David Grossman si trova in questi giorni in Italia per promuovere il suo nuovo e bellissimo romanzo, “Applausi a scena vuota”. In occasione dell’uscita di questo libro, molto diverso dai precedenti, egli ha concesso un’intervista a “Sette” del Corriere della Sera. Grossman, come di consueto nel caso suo e di tanti altri scrittori israeliani, ha dedicato parte dell’intervista alla situazione del Medio Oriente, al conflitto israeliano-palestinese e all’ultima estate di sangue fra Hamas e Israele.
Come risaputo, Grossman è molto critico verso la “miopia” dei governi israeliani, ma in questa intervista mi hanno colpito le sue parole dedicate all’ipocrisia dell’Occidente verso Israele e verso le guerre in Medio Oriente in generale. “Negli ultimi tre anni Bashar Al-assad ha fatto strage dei suoi stessi cittadini. Duecentomila, un genocidio. Quante dimostrazioni avete visto contro di lui? Sulla Siria, uscita dall’agenda internazionale, l’Occidente è ipocrita e indifferente”.
Io, come intellettuale che vive fra le due culture, quella italiana e quella israeliana, noto da diverso tempo il senso critico smisurato che si usa in Italia quando si parla di Israele. Certi esponenti della sinistra radicale, come Diliberto (non so se i giovani lettori del blog se lo ricordano), dicevano “io riconosco il diritto di Israele di esistere” come fosse necessario che un politico italiano desse un sigillo di legittimità allo stato ebraico. In molte altre occasioni, per esempio nella seconda guerra del Libano (2006), si bruciavano bandiere israeliane a Milano. Non ricordo nemmeno una bandiera siriana bruciata in nessuna città italiana, e nel caso di Assad si parla di genocidio. Mi sembra umanamente ed eticamente doveroso che chi è sensibile all’occupazione israeliana dei Territori dovrebbe inorridire di fronte a un genocidio di questa portata.
Troppo facile, mi ha insegnato l’amico scrittore arabo di Acri Ala Hlehel, dedicare tanta attenzione nell’ultimo anno all’Isis e lasciare Bashar Al-assad e il suo governo totalitario a massacrare bambini, donne, vecchi e anche stranieri.
Un altro campo dove si rivela questo eccessivo senso critico verso Israele sono i commenti sui diversi giornali italiani. Comparare il sionismo all’apartheid è una cosa inacettabile. Parlare dell’esercito israeliano come simile a quello nazista o accusare Israele di “pulizia etnica” sono toni che si sono insinuati nel dibattito politico italiano che riguarda il Medio Oriente.
Ogni italiano, di sinistra o di destra, ha un lungo elenco etico con cui deve fare i conti. La xenofobia dichiarata della Lega, la criminalità organizzata e il suo disprezzo per la vita umana, che costringe uno scrittore a vivere sotto scorta per un libro pubblicato, gli immigrati disperati che trovano la morte nelle acque territoriali italiane o che lavorano come schiavi nei campi. Ma anche un fatto non meno eclatante rilevato da Furio Colombo su il Fatto Quotidiano del 21 novembre: che in Italia, se sei di genitori stranieri, non basta nascere su questo territorio, crescere su questo territorio, parlare italiano, mangiare italiano, conoscere anche i dialetti del tuo luogo d’infanzia per diventare cittadino. Delle volte questi italiani al 100% aspettano 16, 18 anni prima che questo diritto venga loro riconosciuto.
Gli scrittori e intellettuali israeliani sono molto seguiti e amati in Italia, tanti dei miei colleghi sono invitati nei maggiori festival di letteratura in Italia anche più d’una volta l’anno. In nessuna occasione qualcuno di loro ha criticato gli “armadi della vergogna”, che certi governi italiani hanno chiuso per loro comodità. Quando vengono qua si occupano delle lacune del loro paese e del loro governo, perché così è giusto. Mi auguro di vedere altrettanto senso critico anche nella destra e nella sinistra italiana. A Israele ci penseranno i grandi scrittori e filosofi israeliani.
“Il manifesto”, 19 dicembre 2014, QUI
I CHIERICI ROSSO-BRUNI DI JEAN-LOUP AMSELLE
Intervista. Un’intervista con l’antropologo francese per l’uscita del suo ultimo libro sulla convergenza «rosso-bruna» che vede uniti la «destra dei valori» e alcuni teorici della sinistra in nome della lotta al mercato e al multiculturalismo
di Marco Dotti
Molti vengono dall’estrema sinistra e, da sinistra, hanno fatto un salto triplo a destra. Altri, invece, a destra ci sono sempre stati, ma hanno affinato linguaggio, armi e concetti. Altri, invece, a destra ci sono arrivati quasi involontariamente, per «osmosi» da imborghesimentoo, peggio, per una distorta applicazione della proprietà commutativa: «se le nostre parole sono le stesse e il nostro nemico è comune – sono frasi, queste, che risuonano come un mantra tra molti chic annoiati che sognano di radicalismi a venire — allora possiamo dirci dalla stessa parte».
Eppure, osserva Jean-Loup Amselle, antropologo e autore del recente Les nouveaux rouges-bruns. Le racisme qui vient (Editions Lignes, pp. 120, euro 14), sebbene tentativi di sintesi fra estremi e vicende di transfughi da sinistra a destra si siano sempre, anche se sporadicamente. verificati nel corso del secondo dopoguerra, oggi assistiamo a una configurazione nuova. Talmente nuova che, complice la confusione che regna sovrana sotto il cielo d’Europa, questa configurazione ha dato vita a una tipologia che rischia seriamente di popolare l’intero paesaggio intellettuale prossimo venturo: è la tipologia del rosso-nero a cui allude il titolo del lavoro di Amselle, un razzista che si muove con destrezza in una società postcoloniale e multiculturale.
Abbiamo incontrato Jean-Loup Amselle proprio a seguito di questo suo lavoro che, al di là dello specifico francese, sembra individuare una tendenza rosso-nera che anche in Italia guadagna ogni giorno a sé ampi spazi di manovra.
Nelle prime pagine del suo libro, lei parla di una «destra dei valori» che, sempre più, assume la posizione di «gauche de travail». La critica al liberismo economico è l’unico comune denominatore fra questa destra e questa sinistra?
L’associazione fra ciò che ho chiamato «gauche du travail», ossia la critica del liberalismo e del capitalismo, e «droite des valeurs», ossia la difesa della famiglia, delle tradizioni di mutuo soccorso del popolo e dell’educazione tradizionale, non costituisce in sé alcuna novità. La ritroviamo ovunque, nel fascismo come nel nazismo o, per meglio dire, nazionalsocialismo. La novità, secondo me, sta nel fatto che l’attuale fenomeno rosso-nero si inscrive nella congiuntura del secondo dopoguerra, segnata dalla crescente influenza delle idee dell’etno-antropologia e delle tesi postcoloniali. Se volessimo riferirci alla situazione italiana, dovremmo a mio avviso esaminare in modo molto preciso e netto le idee di Ernesto de Martino e Pier Paolo Pasolini, nel loro ambiguo rapporto con il fascismo. Limitandoci a Pasolini, non possiamo non dire che ritroviamo in lui un’attitudine tipicamente «primitivista» e ecologista che lo induce a preferire il fascismo alla società dei consumi, pensiamo alle sue famose «lucciole» e ai suoi Scritti corsari.
Scriveva infatti Pasolini: «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi». In Pasolini possiamo al tempo stesso vedere un antenato delle idee postcoloniali. Pasolini idealizzava le società esotiche, africane, le società contadine europee del Mezzogiorno d’Italia o del Friuli. Nonostante fosse omosessuale, Pier Paolo Pasolini era un difensore della famiglia patriarcale. Esiste quindi – e cito Pasolini come esempio, affinché si possa capire bene il nodo davvero problematico della questione – una nuova congiuntura ideologica dentro la quale si sviluppa la figura del «rouge-brune» contemporaneo. Da un lato, con la valorizzazione delle società esotiche – cosa che non esisteva affatto sotto Pétain o nel governo di Vichy, in Francia, durante la Seconda guerra mondiale, ma nemmeno sotto il fascismo in Italia o durante il nazismo in Germania — e, dall’altro lato, abbiamo l’inedita importanza acquisita dalla tesi postcoloniali.
Ci troviamo dunque in una nuova configurazione rosso-nera dentro una sfera che appartiene pienamente alla sfera multiculturale…
Attualmente assistiamo a una «razzizzazione» ambigua, di tipo postcoloniale che avanza anteponendo la logica dei «due pesi, due misure». Tutto questo è legato indubbiamente alla questione del conflitto israelo-palestinese e all’emergere di un nuovo antisemitismo. L’attuale giudeofobia non è infatti la prosecuzione dell’antisemitismo degli anni Trenta. E cosa ben diversa e poggia su un fatto elementare: possiamo prendercela fin che vogliamo con i musulmani senza correre alcun rischio, mentre se non possiamo toccare un solo capello a un ebreo senza rischiare di incappare negli strali di qualche «lobby sionista». L’alleanza che esisteva fra le diverse minoranze etniche e religiose si è rotta poiché neri e arabo-musulmani oggi si considerano vittime delle attività di una minoranza attiva: quella della diaspora ebraica associata allo Stato d’Israele. Si stabilisce così una congiunzione fra antisemitismo, negazionismo e anti-imperialismo che ha tratti inediti. La lotta delle razze ha sostituito la lotta di classe.
Sul fatto che questo sia il nuovo spettro che inquieta l’Europa non c’è dubbio, ma resta da capire se si tratti di un fenomeno europeo o, viceversa, di tanti fenomeno regionali che rischiano di avere forti ripercussioni sull’Europa qualora trovassero la forza di legarsi strategicamente, non solo tatticamente.
Io penso si tratti di un fenomeno europeo, che però si può osservare quasi in ogni regione, sia nei paesi dove la prosperità economica ancora c’è – pensiamo alla Svizzera, all’Austria ma anche ai paesi scandinavi -, sia in nei paesi che sono più duramente colpiti dalla crisi: l’Italia, la Spagna, la Francia o la Grecia. Intendiamoci, però: non si tratta però di antagonismo fra «i bianchi» e gli altri, ma di un antagonismo fra coloro che si erano anticamente stabiliti su quei territori e i nuovi arrivati, siano questi ultimi europei o non europei. Questo spiega anche il fortissimo razzismo e l’ostilità nei confronti dei rom che, benché siano europei, sono ostracizzati come i maghrebini. L’onda nuova del populismo si spiega a mio avviso cogliendo questa dinamica.
Accanto al nuovo antisemitismo abbiamo però assistito allo sviluppo di un’attitudine contraria ma in qualche modo complementare che è stata anche da lei definita «judéophilie». Entrambe le tendenze sembrano fare i conti con entità «metastoriche», ossia con un soggetto – un popolo, una comunità, spregiativamente: una razza – sottratto alla dinamica storica, quasi si trattasse dii una «specie perenne»…
Credo che affermare il proprio amore per un qualsiasi gruppo – che siano ebrei, arabi, musulmani, neri, africani e via discorrendo – abbia un effetto. Un effetto che, in qualche modo, richiamandoci al linguista John L. Austin, potremmo chiamare un «lavoro performativo». Nel performativo mentre si afferma si fa, si produce qualcosa. E così, questo amore dichiarato nel momento stesso in cui viene dichiarato costituisce quel gruppo come tale. Mi sembra che il rimedio finisca così per diventare peggiore del male, perché il razzismo procede esattamente seguendo questa logica: imputazione di gruppo, negazione costante della esistenza degli individui. Oggi siamo dentro questa logica, sia quando pratichiamo odio sia quando affermiamo amore.
Lei è antropologo ma quello affrontato nel suo libro è un tema che si direbbe tipicamente sociologico. Perché impegnarsi in questa ricerca? Nell’introduzione parla anche di un’urgenza…
Credo che se c’è un’originalità nel mio libro discenda proprio dal fatto che a scriverlo è stato un antropologo con un’esperienza sul campo, presso alcune società africane. Il razzismo è una questione molto complicata che impone la necessità di avere una visione equidistante dalle società occidentali e da quelle «esotiche», cosa che non impedisce affatto – al contrario! – di assumere una posizione universalista. Per me, poi, ci sono due modi di fare antropologia. Il primo consiste nel mettere in rilievo le differenze per poi identificare le rassomiglianze. Il secondo, a cui va la mia preferenza, consiste nel reperire ciò che gli anglosassoni chiamano «commonalities», ossia le rassomiglianze tra l’Occidente e le altre società, per riservare le specificità, in un secondo tempo, alla categoria di «resto» o a quella di «opacità» (pensiamo a Segalen o Glissant). La maggior parte degli antropologi francesi, ma non solo quelli francesi a dire il vero, che in una certa epoca si definivano marxisti, hanno abbandonato questa posizione per allinearsi al primitivismo e al culturalismo di Lévi-Strauss o al cognitivismo o al prospettivismo. Così facendo, viene negata la storicità delle società esotiche.
Tutti si alzano in piedi e puntano il dito davanti alla parola «negro», ma pochi ammettono che la questione, in una società composta da una molteplicità di gruppi etnici, è ben più complessa e sottile. Lei a questo proposito parla di un grado zero del razzismo. Di che cosa si tratta?
Il grado zero del razzismo è l’assegnazione identitaria di un qualunque individuo alla «sua» supposta origine. Rinviare i musulmani francesi a un’origine maghrebina o i neri a un’origine africana significa negare il fatto che essi sono e si sentono francesi. D’altronde, esistono oramai diverse forme di antirazzismo. Da un lato, l’antirazzismo delle organizzazioni antirazziste qualificate come «di bianchi» dalle organizzazioni «razzizate» che pretendono di rappresentare le minoranze etniche discriminate. Il problema posto dall’uso della nozione di «racisé», come se rappresentasse una realtà oggettiva, è che non poggia più sulla nozione di «razza» ed è per questo che io rifiuto la distinzione fra «razza biologica» e «razza sociologica». L’inversione dello stigma – negritudine, «black pride» — mantiene sempre qualcosa di presupposto, che ci viene restituito e positivizzato.
Il razzismo che verrà – sottotitolo del suo libro — possiede già il proprio vocabolario: comunità, gruppo, diaspora, radici, autoctonia. A complicare la questione, però, va detto che molti fra i più influenti e meno sprovveduti rosso-neri, criticano gli avversari partendo da una logica relativista e culturalista.
Qui si pone la questione dell’universalismo. I postcoloniali e gli studiosi di subaltern studies criticano i «diritti dell’uomo» in nome di una necessaria «provincializzazione dell’Europa» — così si esprime Dipesh Chakrabarty – o perché questi diritti sarebbero «bianchi», pensiamo in questo secondo caso alla Conferenza di Durban III. L’universalimo è però difeso da filosofi africani come Souleymane Bachir Diagne, cosa che rende assurda l’assimilazione dei «diritti dell’uomo» all’Occidente. D’altronde, però, non possiamo opporre, per esempio, i Diritti dell’uomo (o della donna), in quanto occidentali, alle consuetudini tipicamente africane di questo o di quell’altro paese africano. Prendiamo ad esempio le mutilazioni genitali femminili: in certi paesi sono combattute da associazioni di africani che lottano contro queste pratiche.
Il neopopulismo è uno dei tratti che caratterizzano ideologicamente i rosso-neri. Ma è un populismo dall’alto. Mi sembra questa una delle linee più delicate: c’è un populismo a bassa intensità, élitario, intellettuale che, in nome della lotta ai disvalori e alle diseguaglianze prodotte dal mercato, fa leva su solidarietà verticali – di gruppo, appartenenza – dimenticandosi proprio della struttura materiale che segna e modella quelle disuguaglianze. Che ruolo giocano i mezzi di comunicazione nella diffusione di questo messaggio?
Giocano un ruolo capitale. I media sono corresponsabili dell’avanzare del nuovo populismo e dell’estrema destra, perché ciò che amano, questi media, sono i personaggi «ibridi», i rosso-neri appunto. Amano il filosofo provinciale, pensiamo a Michéa o Onfray, il nero antisemita, come Dieudonné, o l’ebreo razzista, è il caso di Eric Zemmour. Amano tutto ciò che è in grado di confondere e offuscare le categorie e le opposizioni politiche. Questo fatto è particolarmente chiaro nelle reti di notizie che trasmettono a flusso continuo informazioni, anche sotto forma di bandelle situate in basso, nello schermo. Sono reti particolarmente sottomesse alla dittatura dell’ascolto e indotte a creare costantemente fenomeni di disinformazione. Le reti sociali (Facebook o Twitter) danno però un contributo non inferiore a questa frenesia di disinformazione istantanea che va a tutto svantaggio della riflessione di lunga durata. Credo che per uscire da questa logica aberrante occorra denunciare il fenomeno, ma la stigmatizzazione in sé non basta. Dobbiamo sottoporre a critica certe nostre istanze, iniziare a decostruire, a capire. Solo così ce la faremo.
“Israele.net”, 13 gennaio 2015, QUI
LUOGHI COMUNI E RIFLESSI CONDIZIONATI
Qualche riflessione su alcuni aspetti inquietanti della copertura mediatica dei recenti fatti terroristici di Parigi
di Seth J. Frantzman
L’attentato dei fratelli Said e Cherif Kouachi agli uffici di Charlie Hebdo a Parigi, la successiva caccia all’uomo e l’attacco a un supermercato ebraico ad opera di Amedy Coulibaly hanno prodotto una valanga di notizie, commenti e dibattiti. Sono anche emersi alcuni aspetti inquietanti, nella copertura mediatica degli eventi, che vale la pena sottolineare.
1. “E’ tempo di limitare la libertà di espressione?”. Se lo sono chiesto senza mezzi termini in diversi dibattiti sulla BBC: la stessa BBC che si era rifiutata di mostrare le immagini dello spietato assassinio del poliziotto Ahmed Merabet, che appariva sulla prima pagina di molti giornali. Per qualche motivo, mostrare le immagini di ciò che fanno realmente i terroristi sarebbe “offensivo”, proprio come la BBC aveva ritenuto “offensivo” mostrare le vignette di Charlie Hebdo che avrebbero scatenato l’ira omicida. Il fatto stesso che all’indomani degli attentati il tema in discussione sulla BBC fosse “Il diritto di espressione forse andrebbe limitato” è abbastanza incredibile: dunque il semplice fatto che un gruppo di persone è disposto a trucidare il prossimo perché si sente “offeso” implica che si debba seriamente discutere se per caso non abbia ragione di farlo. Evidentemente, sebbene non siano moltissimi coloro che sono pronti a uccidere per il semplice fatto di sentirsi “offesi”, molte di più sono le persone che accettano implicitamente questa logica perversa. E non solo tra i loro fiancheggiatori.
2. Che si tratti soltanto di “un piccolo gruppo di estremisti” è una delle affermazioni che si sente ripetere più spesso quando si tratta di spiegare come mai non dobbiamo porci troppe domande su chi sono questi terroristi, da dove escono, quale ambiente li ha nutriti, che effetto hanno sulla loro comunità e sulla società in generale. Ma i “piccoli gruppi di estremisti” e gli individui disposti a morire pur di imporre con la violenza le proprie convinzioni sono stati spesso gli artefici della storia umana. Quanti membri del Ku Klux Klan si dedicarono effettivamente ai linciaggi? Alcune centinaia nell’arco di più di cento anni? Il numero di membri del Ku Klux Klan che hanno effettivamente partecipato alle uccisioni è sempre stato relativamente piccolo. Eppure avevano un effetto devastante. Un solo linciaggio mandava un messaggio a milioni di persone, potenziali vittime e potenziali carnefici. Poche persone vennero effettivamente linciate, ma questo non significa che si dovesse descrivere il Ku Klux Klan come un fenomeno marginale, esortando a “concentrarsi sulle tante persone per bene che c’erano negli Stati Uniti del sud”. Il Ku Klux Klan non venne sconfitto minimizzandone la portata. Al contrario, venne sconfitto da una tenace battaglia politica e culturale di più generazioni contro la palude in cui il fenomeno suppurava, contro i temi e la mentalità che lo cullavano e alimentavano. Lo stesso vale per l’omofobia. Pochissime persone traducono l’odio omofobico in concreti reati di violenza. Ma il danno arrecato alla comunità gay da tali reati è enorme, e solo quando la società ha cominciato a fare seriamente i conti con la meschinità, il disprezzo e l’odio che stanno dietro a questi crimini, le cose hanno iniziato a cambiare veramente. E questi non sono che alcuni esempi. Anche i nazisti all’inizio erano solo un “piccolo gruppo di estremisti” molto fanatici e determinati, come lo erano i comunisti che diedero vita allo stalinismo. Eppure, quando si tratta di terrorismo islamista si preferisce sospendere ogni cauta diffidenza e concentrarsi sul 99% anziché sull’1%. E’ come se, dopo un linciaggio negli Stati Uniti del sud, si fosse predicato ai quattro venti che bisognava concentrare tutta l’attenzione sul “99% di bianchi per bene che non fanno linciaggi”. Non ha senso continuare a ripetere che i terroristi islamisti sono solo “un piccolo gruppo non rappresentativo” e che “non sono veri musulmani”. Certo, si sarebbe potuto ripetere all’infinito che i membri del Ku Klux Klan non erano “veri cristiani” né “veri americani”. E allora? Proclamare che le loro azioni non sono “rappresentative” non cambia nulla. Anzi, di fatto incoraggia a subire la loro esistenza e scoraggia una vera discussione sulle loro azioni e motivazioni.
3. Mentre i terroristi ancora si aggiravano nei pressi di Parigi e Coulibaly preparava armi e munizioni per fare una strage di ebrei, molti mass-media avevano già iniziato a dire che “i veri vincitori in questa vicenda sono l’estrema destra e i razzisti”, sostenendo al contempo che le “vere vittime sono i musulmani”. Ne siamo proprio sicuri? Certo, ci sono stati musulmani fra le vittime, come il poliziotto Ahmed Merabet e il redattore di origine algerina Mustapha Ourrad. E ci sono stati eroi musulmani, come il dipendete musulmano del supermercato kasher Lassana Bathily che ha messo in salvo diversi cittadini ebrei. Ma non è questo che intende, chi afferma che le “vere vittime” degli attentai sono “i musulmani francesi che ora ne pagheranno il prezzo”. Come quella vignetta di Latuff in cui i terroristi che sparano a Charlie Hebdo colpiscono in realtà una moschea. L’aspetto problematico di questo approccio è che tende a ignorare le vere vittime. Cerchiamo di essere onesti: si direbbe lo stesso se i responsabili fossero qualche altro gruppo? Le vere vittime dei linciaggi del Ku Klux Klan erano i bianchi del sud vittime di “sudistofobia”? Le vere vittime dei nazisti erano “i comuni tedeschi vittime di germanofobia”? E allora: le vere vittime del terrorismo islamico sono le concrete vittime del terrorismo islamico. E l’estremo paradosso è che fra queste si contano moltissimi musulmani in Sudan, in Nigeria, in Pakistan, in Siria e così via: concretissime vittime del terrorismo islamista, non dell’islamofobia.
4. Nel 2006, in “risposta” alla pubblicazione sul quotidiano danese Jyllands-Posten di vignette che sbeffeggiavano Maometto, l’Iran decise di organizzare un concorso internazionale di vignette che negavano e ridicolizzavano la Shoà. Analogamente oggi la reazione di una parte dell’estrema sinistra è stata quella di pubblicare vignette contro gli ebrei presumibilmente per “bilanciare” quelle su Maometto di Charlie Hebdo. Si consideri bene la cosa: ci sono 500 milioni di europei e 1,4 miliardi di musulmani, ma quando un vignettista europeo prende in giro Maometto ecco che il riflesso condizionato è quello di prendersela con gli ebrei. Se si trattasse di qualsiasi altro gruppo tutti si domanderebbero perché. Se in “reazione” alle vignette su Maometto di Charlie Hebdo l’estrema sinistra avesse scelto di pubblicare delle vignette contro i gay o contro i neri, tutti avrebbero pensato che erano impazziti. Sembra invece in qualche modo “conseguente” che se la prendano con gli ebrei. La realtà è che il mondo è assuefatto all’aggressione contro gli ebrei. Non moltissimi la praticano. Ma tanti, troppi la considerano “normale”.
(da: Jerusalem Post, 11.1.15)
Il termine “islamofascismo” o “nazislam” è controverso. Sicuramente il suo uso è improprio da parte di molti. Christian Rocca ne scrisse nel 2005 sul suo blog intervistando Christopher Hitchens, uno dei primi ad usarlo.
“Camillo blog”, 11 dicembre 2005, QUI (originariamente su “Il Foglio”)
HITCHENS SPIEGA L’ISLAMOFASCISMO E LA MOLLEZZA DELLA SINISTRA
di Christian Rocca
Washington. Christopher Hitchens è il saggista e scrittore angloamericano che per primo ha definito “fascisti islamici” i terroristi e i fondamentalisti musulmani che l’11 settembre 2001 hanno attaccato gli Stati Uniti. Nel suo primo articolo pubblicato dopo la caduta delle Torri scrisse che ciò cui avevamo assistito era un atto di “fascismo con un volto islamico”, recuperando una famosa espressione di Alexander Dubcek sul “socialismo dal volto umano” poi ripresa da Susan Sontag per descrivere la repressione sovietica in Polonia come una forma di “fascismo dal volto umano”. Hitchens, detto Hitch dagli amici, è uno dei più vivaci sostenitori della politica del regime change in Iraq, che sostiene da sinistra.
Nel corso di una lunga intervista col Foglio nella sua bella, borghese e bohémienne casa di Washington, Hitchens ha fumato una sigaretta dietro l’altra ma non ha toccato un goccio di whisky, solo caffè, nonostante i suoi avversari ormai ricorrano spesso agli insulti di natura alcolica per ribattere ai suoi argomenti. Hitchens ha tutto dell’uomo di sinistra: il pedigree, l’aspetto, il linguaggio e le frequentazioni. Il suo “eroe intellettuale” è George Orwell. Gore Vidal lo considerava il suo erede. Susan Sontag era la sua amica del cuore. Oggi i suoi compagni sono i rivoluzionari del Kurdistan e dell’Iraq liberato, uno su tutti Kanan Makiya, ma anche Salman Rushdie, Martin Amis e Ian McEwan, scrittori liberal e di sinistra che, come lui, in modi e per ragioni diverse, hanno affrontato il tema del fondamentalismo islamico. Di Rushdie si sa. Martin Amis sta ultimando un romanzo sulla dimensione sessuofoba dei fondamentalisti islamici, ossessionati dalla repressione sessuale e dall’odio per la donna, ma anche affascinati dalle vergini e dalla purezza femminile. McEwan, invece, con il suo ultimo romanzo “Sabato”, si è immedesimato nel tipico liberal europeo, catturandone la schizofrenia politica rispetto alla guerra e al regime di Saddam.
La mattina dell’11 settembre 2001, Hitchens si trovava sulla costa occidentale degli Stati Uniti, nello Stato di Washington, per ricordare, anzi per denunciare, l’11 settembre fino ad allora più famoso della storia recente americana: quello del 1973, ovvero il giorno del golpe con cui il generale Augusto Pinochet, non ostacolato dalla Casa Bianca, rimosse il presidente cileno Salvador Allende per fermare l’espansionismo sovietico in Sudamerica.
Nell’attico dove vive con la moglie Carol Blue e con la figlia Antonia, Hitchens racconta al Foglio che la sera del 10 settembre 2001 aveva tenuto un discorso alla Fondazione dedicata a Henry Scoop Jackson, l’ex deputato e senatore democratico ma in realtà neoconservatore alle cui dipendenze si fecero le ossa Richard Perle, Paul Wolfowitz ed Elliot Abrahms. Hitchens è un intellettuale marxista, uno che chiama i suoi amici “compagni”, uno che ha scritto libri contro Madre Teresa, uno che a quel tempo aveva una rubrica su The Nation, la rivista politica dell’ortodossia di sinistra americana. “Rimasi sorpreso – dice Hitchens – quando mi chiamarono a presentare il libro con cui chiedevo l’incriminazione e l’arresto di Henry Kissinger per crimini di guerra, ma poi scoprii che Jackson in realtà odiava Kissinger perché aveva suggerito al presidente Gerald Ford di non ricevere alla Casa Bianca il dissidente sovietico Aleksandr Solgenitsin perché avrebbe potuto infastidire Breznev. Jackson, inoltre, si scontrava con Kissinger perché il segretario di Stato giudicava sbagliata la politica volta a liberare gli ebrei russi, i refuznik, in quanto avrebbe nuociuto alla distensione con i sovietici. Esattamente la stessa cosa che dicono oggi i realisti a proposito della democrazia in Iraq e della politica del regime change”, ricorda Hitchens.
Hitchens non può credere che ci siano compagni di sinistra incapaci di vedere la differenza tra questi due 11 settembre: “In Cile gli Stati Uniti aiutarono a rimuovere un governo eletto e a distruggere un sistema democratico, sostituendolo con una forma odiosa di dittatura militare. Un crimine che in quegli anni compirono anche in Grecia, in Indonesia, in Uruguay, in Brasile e a Cipro. Ora, invece, hanno fatto il contrario: hanno sostituito due regimi totalitari e fascisti con governi eletti democratici”. Hitchens ricorda anche il caso di Timor Est, “il genocidio dimenticato dei cristiani, la battaglia più importante per la sinistra americana negli anni Novanta, tanto che perfino Noam Chomsky chiese l’intervento armato, poi arrivato grazie alle truppe americane e australiane. Ebbene, il leader di quella resistenza, José Ramos-Horta, poi premio Nobel per la pace, si è detto subito favorevole alla rimozione di Saddam, proprio perché il caso iracheno era uguale a quello di Timor Est. La stessa cosa è stata sostenuta da Adam Michnik, uno dei leader della resistenza polacca. Invece molti credono che gli Stati Uniti siano il pericolo numero uno del mondo, guerrafondai, imperialisti e peggiori di chiunque altro. Questo odio antiamericano c’è sempre, non importa chi sia il presidente. In Europa non sopportano che, sull’Iraq, l’America abbia deciso da sola, ma non si rendono conto che avrebbe deciso da sola anche se la scelta fosse stata a favore dell’appeasement di Saddam”.
Il radicalismo islamista e il fascismo nazionalista, nella definizione di Hitchens, coincidono: “Condividono il culto del leader e il culto della morte che in qualche caso è positivo perché autodistruttivo”. Secondo Hitch, “sono entrambe ideologie irrazionali, estremamente violente, caratterizzate da un odio fanatico verso il popolo ebraico e volte a ricreare un glorioso passato perduto: il califfato”. Insieme con Paul Berman, Hitchens è l’unico intellettuale di sinistra ad aver notato come la settimana scorsa, con un solo gesto e con una sola frase, Saddam Hussein abbia confermato questa identità ideologica quando al suo processo, col Corano in mano, si è paragonato orgogliosamente a Mussolini e alla resistenza dei repubblichini di Salò nei confronti dell’occupazione militare alleata che liberò l’Italia dal nazifascismo.
La battaglia di Hitchens è interna alla sinistra, anche se ormai se ne è allontanato al punto da essere accusato di far parte della cabala neoconservatrice: “Non ho nessun legame di partito, ma continuo a pensare come un marxista. Se mi chiedono se sono diventato un neoconservatore, faccio prima a rispondere di sì. In realtà i neocon non sono conservatori sotto alcun punto di vista. La definizione nacque come insulto. Li odiavano, o se preferisci ci odiano, perché siamo radicali, perché vediamo una possibilità di pace, di progresso e di giustizia, nel cambiamento di uno status quo ingiusto e instabile. Questo non è conservatorismo. I neoconservatori fecero parte della coalizione che salvò la Bosnia e il Kosovo dal nazionalsocialismo di Slobodan Milosevic, un’ideologia anche in quel caso sostenuta da buona parte della sinistra che oggi non avrebbe cacciato Saddam. I neocon dissero che non si poteva consentire una pulizia etnica nel pieno centro dell’Europa, una posizione pragmatica oltre che di principio. E in quel caso non c’entravano nulla né Israele né il petrolio, come amano dire i loro avversari”.
L’origine dell’impegno anti Saddam di Hitchens si trova nei suoi decennali rapporti con la sinistra irachena e curda: “Kanan Makiya è il Dubcek della regione, l’uomo che ha descritto con precisione la natura dello Stato baathista, il mix tra socialismo e fascismo saddamita. Ma anche il primo presidente eletto dell’Iraq, Jalal Talabani, è un uomo di sinistra. Il suo partito fa parte dell’Internazionale socialista. Anche il Partito comunista iracheno è dentro il processo democratico avviato con il cambiamento di regime. I socialisti dovrebbero esprimere solidarietà ai loro compagni, specie a chi in questi anni ha combattuto davvero una rivoluzione. Questi sono i nuovi partigiani, invece la sinistra preferisce usare la definizione per gli uomini di Zarqawi” (Hitchens non sapeva delle parole di Piero Fassino su questo punto, ne ha voluto sapere di più e se ne è rallegrato).
Ma ancora prima dell’Iraq, è stata la fatwa dell’Ayatollah Khomeini contro Rushdie del 1989 ad aprire gli occhi a Hitchens: “Credevo che la sinistra avesse intuito la natura fascista del fondamentalismo islamico col caso Rushdie. Credevo avesse capito già allora che la rivoluzione islamista non era ribellione degli oppressi, ma un movimento degli oppressori. Che non era battaglia antimperialista, ma volontà di creare un impero anzi di ristabilire un impero perduto. Che non era una protesta contro la povertà e la disoccupazione, ma la causa della povertà e della mancanza di lavoro. Eppure la sinistra sottovaluta questo nemico, minimizza. Crede che il più importante nemico del progresso umano sia la globalizzazione, cioè gli Stati Uniti d’America. Conosco molte persone di sinistra che mi dicono: ‘Ok, bin Laden non è esattamente come Antonio Gramsci, ma meglio un movimento di protesta che nessuna protesta’. Fosse dipeso da loro non avrebbero destituito nemmeno il regime dei Talebani. E’ un mistero. E’ un modo corrotto di pensare che si spiega soltanto con l’antimericanismo. Tra l’altro costoro non si accorgono che ogni fascista d’Europa è contrario alla ‘guerra americana’ esattamente come loro. E contrari sono anche i più reazionari tra i conservatori, da Brent Scowcroft, a Bush senior, a Kissinger, a Pat Buchanan fino al neonazista David Duke”.
Hitchens, inoltre, sostiene che parecchi protagonisti del movimento contro la guerra in Iraq non siano affatto pacifisti, ma guerrafondai schierati dall’altra parte: “Mi dà molto fastidio quando leggo che chi si oppone alla politica bushiana di regime change è contrario alla guerra. Sarebbe vero se fossero pacifisti, ma non lo sono. In realtà sono favorevoli, fortemente favorevoli alla guerra, ma parteggiano per gli avversari. Ramsey Clarke, per esempio. Ieri era l’avvocato di Milosevic, oggi di Saddam. In passato, come dice lui stesso, è stato ex ministro della Giustizia di Lyndon B. Johnson. Io mi vergognerei di essere stato ministro di Johnson, lo terrei segreto, farei una plastica facciale e lascerei il paese, invece lui ne è orgoglioso. Saddam ovviamente ha diritto a un buon avvocato, ma mentre l’ex dittatore ha detto di non aver ordinato il massacro degli sciiti di cui è accusato, la prima dichiarazione di Clarke è stata di giustificazione di quel massacro, perché a quel tempo Saddam stava combattendo una guerra contro gli sciiti iraniani, dimenticandosi che fu proprio lui a invadere l’Iran, a iniziare quella guerra. Le parole di Clarke sono parole fasciste, eppure sui giornali è salutato come il leader dell’America contraria alla guerra. E’ una disgrazia e quando lo dico la gente mi chiede se sono serio, pazzo, cattivo o ubriaco. Clarke, invece è un buon uomo, nonostante giustifichi la tortura, il genocidio, l’aggressione, la dittatura”.
Un altro avversario di Hitchens è George Galloway, il parlamentare inglese che il giornalista definisce “membro del partito Baath, membro stipendiato dell’élite baathista, nonché membro della clientela dell’Oil for Food organizzata da Tareq Aziz, l’amico di papa Wojtyla”. Recentemente, aggiunge Hitchens, “Galloway è andato in Siria a difendere gli attentati, le esplosioni, le decapitazioni e le bombe nelle moschee, contro l’Onu e contro la Croce Rossa. E’ andato a Damasco a sostenere quello spazzolino umano di Bashar al Assad, il cretino piccolo dittatore della Siria. Questo sarebbe pacifismo? socialismo? liberalismo? No, è fascismo. Eppure per la stampa, Galloway è un indipendente, un dissidente, un piccolo David che affronta l’America-Golia”.
Hitchens scrive per Vanity Fair, per Atlantic Monthly e per Slate, prestigiose riviste liberal, ma è noto anche per i suoi saggi. L’ultimo è una breve biografia di Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori della Repubblica americana. Secondo Hitchens, Jefferson è un precursore della dottrina Bush. “La rivoluzione americana è universale, non riguarda soltanto gli Stati Uniti e considera le garanzie, i diritti, il laicismo, la democrazia, la Costituzione scritta come valori da diffondere”. Queste cose Jefferson le ha scritte in una lettera per celebrare il cinquantesimo anniversario della Dichiarazione d’Indipendenza, ma Hitchens ricorda che le mise anche in pratica: “Jefferson fu il primo presidente a mandare truppe americane dall’altra parte dell’Atlantico. I suoi marine piantarono per la prima volta la bandiera a stelle e strisce in territorio straniero e quel territorio straniero era la Libia. Le guerre barbariche contro l’Algeria, la Libia e la Tunisia nacquero per fermare gli Stati schiavisti musulmani che controllavano lo stretto di Gibilterra e che, invocando un diritto sancito nel Corano, gestivano il traffico di oltre un milione e mezzo di schiavi. Jefferson non accettò compromessi ed esportò sulla punta della baionetta il libero commercio nel Mediterraneo. Non cercava un regime change, ma certamente un cambiamento di comportamento, un cambiamento di politica”.
Jefferson è stato anche il teorico del muro di separazione tra lo Stato e la Chiesa. Secondo Hitchens, che sul tema di Dio e della religione sta scrivendo un libro, “la vera battaglia odierna è tra il laicismo e il fanatismo religioso. La sinistra non capisce che c’è un nemico da sconfiggere, ma in realtà è tutto l’occidente ad apparire stanco di questa società, a non credere che ci sia qualcosa che davvero meriti di essere difesa. Su questo la destra estrema e la sinistra radicale concordano: Jerry Falwell e Pat Robertson sostengono, così come una parte della sinistra, che l’America si sia meritata ciò che è successo l’11 settembre. Ora il più grande errore che l’America cristiana può commettere è quello di far credere che questa non sia una guerra contro il fondamentalismo, ma a favore. Bush può pensare di essersi salvato grazie alle preghiera, ma sa che la sua battaglia in Iraq e in medio oriente dipende dai laici della regione. Più laici emergeranno, meglio sarà per la sua politica. Ed è affascinante vedere la vittoria dell’America cristiana dipendere dalla vittoria del laicismo. Il dramma della sinistra e dei seguaci dell’illuminismo è che hanno lasciato questa battaglia laica ai cristiani, e ora se ne lamentano. Questa non è politica, è fatalismo, neutralismo”.
Il 13 marzo un lettore del “CorSera” ha chiesto a Sergio Romano di spiegare perché l’antisemitismo sta aumentando in Europa; l’editorialista ha risposto così:
LETTERA, RISPONDE SERGIO ROMANO: “GLI EBREI IN EUROPA E LO STATO DI ISRAELE”
Tutti i giornali parlano più o meno tutti i giorni del preoccupante diffondersi in Europa di ogni forma di antisemitismo. Purtroppo non ho mai letto in questo contesto un’analisi del fenomeno. Lei, che ha tante volte commentato questioni ebraiche, potrebbe dare una risposta alla domanda del perché? Tutte le fonti ebraiche denunciano giustamente i fatti, ma difficilmente ho letto un suggerimento o una proposta su come anche la parte ebraica potrebbe contribuire a combattere questa piaga. Non mi sembra più che il «non dimenticare» possa essere l’unica soluzione.
Jost Reinhold
Caro Reinhold,
Esistono forme di ostilità contro gli ebrei nei Paesi in cui importanti comunità musulmane convivono con una forte comunità ebraica. Il caso più vistoso è quello della Francia, un Paese che ospita contemporaneamente poco meno di cinque milioni di musulmani e poco meno di 500.000 ebrei. Il sentimento antiebraico in questo caso è strettamente legato sia all’esistenza della questione palestinese sia a quei sentimenti di nazionalismo frustrato e disagio psicologico che si manifestano nelle minoranze etniche soprattutto durante fasi economicamente difficili.
L’identificazione fra Israele e gli ebrei delle diaspore europee è arbitrario e discutibile, ma è quello a cui maggiormente ricorre chiunque approfitti di questo malessere per cercare di reclutare militanti jihadisti. Ed è giustificato, agli occhi dell’Islam radicale, dagli appelli di Benjamin Netanyahu agli ebrei francesi. Se il premier israeliano, dopo gli omicidi del supermercato kosher a Parigi nelle scorse settimane, li considera potenziali cittadini di Israele, perché non dovrebbero essere considerati tali anche dai francesi di religione musulmana?
Vi sono forme di ostilità antiebraica anche là dove esistono rigurgiti neonazisti. Ma il fenomeno, in questo caso, mi sembra meno rilevante. Le simpatie naziste sono una patologia europea da sorvegliare e sradicare, ma non mi sembrano statisticamente preoccupanti.
Esiste poi un terzo fattore, forse più inquietante. In questi ultimi anni Israele sta progressivamente perdendo il capitale di affetto e simpatia di cui ha lungamente goduto dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Per i socialisti europei il kibbutz era un modello da imitare anche sotto altre latitudini. Per chi aveva ancora negli occhi le immagini dei forni crematori, la nascita dello Stato ebraico era la dimostrazione di una entusiasmante vitalità nazional-religiosa. Persino operazioni militari spregiudicate, come la guerra del 1956 e quella del 1967, suscitavano ammirazione per l’audacia delle forze armate israeliane.
Oggi quei sentimenti si sono in buona parte dissolti. La politica degli insediamenti, mai interrotta, le guerre di Gaza, il fallimento di tutti i tentativi promossi dalla diplomazia americana per la soluzione della questione palestinese, la scarsa collaborazione offerta dal governo israeliano alla politica dei due Stati hanno creato delusioni anche in coloro che avevano accompagnato con le loro speranze l’evoluzione dello Stato israeliano nei primi decenni della sua esistenza. Come spiegare altrimenti il fatto che 135 Stati su 193 membri dell’Onu, abbiano riconosciuto la Palestina?
Pochi giorni dopo, Amit Zarouk, consigliere dell’Ambasciata d’Israele in Italia, ha contro-risposto a Romano, così.
INTERVENTI E REPLICHE: LO STATO DI ISRAELE E GLI EBREI
Abbiamo letto con attenzione l’analisi del signor Sergio Romano sul fenomeno dell’antisemitismo in Europa (Corriere, 13 marzo), rilevandovi con nostra sorpresa una sorta di accettazione — qualcuno potrebbe intenderla come un ravvisamento di logicità — dei fenomeni di odio antiebraico e di violenza contro gli ebrei in Europa. Il fatto che vi sia un’identificazione dell’ebraismo europeo con lo Stato d’Israele, o che in parte alcuni ebrei possano diventare cittadini israeliani, non può assolutamente costituire alcuna giustificazione dell’antisemitismo proveniente dai leader musulmani in Europa. Non è giusto e non può essere giustificato colpire degli ebrei per il solo fatto di essere ebrei né degli israeliani per il solo fatto di essere israeliani. L’appello rivolto agli ebrei a trasferirsi in Israele è una pietra fondante della stessa nascita dello Stato d’Israele. Gli ebrei che scelgono di continuare a vivere in Europa, dove vivono da generazioni e dove la loro vita è profondamente radicata e inserita nel modo di vivere europeo, sono cittadini leali e con pieni e pari diritti rispetto a qualsiasi altro cittadino francese o italiano. La parte finale delle parole del sig. Romano, dove viene posto un nesso fra le politiche dei governi israeliani e l’antisemitismo, è anch’essa soggetta a essere interpretata come tendente a giustificare il fenomeno. Il governo israeliano è eletto con elezioni democratiche che riflettono la volontà della maggioranza dei cittadini d’Israele. Colpire gli ebrei in Europa per via delle azioni di un governo in Israele è pura espressione di un «nuovo antisemitismo, che colpisce gli ebrei per il solo fatto di essere ebrei, nascondendosi però dietro il pretesto di un’opposizione al governo d’Israele. La verità, invece, è purtroppo semplice: si tratta di odio per tutto ciò che è ebraico, incluso l’odio per l’unico Stato ebraico al mondo, e ciò esige contrasto e condanna, e non certo accettazione e tentativi di spiegazioni logiche.
“Rivista Studio”, 19 aprile 2016, QUI
CORBYN E LA SUA IDEA DI SINISTRA
Il leader laburista è legato a una concezione del mondo ferma agli anni Settanta, e i suoi problemi con l’antisemitismo ne sono una dimostrazione.
di Anna Momigliano
In queste settimane il Labour di Jeremy Corbyn è alle prese con dure, e purtroppo non del tutto infondate, accuse di antisemitismo. Nessuno, a scanso di equivoci, insinua che Corbyn odi gli ebrei: quello che gli si rimprovera è di avere preso sottogamba, e troppo a lungo, frasi e atteggiamenti smaccatamente antisemiti da parte di esponenti del suo partito. Il lato interessante nella vicenda è che, oltre a una serie di cadute di stile tra i laburisti, evidenzia anche una questione più ampia. E cioè che una parte della sinistra europea ha una visione poco matura del razzismo e sta affrontando le questioni ad esso legate con schemi fermi agli anni Settanta. Eletto con una maggioranza schiacciante alla guida del partito lo scorso settembre, Corbyn è talvolta percepito come un politico di rottura che ha spinto il Labour su posizioni radicali, allontanandolo dalla sua tradizione moderata vicina ai Democratici americani. Sotto alcuni aspetti però, la sua visione del mondo è un ritorno al passato e riflette un modo di pensare comune anche tra l’ala sinistra dei liberal americani, una divisione del mondo tra “centro” e “margini”.
Recentemente una consigliera comunale di Luton, Aysegul Gurbuz, si è dovuta dimettere per avere twittato che Hitler era «la migliore persona della storia». Poco prima un ex sindaco laburista dell’area metropolitana di Bradford, Khadim Hussain era stato sospeso dal partito per avere protestato su Facebook il fatto che si insegnasse nelle scuole britanniche la storia dell’Olocausto, definito come «l’uccisione di sei milioni di sionisti». Anche una giovane attivista della sezione del Labour per i diritti dei lavoratori, Vicki Byrne, è stata sospesa per tweet antisemiti (pare riguardassero il «nasone» di uno dei due Miliband). Le misure disciplinari sono state intraprese soltanto dopo le dure proteste della comunità ebraica. Byrne in particolare era già stata sospesa per affermazioni antisemite, ma poi era stata riammessa nel partito.
A rendere l’idea dell’aria che tira, inoltre, il presidente degli studenti laburisti dell’università di Oxford Alex Chalmers si è dimesso a febbraio sostenendo che troppi suoi colleghi «hanno dei problemi con gli ebrei»: tra le cose che segnalava, l’utilizzo frequente del termine “Zio” (che non sta per “ciao zio”, ma è un’abbreviazione dispregiativa di “Zionist”) per rivolgersi a studenti ebrei, e l’opinione diffusa che le segnalazione di episodi di antisemitismo fossero percepite come «allarmi ingiustificati da parte di sionisti che urlavano al lupo, al lupo!». E in effetti sembra la percezione del fratello di Corbyn, Piers. Che, quando il presidente delle comunità ebraiche Jonathan Arkush ha cominciato a protestare, ha commentato: «I sionisti non riescono a sopportare la sola idea che si parli di diritti palestinesi». Corbyn ha difeso il fratello. A onor del vero, ha anche aperto un’indagine sui casi di antisemitismo nel suo partito, ma lo ha fatto soltanto dopo che il tema era parecchio montato sui media, inclusi giornali amici come il Guardian. In altre parole: ha deciso di prendere la questione seriamente quando non aveva altra scelta.
L’impressione, dunque, oltre a un problema di antisemitismo vero e proprio tra certe frange marginali del Labour, ci sia anche un problema di tolleranza dell’antisemitismo in frange assai meno marginali. In molti sono convinti che la questione sia soprattutto legata al conflitto israelo-palestinese. Come ha riassunto il commentatore del Guardian Jonathan Freedland, in passato Corbyn ed altri, quando si sono «trovati davanti a potenziali alleati sulla questione palestinese» si sono dimostrati «disposti a chiudere un occhio su eventuali oscenità che avrebbero potuto dire sugli ebrei». Freedland nota come in passato Corbyn sia stato vicino a personaggi come Paul Eisen, dichiarato negazionista, e lo sceicco Raed Salah, che sostiene gli ebrei facciano il pane azzimo col sangue dei bambini cristiani. Sempre sul Guardian, anche Tony Klug legava la questione al conflitto israelo-palestinese. La sua analisi è questa: parte del Labour tende a condonare l’antisemitismo quando proviene da attivisti filo-palestinesi; inoltre tende a guardare con diffidenza gli ebrei, o per lo meno quelli che sostengono Israele; questo avviene soprattutto perché proietta sullo Stato ebraico i crimini coloniali commessi dalla Gran Bretagna, dimenticando il fatto che Israele sì ha commesso crimini, ma a differenza dell’Impero britannico è nato da un’esigenza di sopravvivenza e non dalla sete di dominio.
Questa analisi può essere molto utile a spiegare il tradizionale schieramento della sinistra nel campo filo-palestinese. Aiuta un po’ meno però a spiegare come una parte della sinistra sia giunta a prendere sottogamba attacchi rivolti agli ebrei, non agli israeliani o ai “sionisti”. Forse se a sinistra talvolta si tende sottovalutare il razzismo contro gli ebrei, il problema c’entra poco con la concezione della politica estera e c’entra parecchio con la concezione del razzismo. Il fatto è che indignarsi per l’antisemitismo, in alcuni ambienti, è diventata una questione “poco di sinistra”, quasi non si trattasse di una forma di razzismo come gli altri. È una tema è forse più marcato in Gran Bretagna, ma non è squisitamente inglese. Uno studente di Stanford, Gabriel Knight, non solo l’ha passata liscia per avere dichiarato durante un consiglio studentesco che «dire che gli ebrei controllano i media non è antisemitismo», ma è stato difeso… dalla coalizione antirazzista.
Com’è che si è arrivati a considerare l’antisemitismo come qualcosa di “altro” e meno serio rispetto al razzismo? Un’altra allieva di Stanford Madeleine Chang, ha raccontato che la domanda più frequente che sente tra gli altri studenti è: «Com’è possibile che gli ebrei siano oppressi se sono bianchi?». Di questa affermazione, Chang si sofferma sulla questione razziale (gli ebrei, evidentemente, non sono una “razza”, dunque chi è abituato a combattere il razzismo fatica a capire che diffondere stereotipi antisemiti è pericoloso). Ma forse il concetto più interessante sta proprio in quegli «oppressi».
Negli ultimi quaranta o cinquant’anni una buona parte della sinistra ha affrontato la questione del razzismo principalmente in termini di “potere” e “oppressione”. Nel suo saggio del 1970 White Awareness: Handbook For Anti-Racism, considerato un classico della letteratura anti-razzista, Judith Katz ha popolarizzato la definizione di razzismo come la «somma di pregiudizio e potere». Il razzismo dunque è principalmente lo strumento con cui una maggioranza al potere, il centro egemonico, cerca di impedire l’emancipazione di una minoranza emarginata, socialmente ed economicamente. È l’insieme dei meccanismi che rendono più difficile che un ragazzo di colore diventare medico o ingegnere, perché ha accesso a delle scuole più scadenti e perché ospedali e studi legali sono meno inclini ad assumere personale di colore (un’interessante ricerca australiana del 2009 stimava che, a parità di curriculum, un giovane nero ha il 68% in più delle difficoltà nel trovare lavoro). Il razzismo sono i pregiudizi, magari inconsci, che ci spingono a considerare qualcuno meno preparato (o più pericoloso) per via delle sue origini, e dunque ad escluderlo da posizioni di potere e responsabilità.
Cosa c’entra l’antisemitismo in tutto questo? Non risulta che gli ebrei siano marginalizzati, svantaggiati nel mondo del lavoro o degli studi. Risulta però che, ogni tanto, gli ebrei vengano insultati – e in qualche raro caso, com’è accaduto Parigi, a Tolosa e a Bruxelles, persino ammazzati – per il loro essere ebrei. Il fatto che una minoranza possa essere perseguitata senza essere discriminata, che il razzismo possa essere anche una questione di semplice odio e non soltanto di oppressione, può essere difficile da metabolizzare. La contrapposizione tra un «centro egemonico» al potere e vari gruppi minoritari non spiega soltanto la concezione riduttiva del razzismo diffusa nella sinistra à la Corbyn, ma è alla base della concezione del mondo di molti liberal anglosassoni, che lo storico del pensiero politico dell’Università di Gerusalemme Gabi Taub ha riassunto così: «Immaginate una cerchia centrale che contiene il gruppo egemone: i maschi bianchi eterosessuali. Ora disegnate cerchi più piccoli al di fuori del cerchio egemone, ognuno dei quali rappresenta un gruppo: donne, neri, gay e il Terzo Mondo. Ciascuno di questi gruppi per affermarsi ha bisogno di prendere d’assalto il centro da una direzione minoritaria».
Questa visione del mondo – che non solo evidenzia una contrapposizione tra maggioranza egemonica e minoranze oppresse ma dà per scontato che tutte le minoranze abbiano un obiettivo comune – aveva molto senso negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, fa notare Taub, quando donne, minoranze etniche e studenti si allearono per fare valere i propri diritti. Ma forse non è molto appropriata per capire alcune dinamiche contemporanee. Cosa succede, si domanda, quando gli interessi di due gruppi oppressi non coincidono? «Non c’è ragione di dare per scontato», nota Taub, «che la battaglia di un immigrato in Germania di conservare la sua identità senza farsi schiacciare dal centro egemonico lo faccia sentire alleato del movimento per i matrimoni gay»
Cosa succede, poi, quando a trovarsi attaccato è un gruppo che non sta ai margini, ma che è stato più o meno inglobato nel sistema? E quando una minoranza è attaccata da membri di un’altra minoranza? Alcune delle esternazioni antisemite qui citate (ma non tutte, ovviamente) provenivano da membri del Labour figli di immigrati turchi e pachistani. Il vecchio modello liberal della contrapposizione tra centro egemone e margini non regge più, e chi ci resta legato fatica a comprendere la gravità di alcune situazioni e ad agire di conseguenza.
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