Il cosiddetto “ecomostro di Alimuri” è arroganza, violenza, sfacciataggine. Se quell’insulto grondante cemento è stato fermato, lo si deve alle associazioni ambientaliste della Penisola Sorrentina che per oltre 40 anni ne hanno denunciato l’indecenza. Si tratta di una volgarità che non può avere altro futuro che l’abbattimento, sebbene non dovremmo commettere l’errore di dimenticare che per quanto sia comprensibile e giusto tirare giù le statue dei tiranni, troppo spesso queste sono state poi sostituite con le effigi di altri despoti.
Infatti, nel caso di Alimuri, è già pronta la nuova minaccia, resa possibile da cavilli burocratici e spudoratezza: conservare le volumetrie, ma realizzarle in un’altra località del medesimo comune di Vico Equense.
In merito, segnalo due contributi: un articolo di Giuseppe Guida tra le pagine napoletane di “Repubblica” del 28 febbraio 2014 e un post di Antonino De Angelis del 2 marzo 2014 con alcuni documenti d’epoca. In chiusura ripropongo un dialogo avuto con un amico su fb:
“La Repubblica – Napoli”, 28 febbraio 2014, QUI
L’ECOMOSTRO DI ALIMURI RINASCE PIU’ BELLO
di Giuseppe Guida
In penisola sorrentina si sta reinventando la disciplina urbanistica. Un vero e proprio caso-studio. Con una serie di interpretazioni creative di leggi, vincoli, piani regolatori e piani paesistici, nel territorio campano dove più alta è la rendita fondiaria e il profitto immobiliare non conosce crisi, è oramai possibile costruire di tutto e a pieno regime. E questo oramai lo sanno anche i capitali provenienti da altre meno amene aree della Campania.
La vicenda della norma sui mega parcheggi interrati, costruiti e in costruzione, è fin troppo nota. Ma in penisola (il territorio urbanisticamente più vincolato d’Italia, almeno stando alle normative vigenti) è possibile paradossalmente costruire di tutto: ampliamenti, sopraelevazioni, cambi di destinazioni d’uso, lottizzazioni residenziali, strade condoni concessi a chiunque e per ogni tipo di immobile, senza distinzione e senza che gli organi superiori (Sovrintendenza, Procura) intervengano in maniera non epidermica. Persino il Provolone del Monaco è stato ipocritamente utilizzato per lucrare a spese del paesaggio. Nella legge sul cosiddetto “piano casa”, la Regione Campania ha ritenuto opportuno inserire un apposito articolo che consente di ampliare senza limiti e “indipendentemente” dalle previsioni del piano paesaggistico tutte le strutture facenti parte dell’aera di produzione del formaggio e genericamente dedicate alla produzione dello stesso. Questo laissez faire alla sorrentina è talmente sguaiato che negli ultimi anni sono statisticamente in calo gli episodi di abusivismo edilizio accertati, venendo meno presupposti e la necessità. Ovviamente non si tratta soltanto di interventi privati: due anni fa il vallone di Seiano è stato mutilato da un viadotto realizzato per essere attraversato dai camion del vicino cantiere del mega-depuratore di Punta Gradelle. Peccato che il viadotto si sia rivelato addirittura non percorribile perché “fuori norma” e ora giace abbandonato con tutta la sua mole.
In questa comoda corsa al costruire in un’area che, al contrario, vive del proprio paesaggio e di un residuo equilibrio tra intervento antropico e natura, si sta tentando di approntare la madre di tutte le varianti urbanistiche, un’operazione temeraria, che non sarebbe possibile realizzare nemmeno in un anfratto dimenticato della periferia napoletana: la traslazione dell’ecomostro di Alimuri dal costone di Meta di Sorrento al più comodo e remunerativo sito della spiaggia di Seiano. Per condurre in porto l’operazione, il Comune di Vico Equense, sul cui territorio avviene l’intera operazione, ha addirittura istituito un apposito assessorato, con un unico scopo ben definito: un assessorato monotematico all’ecomostro. L’accordo, la cui bozza dovrebbe essere già pronta (e che discende dal famigerato Protocollo d’Intesa proposto dall’allora governo Rutelli), prevede: approvazione di una variante urbanistica (con l’oramai ovvio beneplacito della Sovrintendenza e con il Tar pronto a dare man forte), demolizione del manufatto attuale, “riqualificazione” dell’area e concessione al medesimo proprietario attuale per realizzare uno stabilimento balneare a cinque stelle (in zona 1A del Piano Urbanistico Territoriale, di inedificabilità assoluta, quindi); delocalizzazione della volumetria demolita (una finta volumetria, visto che trattasi di un mero scheletro in cemento armato) per costruire un nuovo albergo vista Vesuvio sulla Marina di Seiano, proprio nei pressi dell’inutile viadotto a dieci campate, cancellando definitivamente l’intero vallone, compresi gli scorci panoramici pubblici, le visuali, ettari di uliveti e la sentieristica che attraversa il Rivo d’Arco.
Un’operazione impensabile altrove e forse pure comica (non è un caso che Cetto Laqualunque utilizza come sfondo dei suoi monologhi il costone di Alimuri), ma che lentamente si sta materializzando come possibile, perché chi è disposto a controllare, a garantire l’interesse pubblico, a decidere su come si fa cosa e su che fa cosa, ha deciso di guardare, molto più comodamente, da un’altra parte. Dalla parte du pilu.
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Pagina facebook di Antonino De Angelis, condivisa pubblicamente, del 2 marzo 2014, QUI
ALIMURI: EMBLEMA DI UNA VERGOGNA
Sono passati 43 anni (quarantatre) dall’inizio dei lavori del cosi detto ‘mostro’ in località La Conca di Meta di Sorrento (territorio di Vico Equense); 41 anni dal completamento del suo ‘scheletro’ così come lo vediamo oggi. Sul periodico Il Tralcio (dicembre 1973), che potrete leggere qui sotto, sono registrati i primi tre anni di lotta in uno alle decisioni degli organi competenti sollecitati dalla locale sezione di Italia Nostra (denuncie, sospensioni, annullamenti, pareri, ricorsi, controricorsi ecc.) da quella data (1973) ci sono state ancora pronunce da parte dei comuni, soprintendenza, ministeri, sezione urbanistica, genio civile, genio marittimo, preture, tribunali civile e penale, tar ecc.; sempre sotto il pertinace contrasto di Italia Nostra, Legambiente, WWF e dei tanti movimenti locali che ne hanno costantemente richiesto l’abbattimento. Poi è “scesa in campo” la politica: quella locale, quasi sempre nelle mani della DC e sempre connivente con la speculazione privata e pubblica, quella nazionale e infine quella regionale diretta dalla sinistra bassoliniana che per giunta ha guardato con sospetta benevolenza questa vergognosa vicenda. Ora la presunta impotenza delle istituzioni si appresterebbe a concludere la partita mediante la restituzione al privato non solo del capitale ma anche di tutti gli interessi ‘maturati’ su quello sconcio in circa mezzo secolo. E’ evidente anche a più sprovveduti che il rimedio, per il pubblico interesse, si appalesa peggiore del male dal momento che un’altra zona del comune di Vico viene candidata alla devastazione in spregio delle vigenti leggi urbanistiche e, con la stessa sprezzante arroganza nei confronti della normativa ambientale, sul sito che confina con il mare (il capitale che resterebbe alla proprietà), dovrebbe sorgere, quale risarcimento e interessi, un moderno “stabilimento balneare”; una struttura che sotto l’aspetto paesaggistico certamente risulterebbe assai più devastante del ‘mostro’ che si finge di eliminare. Qui parlare di ‘cose da pazzi’ è una banalità, così come invocare l’incapacità ad amministrare. Qui si tratta ancora e sempre di rapina del territorio e delle sue risorse assai più grave che in passato dal momento che la lezione del porto di Meta viene impunemente ignorata. Un fallimento eclatante sotto tutti gli aspetti, che ha causato l’imbarbarimento di uno degli angoli più belli e ricco di storia della costiera sorrentina.
E’ singolare come, malgrado questi comportamenti e questa politica ambientale, i responsabili istituzionali non manchino di professare la loro fede nella cultura quando, come l’esperienza ancora ci conferma, la cultura è destinata a rappresentare solo la copertina patinata del loro bruttissimo libro della quotidianità.
IMMAGINI condivise da De Angelis:

“Il Tralcio”, 22 dicembre 1973, anno VI, numero 5

Articolo tratto da “Il Tralcio”, prima parte

Articolo tratto da “Il Tralcio”, seconda parte

L’ecomostro di Alimuri (foto di Antonino De Angelis)

L’ecomostro di Alimuri
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Sulla mia pagina fb, ho commentato questa notizia con un amico:
Luca: Ho ripescato una cosa che scrissi tempo fa:
“Ci fermiamo troppo spesso a ciò che è evidente. E’ facile chiamare eco-mostro una struttura del genere. Ma se al posto di questo scheletro avessero fatto costruire un albergo 5 stelle, credete che desterebbe lo stesso ribrezzo nell’immaginario collettivo?
Ovviamente è una domanda retorica, altrimenti verrebbero definite eco-mostri (o quantomeno eco-mostriciattoli) anche molte altre strutture ultimate.
Non sono questi i cambiamenti di cui dobbiamo avere più paura, ma quelli subdoli, silenti, nascosti dietro un paravento di apparente benessere”.
Con intervento anche di Peppe:
“Purtroppo ci stiamo abituando all’omologazione del nostro territorio, siamo continuamente spinti a dimenticare il nostro paesaggio, non solo in senso puramente estetico. Insieme al bello stiamo dimenticando anche chi siamo e da dove veniamo. Un giorno, chi verrà dopo di noi si guarderà introno e scoprirà una città nuova che non riuscirà più a riconoscere nei libri e nelle immagini del passato, nè nei racconti dei propri genitori e dei propri nonni. E vi assicuro che non sarà un luogo migliore”.
Giogg: E’ ecomostruoso il pensiero che ha portato a realizzare questo scempio. La bellezza c’entra in maniera relativa: è una questione di coerenza del paesaggio, naturalmente (di rispetto della storia locale e dell’equilibrio ambientale), ma è soprattutto un tema di giustizia sociale. Personalmente ritengo pericolosi anche gli “ecomostriciattoli”, ma quello di Alimuri ha qualcosa in più: è espressione dell’arroganza del denaro, della strafottenza del potere politico arroccato e, in buona sostanza, della diseguaglianza.
Luca: Certo Giogg, il discorso sulla bellezza va comunque perfettamente a incastonarsi nel contesto.
Ma, nel mio intervento in particolare, mi riferivo a casi come questo (e tanti altri), Marina Grande nei ’50 (a destra) e nei ’70 (sinistra). Non è difficile poi trovare online foto della Marina Grande odierna. Non volendoci soffermare su tutto il resto, quella struttura in fondo a destra non sono mai riuscito a guardarla in maniera differente da come guardo il “mostro” di Alimuri, forse anche con maggior terrore.
Le foto sono tratte dall’ottima presentazione di Lia e Peppe, per la quale hai contribuito ampiamente, Save Sorrento View.

La Marina Grande di Sorrento negli anni ’70 e negli anni ’50. La collina soprastante si chiama Capodimonte.
Giogg: Ma, infatti, Luca, tutti gli ecomostri sono espressione della medesima logica colonizzante e colonizzatrice. L’accostamento delle due foto mostra in maniera lampante quale sia (stata) la mentalità aggressiva degli ultimi decenni del Novecento: la collina di Capodimonte praticamente non c’è più, soffocata da una palazzata alberghiera.
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AGGIORNAMENTO del 3 marzo 2014:
Franco Cuomo e Antonino De Angelis condividono la medesima opinione sul destino dell’ecomostro di Alimuri; si tratta di un’idea provocatoria, ma altamente significativa e a cui ho fatto riferimento anche io nelle prime righe di questo post, ovvero che il mostro resti lì dov’è, a memoria dell’indecenza che fu (e che, spesso, ancora è).
Franco Cuomo: «[…] per conto mio […] quello scheletro potrebbe rimanere lì per altri cinquant’anni esposto alla consunzione naturale degli agenti atmosferici e che ben altri mostri oggi deturpano Vico Equense e molto più recenti come il viadotto di Seiano. Se quella struttura deve essere abbattuta lo deve essere solo per liberare un tratto di costa da un rudere ingombrante e impattante e chiunque ne decida l’abbattimento non deve farlo diventare un affare! Ovvero non deve richiederne la realizzazione di una pari volumetria nella piana di Seiano […]».
Antonino De Angelis: «Sono perfettamente d’accordo con Franco Cuomo, si lasci il mostro così com’è in attesa che la natura, nel tempo, faccia il suo corso come ha già iniziato con la vegetazione spontanea e la ruggine tra le rovine. Nel futuro i nostri eredi lo potranno mostrare come reperto archeologico a testimonianza della incultura e del disprezzo per l’ambiente che ha caratterizzato il secondo Novecento in penisola sorrentina e non solo. Intanto avremo evitato nuovi sconci sia nella Conca di Mata che nel restante territorio di Vico Equense».
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