L’interprete unico del popolo e della memoria

L’8 aprile 2014 la televisione franco-tedesca “Artè” ha trasmesso un reportage di Antoine Vitkine intitolato Populisme, l’Europe en danger. Si tratta di un servizio sui principali movimenti politici populisti d’Italia, Francia, Olanda e Ungheria. In particolare, l’inchiesta tratta di Beppe Grillo e del M5S, del Front National di Marine Le Pen, di Geert Wilders, leader dei populisti olandesi e di Viktor Orban, presidente ungherese in via di “tirannizzazione”.

Clicca sull’immagine per accedere allo streaming del reportage “Populisme, l’Europe en danger”.

La trasmissione di “Artè” (82′) è ben fatta e offre un quadro continentale che raramente il giornalismo (soprattutto italiano) realizza, tuttavia presenta delle lacune a livello concettuale: Grillo e Orban, ad esempio, non sono la stessa cosa, così come tante sono le differenze con Marine Le Pen e Wilders. Ognuno di questi politici, per mezzo dei loro movimenti/partiti, hanno però una pretesa comune, quella di parlare in nome dei rispettivi popoli (il ché, a rigore, non è possibile). Bisognerebbe, cioè, definire preliminarmente e in maniera chiara cosa sia “populismo”. Questa, però, è un’operazione complicata, come spiegava Ernesto Laclau (qui un ricordo di Benedetto Vecchi); tutti i leader politici e ogni partito, infatti, potrebbero essere indicati come populisti. Tuttavia, al di là del fatto che questo tipo di pensiero alimenta categorizzazioni generiche e banalizzanti (ad esempio: “sono tutti uguali”, “anche gli altri sono così”, eccetera) e posto che probabilmente una quota di “populismo” è endemico ad ogni espressione politica, soprattutto in campagna elettorale (e, almeno in Italia, in un modo o nell’altro, si è in campagna elettorale permanente da circa 20 anni), è necessario osservare con più attenzione i singoli casi. In Italia, il M5S è strutturalmente populista perché usa i referendum (che in realtà sono sondaggi) per scegliere la sua linea politica (qui), utilizza una retorica che batte sul termine “cittadinanza” (che è implicitamente escludente) (qui), il suo leader si esprime con un linguaggio triviale e “di pancia” per lucrare sullo scontento sociale, se non addirittura sulla disperazione (qui). Questi, con tutta evidenza, sono segnali di populismo ben più forti degli elementi analoghi attualmente riscontrabili nelle altre espressioni politiche nazionali.

Il filmato è disponibile su YouTube:

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Primo Levi lo disse, i sopravvissuti non riusciranno a raccontare perché le loro storie sono semplicemente in-credibili: «se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero».
Quel che non immaginò è che la sua orazione e l’indicibile voragine in cui furono gettate milioni di vite, un giorno sarebbero state banalizzate e svilite per una manciata di voti.

Ho scritto questa breve riflessione su fb a commento di uno squallido post di Beppe Grillo in cui ha storpiato “Shemà” di Primo Levi e ha modificato una celebre fotografia dell’ingresso di Auschwitz. L’Unione delle Comunità Ebraiche d’Italia ha commentato così:

«Un’oscenità sulla quale non è possibile tacere. Si tratta infatti di una profanazione criminale del valore della Memoria e del ricordo di milioni di vittime innocenti che offende l’Italia intera». Renzo Gattegna, presidente dell’Unione Comunità Ebraiche, risponde così «all’ultima infame provocazione di Beppe Grillo» che pubblica sul suo blog una immagine dell’ingresso di Auschwitz con la scritta ‘P2 Macht Freì e storpia le parole dei celebri versi di Primo Levi con cui si apre «Se questo è un uomo». Un modo, condanna Gattegna, «per solleticare i più bassi sentimenti antisemiti e cavalcare il malcontento popolare che si addensa in questi tempi di crisi» (QUI).
[In serata Grillo non si è scusato, ma ha addirittura continuato nel suo profluvio di offese: qui]

Va sottolineato che la sacralizzazione della memoria, come dice Todorov, è una jattura perché la imbalsama e la rende sterile. La memoria, invece, va continuamente interpretata alla luce del presente, altrimenti semplicemente non è, non serve. La memoria della Shoah, al contrario, ci serve e ci servirà ancora di più nei prossimi tempi, se il mio fiuto sociologico non mi inganna. L’Europa, infatti, si appresta a momenti di forte tensione politica e sociale: dall’Ucraina all’Ungheria, passando per Francia, Grecia e Italia, stanno crescendo la violenza (per ora quasi sempre solo verbale, ma non ci vuole nulla a debordare) e le chiusure reciproche (il mio post precedente sull’indipendenza di Villazzano ironizzava proprio su questo). La memoria non è sacra, è uno strumento (Ascanio Celestini dice che è come un utensile, “un martello“; anche qui) per vivere il presente e per progettare il futuro, ma la memoria non può essere banalizzata, non deve essere svilita, soprattutto quella degli orrori perpetrati dal nazismo e dal fascismo, altrimenti l’effetto è quello di dar libero accesso ad ogni cosa. Cosa vuol dire, culturalmente, storpiare un’orazione come quella di Primo Levi? Quali effetti ha, socialmente, l’alterazione di una foto-simbolo dove si svuota l’orrore della frase “Il lavoro rende liberi”? Il risultato di una così costante e quotidiana operazione di volgarizzazione è che ogni cosa varrà un’altra, che ogni fatto sarà simile all’altro, dunque sostanzialmente inutile e innocuo, lasciando serpeggiare la degenerazione più becera. Alcuni ritengono che l’indignazione per le oscenità di Grillo sia assurda perché si sofferma sulle parole (cioè sulla forma) e non sui fatti (che loro, evidentemente, ritengono “oggettivi”), ma non hanno capito o non vogliono capire che non c’è differenza tra forma e sostanza, non sanno o non vogliono sapere che le parole costruiscono la realtà. Ed è per tale ragione che quel post di Grillo è più di un insulto: è violenza concreta. E azioni di questo tipo sono rivoltanti, per cui non vi può essere alcuna indulgenza verso tali volgarità.
Come ha commentato Ezio Mauro: «Altro che gaffe, altro che autogol; quella di Grillo è un’operazione pianificata e voluta» (VIDEO, fino al minuto 5).
C’è, infine, un aspetto abominevole della comunicazione (e, a mio avviso, della visione del mondo) di Grillo, ovvero l’appropriarsi della memoria e l’autoproclamarsene unico autentico interprete. L’anno scorso disse che il M5S è erede della resistenza antifascista, da anni va sventolando le bandiere di Falcone e Borsellino, adesso si prende la briga di fare proprie le parole di Primo Levi. A questo proposito, rimando alla più ampia argomentazione che ne ha scritto Alessio Postiglione: Da Primo Levi a Falcone e Borsellino: Grillo e l’appropriazione indebita della memoria (QUI).

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Raccolgo, infine, alcuni articoli di commento all’insulto voluto ed effettuato da Grillo:

Marco Bracconi, Il wi-fi rende liberi, “La Repubblica”, 14 aprile 2014: «Offendere alcuni milioni di morti, per esempio. E offendere la proprietà transitiva, che vuole che se le cose stessero come dice lui oggi i suoi bei capelli cacio e pepe sarebbero ammonticchiati con quelli di tanti altri, in qualche magazzino sorvegliato da pastori tedeschi, in attesa di abbellire le bambole ad uso dei figli di Renzi o dei nipotini di Napolitano».

Adriano Biondi, Caro Grillo, almeno l’Olocausto lascialo fuori dalla campagna elettorale, “Fanpage”, 14 aprile 2014: «Non era una questione da moralisti o bacchettoni, ma questione di decenza minima, di capire che ci sono confini oltre i quali la speculazione politica non può e non deve spingersi. Oggi è Beppe Grillo ad abbassare ancora il livello dell’asticella della decenza. Con una speculazione indecente, con un paragone indegno, con una provocazione inutile».

Alessandro Portelli, L’equivalenza impossibile, “il manifesto”, 14 aprile 2014: «Se uno cam­bia la scritta sul can­cello di Ausch­witz e ci mette la P2 al posto di «Arbeit», non è una cita­zione, è una paro­dia. Come minimo, è una man­canza di rispetto. In realtà, è molto di più: la pre­tesa iper­bo­lica che i due ter­mini siano inter­cam­bia­bili ottiene il risul­tato non di accen­tuare l’importanza dell’elemento nuovo ma di smi­nuire il senso di quello vec­chio. […] Tutte le simi­li­tu­dini fun­zio­nano in due dire­zioni. Cioè, se Ghed­dafi è un Hitler, allora Hitler non era che un Ghed­dafi qual­siasi. E se il nazi­smo è una riforma sani­ta­ria, be’, quasi quasi…».

Toni Jop, Grillo fa campagna con la Shoah. La comunità ebraica: «Osceno», “L’Unità”, 15 aprile 2014: «[La] Shoah, che non è una fede, non è una religione, non pretende un dio, non crea altarini, non impone devozioni. La Shoah, semplicemente, è un fatto, una spaventosa storia di uomini, afflitta da una unicità incrollabile, una atroce lezione laica che chiede solo memoria, memoria dei sensi che risveglia, dei significati che illumina. Ma al semidio che impera sui Cinque Stelle tutto questo pareva materia utile per parafrasare, per alludere, ma neppure poi così tanto, ai motivi che stanno divinizzando la sua campagna elettorale. In fondo, lui della Shoah non ha l’immagine che abbiamo raccolto noi in mezzo a molta umanità».

Pierluigi Battista, Quelle frasi di Grillo, un’offesa alla Memoria, “Corriere della Sera”, 15 aprile 2014: «Si manipola la storia. Si appiattisce tutto nella banalità. Ha ragione Renzo Gattegna, il presidente delle Comunità ebraiche italiane. Usare Levi e la Shoah per la campagna elettorale «solletica i più bassi sentimenti antisemiti». Vuole dire togliere significato alla persecuzione anti-ebraica: è questo il prezzo della banalizzazione. […] Il gesto di Grillo non ha invece nessuna dignità trasgressiva. Puro borbottio ignorante. […] Del resto, non è la prima volta che Beppe Grillo costeggia pericolosamente la tentazione del luogo comune antisemita. Il suo blog rigurgita di veleni antiebraici».

Gad Lerner, L’ignoranza e lo sfregio, “La Repubblica”, 15 aprile 2014: «Eppure questa non è vicenda che riguardi solo la sensibilità ebraica di fronte alla memoria della Shoah. […] No, ne sia o meno consapevole, ben altro Grillo fa traballare col suo rabbioso istinto comico distorto in messaggio politico: egli mina alla radice una regola elementare di civiltà per cui non si scherza su una tragedia storica fingendo di assimilarsi a chi ne fu vittima. Mi auguro che stavolta a sentirsene offesi siano anche molti dei suoi sostenitori, e in qualche modo riescano a farglielo capire. […] Rinunciare alla categoria umana della gravità, al senso del tragico immanente nella nostra vicenda esistenziale. In ciò egli fa seguito a una comunicazione politica che già in Italia era degenerata attraverso l’uso scomposto della barzelletta, il ricorso impunito alla metafora bellica, all’oltraggio razzista mascherato da battuta umoristica».

Alessandra Longo, Insulti alla Montalcini, lite con Pacifici. L’antisemitismo nel circo del leader, “La Repubblica”, 15 aprile 2014: «E se qualcuno s’indigna chi se ne frega, come direbbe Benito. Grillo e gli ebrei: storia lunga. E anche molto sgradevole. A cominciare dalle parole che il comico pronunciò nel lontano 2001 nei confronti di Rita Levi Montalcini. La chiamò «vecchia puttana», accusandola di essersi fatta pagare da un’azienda farmaceutica il premio Nobel. Lei querelò, lui pagò la multa. E non era nemmeno la prima volta che si cimentava ad offendere. […] Antisemitismo da bar, l’hanno definito. Ora, dopo l’ultima performance, Auschwitz e Primo Levi usati per lo show, il giudizio dovrà essere più tranchant. Il comico non fa ridere, il politico ancora meno. Aveva visto giusto Bet Shlomo, portavoce della sinagoga di Milano: «Grillo ha un problema, non solo con Israele, ma anche con gli ebrei». Era il 2012».

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AGGIORNAMENTO del 22 aprile 2014:
Ilvo Diamanti affronta il tema del populismo, in Italia e in Europa. Sotto questa etichetta vengono associate forze politiche diverse tra loro, ma unite dal parlare «in nome del “popolo sovrano” che decide da solo». Diamanti specifica, tuttavia, che «se il populismo è comunicazione personale diretta senza mediazione, allora va ben oltre la Lega, Berlusconi e Grillo. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, politicamente. [Questo può accadere] perché il popolo ha bisogno di un capo che gli indichi i suoi nemici. [La conclusione è che] diventa difficile dire chi sia populista. O meglio, chi non lo sia. Perché tutti coloro che ambiscano a imporsi sulla scena pubblica debbono usare uno stile “populista”». In altre parole, Diamanti propone di abbandonare l’accezione negativa con cui siamo stati abituati a considerare il termine “populismo” e di prendere atto che questa forma di linguaggio politico (ma è solo un linguaggio? è solo una strategia comunicativa?) appartiene a tanti partiti/movimenti (tutti?). Purtroppo, però, non fa chiarezza su quale sia il significato che – adesso – si debba attribuire al termine “populismo”: vuol dire, infatti, «parlare direttamente al “popolo”» o parlare «in nome del “popolo sovrano” che decide da solo»? Le due sfumature sono simili, ma non sono la stessa cosa. E, in ogni caso, entrambe, a rigore, sono impossibili. La seconda, tuttavia, lo è di più (ed è quella che temo maggiormente).
(Siamo tutti populisti, in “La Repubblica”, 22 aprile 2014)

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AGGIORNAMENTO del 24 aprile 2014:
Sullo svuotamento delle parole (in questo momento, in particolare, “populismo”), Alessandro Robecchi ha scritto: Populista e antieuropeista, il vocabolario delle libertà (“MicroMega”, 24 aprile 2014).

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AGGIORNAMENTO del 29 aprile 2014:
La campagna elettorale per le Europee sta entrando nel vivo, i leader che stanno scontrandosi sono essenzialmente tre, in Italia, e due di questi, fino ad ora, si sono distinti per una strategia fortemente aggressiva. Anche il terzo contendente, per la verità, non ci va leggero, ma il suo stile ha una differenza di fondo, spiega Marco Bracconi: «[…] Se c’è – come indubbiamente c’è – una aliquota di populismo nel modo con cui Renzi esercita la sua leadership, essa è di una natura molto diversa da quella dei campioni populisti del nostro tempo. Non è quella di Berlusconi, sempre in bilico tra paternalismo e vittimismo; né quella di Grillo, strutturata in uno schema culturale evidentemente affidatario-religioso […]», QUI (o qui).

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AGGIORNAMENTO del 19 maggio 2014:

  • Pierluigi Battista (“Corriere della Sera”, 18 maggio 2014) ha scritto un editoriale sul linguaggio che Beppe Grillo sta tenendo durante la campagna elettorale per le Europee del 25 maggio 2014: Grillo ha varcato con freddezza un’altra soglia.
  • In questi giorni è tornato a circolare un estratto del libro Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana di Massimo Recalcati (libro-intervista curato da Christian Raimo, edito da Minimum Fax). Si tratta di una pagina pubblicata da “Vita” il 26 agosto 2013: Analisi psicopatologica del grillismo. I giudizi fondamentalisti pararivoluzionari di Grillo “sono ispirati da un fantasma di purezza che troviamo al centro della vita psicologica degli adolescenti [il cui furore] non è in grado di generare davvero un mondo diverso. Può solo chiamarsi fuori dalle responsabilità che scarica integralmente sull’Altro ribadendo la sua innocenza incontaminata. [Eppure] non c’è cambiamento autentico se non attraverso il rispetto delle generazioni che ci hanno preceduto, se non attraverso una soggettivazione, una riconquista dell’eredità che viene dall’Altro. […] Lo psicoanalista, per vizio professionale, guarda sempre con sospetto chi si ritiene portatore di istanze di purificazione della società, chi agisce in nome del bene. Lo psicoanalista sa che chi si ritiene puro non ha tolleranza verso la diversità“.

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Studio il rapporto tra gli esseri umani e i loro luoghi, soprattutto quando si tratta di luoghi "a rischio"
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6 risposte a L’interprete unico del popolo e della memoria

  1. giogg ha detto:

    “La Repubblica”, 22 aprile 2014, QUI

    SIAMO TUTTI POPULISTI
    Se è comunicazione personale diretta, allora va ben oltre la Lega, Grillo e Berlusconi. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi
    di Ilvo Diamanti

    C’è un fantasma che si aggira in Europa e in Italia. Inquietante e opprimente. Il populismo. Una minaccia diffusa, che echeggia in questa confusa campagna elettorale, in vista delle Europee. Eppure “mi” è difficile spiegare di che si debba avere “paura”.
    Il populismo, infatti, associa forze politiche diverse e, talora, opposte fra loro, ma “unite” contro l’Unione Europea e contro l’Euro. Il termine, ad esempio, viene applicato al Front National, in Francia, e alla Lega, in Italia. Insieme ad altri partiti, di altri Paesi, fuori dall’Euro. Come l’Ukip, in Inghilterra. Anche se il Fn e l’Ukip si oppongono alla Ue in nome della sovranità, rispettivamente, della Francia e dell’Inghilterra. La Lega, invece, in nome dell’indipendenza dei popoli padani e contro la sovranità dell’Italia. Fino a poco più di vent’anni fa, al contrario, era a favore dell’Europa – delle Regioni. Ma la Lega è abituata a cambiare idea, in base alle convenienze. Come ha fatto nei confronti dei veneti(sti). Nel 1997, al tempo dell’assalto al campanile di San Marco, i Serenissimi, secondo Bossi, erano “manovrati dai servizi segreti italiani”. Oggi, invece, sono perseguitati dall’imperialismo romano.
    Ma la lista dei populisti va ben oltre. Coinvolge gli antieuropeisti del Nord Europa e quelli dell’Est. Per tutti e fra tutti, il Fidesz di Viktor Orbán che ha trionfato di recente in Ungheria (dove Jobbik, movimento di estrema destra, ha superato il 20%). Oltre ad Alba Dorata, in Grecia. In Italia, però, il populismo è un’etichetta applicata senza molti problemi. Riguarda, anzitutto, il M5s e Beppe Grillo. Per il loro euroscetticismo ma, soprattutto, per l’esplicita opposizione alla democrazia rappresentativa. In nome del “popolo sovrano” che decide da solo. Senza rappresentanti. Grazie al referendum che ormai si può svolgere in modo permanente nella piazza telematica. La Rete. Naturalmente, il Popolo, per potersi riconoscere come tale, ha bisogno di riferimenti comuni. Così si rivolge a un Capo. Che comunichi con il Popolo direttamente. Senza mediazioni e senza mediatori. Attraverso i Media. La Rete, ma anche la televisione. Dove il Capo parla con me. Direttamente. In modo “personale”.
    Non a caso, il Grande Populista del nostro tempo è stato Silvio Berlusconi. Il Berlusconismo, in fondo, è proprio questo: partito e Tv riassunti nella persona del Capo.
    La Rete ha moltiplicato il dialogo personale. Perché tutti possono parlare con tutti. Con il proprio nome, cognome, account e alias. Associato a un’immagine, una fotina, un marchio, un profilo. Naturalmente, c’è bisogno di un blogger, che orienti il dibattito e che, alla fine, tiri le somme. Ma che, soprattutto, dia un volto comune a tanti volti (oppure un “voto” comune a tanti “voti”). Che fornisca una voce comune a un brusio di messaggi fitto e incrociato. Senza Grillo, il M5s non sarebbe un MoVimento. Ma un’entità puntiforme priva di “identità”. Grillo, d’altronde, sa usare la Tv, oltre che la Rete (guidato da Gianroberto Casaleggio). La maneggia da padrone. C’è sempre senza andarci mai. È la Tv che lo insegue, nelle piazze e, ora e ancora, nei teatri. Riprende e rilancia i suoi video, prodotti e postati nel suo blog.
    Ma se il populismo è comunicazione personale diretta senza mediazione, allora va ben oltre la Lega, Berlusconi e Grillo. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, politicamente. Perché deve saper usare la Tv e i nuovi media. Diventare protagonista di quella che Georges Balandier ha definito “La messa in scena della politica”. Come ha fatto Matteo Renzi. Capace, meglio di ogni altro, di parlare direttamente al “popolo”. Di lanciare sfide simboliche e pratiche. In Italia, d’altronde, ogni riforma promessa è rimasta tale. Imbrigliata da mille difficoltà, mille ostacoli. Renzi, per questo, va veloce. E parla direttamente al popolo. A ciascuno di noi. Guarda dritto nella macchina da presa. E ci chiama per nome. È per questo che Grillo lo ha preso di mira, come il suo principale, vero “nemico” (politico). Perché il popolo ha bisogno di un capo che gli indichi i suoi nemici. Gli “altri” da cui difendersi. L’Europa, la globalizzazione, le banche, i mercati. Gli “stranieri”. Gli immigrati, i marocchini, i romeni, i veneti, i romani, gli italiani. E, ancora, le élite, la classe politica, i partiti, i giornalisti, i giornali, i manager, le banche, i banchieri.
    Così il catalogo dei populismi si allarga, insieme all’elenco dei populisti. Berlusconi, Grillo, Marine Le Pen (per non parlar del padre), Renzi. Ma anche Vendola, con il suo parlar per immagini e il suo partito personalizzato. Lo stesso Monti, bruciato dal tentativo di diventare pop, con il cagnolino in braccio (che fine avrà fatto Empy?).
    Uscendo dal “campo” politico, Papa Francesco è, sicuramente, il più bravo a parlare con il suo “popolo”. Il più Pop di tutti di tutti. D’altronde, alle spalle, ha esempi luminosi, come Giovanni Paolo II e, ancor più, Giovanni XXIII. E poi è argentino, come Perón. Scivola sull’onda di una lunga tradizione. Non è un caso, peraltro, che la fiducia nei suoi confronti sia molto più alta di quella nella Chiesa. Perché Francesco, sa toccare il cuore dei fedeli (e degli infedeli). E supera ogni confine. Ogni mediazione. Va oltre la Chiesa. Parla al suo popolo, senza distinzioni (visto che la fiducia nei suoi riguardi viene espressa da 9 persone su 10).
    Per questo, diventa difficile dire chi sia populista. O meglio, chi non lo sia. Perché tutti coloro che ambiscano a imporsi sulla scena pubblica debbono usare uno stile “populista”. E lo ammettono senza problemi, mentre ieri suonava come un insulto. Echeggiando Jean Leca: “Quel che ci piace è popolare. Se non ci piace è populista”. Oggi invece molti protagonisti politici rivendicano la loro identità populista. Grillo e Casaleggio, per primi, si dicono: “Orgogliosi di essere insieme a decine di migliaia di populisti. (…) Perché il potere deve tornare al popolo”. Mentre Marine Le Pen si dichiara “nazional-populista”, in nome del “ritorno alle frontiere e alla sovranità nazionale”.
    Meglio, allora, rinunciare a considerare il “populismo” una definizione perlopiù negativa e alternativa alla democrazia. Per citare, fra gli altri, Alfio Mastropaolo, ne fa, invece, parte. Come il concetto di “popolo”. Il quale, quando ricorre in modo tanto esplicito e frequente, nel linguaggio pubblico, denuncia, semmai, che qualcosa non funziona nella nostra democrazia “rappresentativa”. Perché il “popolo” non trova canali di rappresentanza efficaci. I rappresentanti e i leader non dispongono di legittimazione e consenso adeguati. Perché il governo e le istituzioni non sono “efficienti” e non suscitano “passione”. Così non resta che il populismo. Sintomo e al tempo stesso diagnosi del malessere democratico. Meglio non limitarsi a scacciarlo con fastidio. Per guarire dal populismo occorre curare la nostra democrazia
    .

  2. giogg ha detto:

    Sullo svuotamento delle parole (in questo momento, in particolare, “populismo”), Alessandro Robecchi ha scritto questo post:

    “MicroMega”, 24 aprile 2014, QUI

    POPULISTA E ANTIEUROPEISTA, IL VOCABOLARIO DELLE LIBERTA’
    di Alessandro Robecchi

    Credo avrebbe un certo successo un master universitario (ma anche un piccolo corso per principianti) sull’uso delle categorie politiche, delle formule più in voga per definire questo o quello schieramento, delle parole volatili sempre di moda e sempre alla frenetica rincorsa di un significato. Se, per dire, un papa della Chiesa di Roma, massima autorità del mondo cattolico, si sente costretto a precisare di “non essere comunista” significa che qualcosa non va, che una ridefinizione delle parole pare piuttosto urgente.
    Oggi è papa Francesco, ieri i magistrati, le toghe rosse, i sindacati dei lavoratori, quelli di sinistra in genere e altri ancora. E’ stato dato dei “comunisti” anche quelli del Pd che, poveretti, avranno tante colpe ma di sicuro non quella.
    Altre parole, naturalmente, vagano per l’aria come boomerang impazziti. La più recente e fortunata è “populista”. Gran brutta parola che parte da popolo (concetto vaghissimo e ricomparso da poco, per anni si è detto “gente”), fa il giro largo, raccoglie un po’ di furbizia oratoria, molta retorica, una discreta dose di opportunismo, e torna per colpire. Grillo, si sa, è populista (e l’ha pure rivendicato). Difficile però, in un’epoca di comunicazione diretta con il popolo (pardon…) negare che siano diversi e diffusi i populismi.
    Renzi, che impone al Pd un leaderismo personalistico, ha tratti populisti pure lui, per non dire del vecchio Silvio buonanima, che del populismo (promise la sconfitta del cancro per vincere le regionali in Piemonte, ad esempio) è stato il campione per anni e anni. Sono populiste le trasmissioni che mettono il microfono sotto il naso dei passanti e fanno di poche ben selezionate scemenze da fila alla posta teorie universali. E’ populista la facile promessa che non verrà mantenuta, eccetera eccetera.
    “Populista” è naturalmente (e in larghissima parte giustamente) considerato un insulto feroce, e basta controllare: ognuno rimprovera ad altri dosi più o meno massicce di populismo: siamo agli opposti pupulismi, e così la parola – come ogni parola maneggiata senza alcuna cura o rispetto – perde significato, diventa suono vuoto.
    Altra contrapposizione di gran moda, un portato delle imminenti elezioni, è quella tra europeisti e antieuropeisti. Detta così (e usata come la si usa) pare una di quelle contrapposizioni frontali che faranno storia. Poi, quando si va a vedere, si nota che gli “europeisti” le loro rimostranze all’Europa così come si configura oggi le fanno eccome. E pure che molti “antieuropeisti” non pensano affatto di affiliarsi all’Oceania o all’America del Sud, ma semplicemente vorrebbero un’Europa diversa. Questo, ovviamente, al netto delle posizioni estreme, tipo certe deviazioni di tipo deliziosamente paracule della Lega, che non sapendo dove sbattere la testa tra mutande verdi e investimenti in Tanzania, se la prende con l’Euro come se fosse Belfagor, punto e basta.
    Domina su tutto, a completare la confusione semantica, la perniciosa malattia del benaltrismo, per cui ad ogni critica si suole rispondere con una critica uguale e contraria. A Novara piove, dannazione! Risposta: e a Catania, allora che ci sono trenta gradi? Pura follia, insomma. E l’avvitamento è completo, le parole non hanno senso, ogni posizione che sfugga alla definizione semplicistica o a schieramenti prefissati pare indegna di cittadinanza. Il non allinearsi non è concesso, non è dato, è considerato diserzione. E come sempre quando troppi soldatini combattono, la popolazione civile se la vede male
    .

  3. giogg ha detto:

    Il 28 aprile 2014 Tommaso Ederoclite ha scritto questo status su fb:

    I No Euro in Europa? Tutti di destra, conservatori e populisti.
    Tipizzare per comprendere meglio i fenomeni è un mero esercizio accademico lo so, ma certe volte ti fa comprendere la matrice di un fenomeno, o quanto meno ti permette di metterlo in una famiglia, in gruppo e di riconoscerlo.
    Oggi mi sono divertito a vedere quali sono i gruppi “No Euro” in Europa per vedere a quale famiglia culturale e politica appartengono. Ebbene, quasi tutti provengono dalla destra sociale e conservatrice, quella più estrema per capirci. Ed hanno una matrice fortemente populista e usano un linguaggio che si basa sulla rabbia e la paura che le comunità europee vivono davanti ai processi di globalizzazione economica e di mondializzazione culturale:
    Il partito danese Danske Folkeparti è per il No Euro.
    Il partito finlandese Perussuomalaiset è per il No Euro.
    Il partito austriaco Freiheitliche Partei Österreichs è per il No Euro.
    Il partito olandese Partij voor de Vrijheid è per il No Euro.
    Il movimento tedesco Alternative für Deutschland è per il No Euro.
    Il partito francese Front National è per il No Euro.
    Il partito italiano della Lega Nord è per il No Euro.
    Poi abbia il MoVimento 5 Stelle. A loro non piace essere messi né a destra e né a sinistra, ma davanti ad una posizione forte come la loro di uscita dall’Euro io una domanda me la farei se fossi un loro elettore
    .

  4. giogg ha detto:

    “Politica Pop”, blog su “La Repubblica”, 29 aprile 2014, QUI

    RENZUSCONI?
    di Marco Bracconi

    Per la sinistra italiana la capacità di mettersi in sintonia con un sentire diffuso è una cesura molto netta con la storia degli ultimi vent’anni.
    Durante l’intero arco della Seconda Repubblica, con la sola parzialissima eccezione di Veltroni, le leadership della sinistra si sono connotate per li rami di responsabilità, istituzionalità, seriosità e analiticità. Nessun istinto e nessuna passione. Niente pancia, solo testa.
    Con un processo di lenta ma inarrestabile erosione l’approccio pedagogico con cui il Pci aveva gestito il suo richiamo di appartenenza ha finito per diventare distanza, straniamento e snobismo culturale. Perdendo la sua capacità di empatia con i cittadini e assecondando una percezione sempre più diffusa di estraneità.
    Il renzismo è l’esatto contrario di tutto questo. Rispetta le istituzioni ma le sdrammatizza continuamente. Non rottama le categorie simboliche del vincolo e della responsabilità, ma aggiunge ad esse quelle del sogno, dell’ironia e dell’insofferenza verso i tabù consolidati. Segue le liturgie dettate dal quadro politico, ma proponendole come un male necessario e non come una virtù intoccabile. Rispetta tutti gli attori in campo ma senza mai smettere di puntare dritto al suo unico vero interlocutore simbolico: l’opinione pubblica.
    Se c’è – come indubbiamente c’è – una aliquota di populismo nel modo con cui Renzi esercita la sua leadership, essa è di una natura molto diversa da quella dei campioni populisti del nostro tempo. Non è quella di Berlusconi, sempre in bilico tra paternalismo e vittimismo; né quella di Grillo, strutturata in uno schema culturale evidentemente affidatario-religioso.
    La politica pop di Renzi è un tentativo, difficile quanto ambizioso, di rispondere ad una crisi della cultura democratica dall’interno. Un azzardo che si riassume nella sensazione epidermica di avere davanti un interlocutore in qualche modo simile – perfino per differenza – a tanti suoi concittadini.
    Ad una larga parte dell’opinione pubblica italiana il premier è simpatico. Fa ridere, ma senza raccontare barzellette. E’ sarcastico fino alla spietatezza, ma senza dare del cadavere putrefatto a nessuno. E’ un uomo politico, quindi per definizione paraculo, abile e dissimulatore esattamente come Grillo, Casaleggio, Alfano e Berlusconi. Ma di una paraculaggine dissimulatoria quasi scoperta e che contiene al suo interno un elemento di concretezza e “prossimità”.
    Senza la lezione di Berlusconi e di Grillo, è perfino ovvio, Matteo Renzi non esisterebbe. Ma il Renzusconi grillino o gli endorsement furbastri di Forza Italia sono caricature grottesche di una realtà molto più complessa. Perché le cose vanno viste sempre nel loro contesto e in un quadro di sistema. E allora diventa chiaro che il renzismo, tenendo conto dello stato pietoso in cui versa il rapporto tra Palazzo e cittadini, non è l’ennesima variante della malattia.
    Al contario, e nelle condizioni date, è il suo solo anticorpo
    .

  5. giogg ha detto:

    “Corriere della Sera”, 18 maggio 2014, QUI.

    GRILLO HA VARCATO CON FREDDEZZA UN’ALTRA SOGLIA
    di Pierluigi Battista

    Ieri, nel suo comizio a Torino, Beppe Grillo ha fatto qualcosa di più che insultare, attività che peraltro non gli è nuova. Ha invece officiato il rito dell’insulto assoluto, dell’aggressività senza limiti e senza risparmio. Le campagne elettorali spesso sono il teatro della virulenza polemica, e forse non può essere diversamente. Ma la differenza è che Grillo non vuole vincere le elezioni incendiando i toni nei comizi, come si fa di solito, ma annichilire il nemico con un lessico deliberatamente oltraggioso, davanti a una folla plaudente e sempre più numerosa. Non conquistare più voti, ma mandare un messaggio ultimativo a chi si oppone alla sua marcia trionfale. Non un lessico rivoluzionario, ma una fraseologia insurrezionale, minacciosa. Fisicamente minacciosa, quando ha invitato la Polizia a non proteggere più i politici: «Alla Digos sono già con noi, alla Dia sono già con noi, ai Carabinieri sono già con noi: non date più la scorta a questa gente». Lasciateli soli e inermi di fronte alla folla inferocita. La strategia della paura, altro che toni troppo elevati.
    A Torino Grillo ha oltrepassato una soglia. Ha premuto tutti i tasti del linguaggio cruento. Ha saggiato l’umore della sua gente, che ama queste performances così teatralmente prive di autocontrollo. Dopo aver provato nei giorni precedenti incursioni insensate sulla Shoah, ieri ha insistito sull’ingiuria dal sapore storico, per cui Martin Schulz, se non «ci fosse stato Stalin, oggi sarebbe con una croce uncinata al braccio». Per poi passare, tra gli sghignazzi dei seguaci, all’oscenità esplicita, appena appesantita da una goliardia senile, accusando Renzi di essere andato a «dare due linguate a quel c…one tedesco della Merkel». Per poi andare agli improperi minacciosi contro l’inno di Mameli, in cui i fratelli d’Italia sono solo «i piduisti, i massoni, la camorra» e perciò meritevole di essere fischiato negli stadi di Genny ‘a carogna. Per finire con la promessa solenne che in futuro verranno celebrati processi sommari («processo pubblico», popolare) contro i «giornalisti, i politici, gli imprenditori che hanno rovinato questo Paese». Per ora, per carità, solo un «verdetto virtuale»: «uno sputo». Virtuale, certo. Come se fosse diverso il messaggio, l’ingiunzione a «sputare» sui nemici in una gogna che, nei casi migliori, mima una condanna esemplare da offrire in pasto al popolo in collera, nei casi peggiori anticipa condanne più corpose e meno virtuali.
    Nel linguaggio della campagna elettorale, le parole torinesi di Grillo segnano un salto, inaugurano qualcosa di decisamente più brutale e feroce di tutti gli insulti più consueti e che oramai hanno creato uno stato di quasi assuefazione. È una promessa di purificazione, da attuare attraverso un uso politico della rabbia in cui i bersagli vengono indicati al pubblico ludibrio, «processati» come responsabili e addirittura venduti allo straniero, criminalizzati in blocco e dunque additati come obiettivo da colpire. Senza scorta, perché chi tra le forze dell’ordine dovrebbe tutelarne l’integrità si sarebbe già schierato con i rivoltosi. Un linguaggio da insurrezione, non un linguaggio da campagna elettorale. Un linguaggio in cui non si vince una normale competizione, ma si combatte in un Armageddon finale che non può non risolversi con la disfatta, anche fisica, di chi soccombe e viene sottoposto alla giustizia spietata dei vincitori. Qualcosa che va al di là delle intemperanze verbali che abbiamo conosciuto (e di cui, per esempio, la Lega è stata in passato campione assoluto). Una dismisura ricercata e perseguita con freddezza. Una sintonia con un’opinione pubblica esasperata e che accoglie, come si vede nei comizi sempre più affollati di questi giorni, le sparate di Grillo con entusiasmo e parossismo. In una spirale che andrà sicuramente oltre il 25 maggio, in cui le elezioni sono solo una tappa di una guerra senza fine
    .

  6. giogg ha detto:

    “Vita”, 26 agosto 2013, QUI

    RECALCATI: ANALISI PSICOPATOLOGICA DEL GRILLISMO
    Pubblichiamo un interessante estratto da Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana di Massimo Recalcati, libro-intervista curato da Christian Raimo, edito da Minimum Fax.
    di Massimo Recalcati

    Cosa ne pensi del fenomeno Grillo? Che analisi psicopatologica ne faresti?
    In un vecchio film di Woody Allen intitolato Il dittatore dello stato libero di Bananas, si raccontano con sferzante ironia le vicende rocambolesche di un rivoluzionario che combatte l’ingiustizia della dittatura in nome della libertà e che finisce per indossare i panni di un dittatore spietato identico a quello che aveva combattuto. Ogni rivoluzione, ripeteva Lacan agli studenti del ’68, tende a ritornare al punto di partenza e la storia ce ne ha dato continue e drammatiche conferme. Anche Grillo si caratterizza per essere animato da quel fantasma di purezza che accompagna tutti i rivoluzionari più fondamentalisti. Egli proclama a gran voce la sua diversità assoluta dagli impuri: si colloca con forza fuori dal sistema, fuori dalle istituzioni, fuori dai circuiti mediatici, fuori da ogni gestione partitocratica del potere, dichiara che la sua persona e il suo movimento non hanno nulla da spartire con gli altri rappresentanti del popolo italiano che siedono in Parlamento, invoca una democrazia diretta resa possibile dalla potenza orizzontale della rete che renderebbe superflua ogni altra mediazione, ritiene che l’Italia debba uscire dall’Europa e dall’euro, giudica l’esistenza dei partiti un obbrobrio, proclama la trasparenza e la collegialità assoluta di ogni scelta politica del suo movimento, adotta l’insulto al posto del dialogo, pensa che dedicare la propria vita alla politica sia di per sé un fatto anomalo e sospetto che bisogna impedire, teorizza una permutazione rigida di tutti gli incarichi di rappresentanza; il suo giudizio sulle classi dirigenti del nostro paese fa di tutta l’erba un fascio ritenendo che sia da mandare in toto al macero, alimenta sdegnosamente l’odio verso la politica accusata di affarismo mercenario.
    Tutti questi giudizi – senza entrare nel merito del loro contenuto, che si può anche in parte condividere – sono ispirati da un fantasma di purezza che troviamo al centro della vita psicologica degli adolescenti. Si riguardi la diretta della consultazione di Bersani con i rappresentanti del Movimento 5 Stelle al tempo del suo tentativo di costituzione del governo. Cosa vediamo? È il dialogo tra un padre in difficoltà e i suoi due figli adolescenti in piena rivendicazione protestataria. Mi è subito venuto alla mente
    Pastorale americana di Philip Roth, dove si racconta la storia tormentata del rapporto tra un padre – il mitico «svedese» – e una figlia ribelle, balbuziente, prima aderente a una banda di terroristi e poi a una setta religiosa che obbliga a portare una mascherina sul viso per non uccidere i microrganismi che popolano l’aria. Il dialogo tra loro è impossibile.
    Il padre cerca di capire dove ha sbagliato e cosa può fare per cambiare la situazione, la figlia risponde a colpi di machete: sei tu che mi hai messa al mondo, non io; sei tu che hai creato questa situazione, non io; sei tu che vi devi porre rimedio, non io. Così agisce infatti la critica sterile dell’adolescente rivoltoso. Il mondo degli adulti è falso e impuro e merita solo di essere insultato. Ma quale mondo è possibile in alternativa? E, soprattutto, come costruirlo? Qui il fondamentalismo adolescenziale si ritira. La sua critica risulta impotente perché non è in grado di generare davvero un mondo diverso. Può solo chiamarsi fuori dalle responsabilità che scarica integralmente sull’Altro ribadendo la sua innocenza incontaminata… Ma di qui a dare vita a un autentico cambiamento ce ne passa, perché non c’è cambiamento autentico se non attraverso il rispetto delle generazioni che ci hanno preceduto, se non attraverso una soggettivazione, una riconquista dell’eredità che viene dall’Altro.
    Questo fantasma di purezza che ha origine in una fissazione adolescenziale della vita si trova anche a fondamento di tutte le leadership totalitarie (non di quella berlusconiana, che gioca invece sul potere di attrazione della trasgressione perversa della Legge). E sappiamo bene dove esso conduce. Ne abbiamo avuti esempi atroci nel Novecento. Lo psicoanalista, per vizio professionale, guarda sempre con sospetto chi si ritiene portatore di istanze di purificazione della società, chi agisce in nome del bene. Lo psicoanalista sa che chi si ritiene puro non ha tolleranza verso la diversità. La purga staliniana era la metafora fisiologica radicale di questa intolleranza. Lo stato mentale di un movimento o di un partito si misura sempre dal modo in cui sa accogliere la dissidenza interna. Sa tenerne conto, valorizzarla, integrarla o agisce solo tramite meccanismi espulsivi? Sa garantire il diritto di parola, di obiezione, di opinione personale oppure procede eliminando l’anomalia, estromettendola con la forza dal suo corpo?
    Grillo non ha esitazioni da questo punto di vista. Egli applica il regolamento escludendo l’eccezione, secondo il più puro spirito collettivistico. Salvo ribadire la propria posizione di eccezione. Le sue enunciazioni sono singolari, non vengono discusse prima, mentre quelle dei suoi adepti devono essere vagliate scrupolosamente dalla democrazia assoluta della rete. Si proibisce che ciascuno parli e pensi con la propria testa, si esige una sorveglianza su ogni rappresentante eletto perché non si stacchi dalle decisioni condivise. Ma l’aggressione al manifesto con il quale alcuni intellettuali si rivolgevano con speranza al Movimento 5 Stelle chiedendo che dialogasse con il centrosinistra o la minaccia di revocare l’articolo 67 della Costituzione sulla libertà di pensiero dei nostri nuovi rappresentanti parlamentari sono state prese di posizione discusse democraticamente? Come può essere credibile in fatto di democrazia un movimento che attribuisce al suo leader la posizione di incarnare una eccezione assoluta? In questo senso profondo il Movimento 5 Stelle è antipolitico. Il culto demagogico della trasparenza assoluta nasconde questa presenza antidemocratica di una leadership incondizionata. Se l’azione politica è la pazienza della traduzione, se non ammette tempi brevi, non contempla l’agire di Uno solo, il nuovo leader inneggia all’antipolitica come possibilità di avere una sola lingua – la sua – che non è necessario tradurre, ma solo applicare. Come non vedere che c’è un paradosso evidente tra l’esigenza che nessuno parli a partire dalla sua testa e le consultazioni collettive che dovrebbero rendere trasparente ogni atto e condivisa ogni presa di posizione?
    Il leader anarchico e sovrano resta esterno al movimento che ha fondato. È la sua eccezione assoluta; egli è nella posizione del padre dell’orda di cui parla Freud in
    Totem e tabù. Il culto del collettivo è un culto stalinista. Il soggetto è sacrificato, abolito, negato nella sua singolarità. Una volta avveniva nel nome della Causa della storia, oggi avviene per narcisismo egoico. L’amplificazione megalomaniaca dell’Io è propria di ogni dittatore. Ma anche la trasformazione dei soggetti in un «organo» anonimo non è una caratteristica propria di ogni regime autoritario? L’impossibilità di poter parlare a titolo personale? La cancellazione dei nomi propri? La psicoanalisi insegna che il diritto alla libertà della propria parola è insostituibile. È la ragione per la quale non ha mai avuto grande diffusione nei paesi senza lunghe tradizioni democratiche. Un leader degno di questo nome lavora alla sua successione dal momento dell’insediamento, mantenendo il movimento che rappresenta il più autonomo possibile dalla sua figura. Prepara cioè le condizioni di una trasmissione simbolica. Tutto ciò diventa di difficile soluzione quando un movimento non ha storia, non ha padri, ma un genitore vivo e vegeto che rivendica il diritto di proprietà sulla sua creatura. «Io ti ho fatta e io ti disfo», ammoniva una madre psicotica una mia paziente terrorizzata. Una leadership democratica deve sempre rispondere al criterio paterno di una responsabilità senza diritto di proprietà. Si pensi invece alla reazione di Casaleggio all’indomani delle elezioni, quando disse che se il movimento non avesse adottato certe sue indicazioni di comportamento dei neoeletti non avrebbe preteso nulla e se ne sarebbe andato. Ecco la minaccia più narcisistica possibile che un fondatore può fare: io starò con te finché tu mi assomiglierai, finché mi riprodurrai; se tu assumerai un tuo volto, una tua originalità, io non ne vorrò più sapere di te e me ne andrò.
    Il pluralismo è temuto da Grillo come da tutti i leader autoritari. Il sogno di un consenso al cento per cento è un sintomo eloquente. Come abbiamo visto era il sogno degli uomini di Babele mentre sferravano il loro attacco delirante al cielo, la loro sfida a Dio: un solo popolo, una sola lingua. No, le cose umane non vanno così. Il Signore sparpaglia sulla faccia della terra quella moltitudine esaltata obbligandola alla differenza, al pluralismo delle lingue, esigendo la pazienza della traduzione. Esistono in democrazia più lingue e ciascuna ha diritto di manifestarsi e di essere ascoltata. Guai se il fantasma di purezza si realizzasse al cento per cento. Lo ricorda giustamente Roberto Esposito: una democrazia che si realizzasse compiutamente sarebbe morta, annullerebbe tutte le differenze delle lingue nel corpo compatto della «volontà generale», darebbe luogo a una tirannide
    .

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