Che razza di… (razzismo)

«Tutta la storia dell’umanità, tutta la storia dell’antropologia mostrano che quanto più un popolo è meticcio – quanti più incroci, attraversamenti, contatti ha avuto – tanto più è ricca la sua cultura» (Amalia Signorelli)

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Il link porta al filmato della trasmissione televisiva «Sorgente di vita» del 28 luglio 2013: «Ieri gli ebrei, oggi i neri, gli immigrati, i diversi, addirittura le donne. Insulti, esclusione, violenza le forme del razzismo moderno nella nostra società. Dopo gli insulti al Ministro Kyenge una riflessione sul razzismo: dal manifesto degli scienziati razzisti del 1938, ai pregiudizi e alle violenze di oggi nei confronti dei diversi di ogni colore con la antropologa Amalia Signorelli e lo storico Mario Toscano».

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AGGIORNAMENTO del 10 dicembre 2013:
Annamaria Testa riferisce che uno studio dello psicologo Nigel Barber attesta che «qualsiasi punto di diversità (etnica, culturale, di genere, di orientamento sessuale) sviluppa una potenzialità creativa». L’articolo fa riferimento anche ad altri studi compiuti da Dean Simonton, James Hillman, Milton Bennet. (“Internazionale”, 10 dicembre 2013, QUI o tra i commenti qui sotto).

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AGGIORNAMENTO del 1° aprile 2014:
In accordo con la citazione d’apertura di questo post, ricordo una frase di Jacques Le Goff, che è venuto a mancare oggi (“Le Monde“, “Le Nouvel Observateur“, “Télérama“, “La Repubblica“):

« La “pureté ethnique” […] est, en général, stérile et limitée dans ses aptitudes. Les peuples issus de mélanges sont au contraire en général plus riches et plus féconds du point de vue de la civilisation et des institutions. Le croisement des hommes est une source de progrès ».
(Jacques Le Goff, “L’Europe expliquée aux jeunes“, 2007, p.47)

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L’11 maggio 2000 il “CorSera” pubblicò in anteprima le pagine conclusive della nuova edizione di «Etica per un figlio», il saggio di Fernando Savater del 1992 dedicato ai ragazzi e ai valori dominanti del futuro: tolleranza ed ecologia. Tra i vari passaggi, segnalo questo:

«Dopotutto, noi umani siamo animali gregari e pertanto ci piace vivere in gregge, vale a dire fra coloro che più ci somigliano. Vivere in gregge è come vivere davanti a uno specchio: intorno a noi vediamo sempre facce che riflettono la nostra, che parlano come noi, che mangiano le stesse cose, che ridono o piangono per ragioni simili» (Fernando Savater, qui)

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INTEGRAZIONE dell’8 marzo 2015:
In occasione dei 50 anni della marcia antirazzista e per i diritti dei neri a Selma, negli USA (foto e discorso di Obama), lo scrittore italo-americano Gay Telese ha rilasciato un’intervista a “La Stampa” in cui esprime il seguente concetto:

«Niente, la mia generazione deve morire. Fino a quando questo non succederà, e non lasceremo il passo ad una più giovane e aperta, il razzismo resterà con noi. Non solo negli Stati Uniti, ma anche in Italia: non pensiate di essere diversi voi».

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INTEGRAZIONE dell’8 marzo 2015:
Annamaria Rivera ha pubblicato sul “Corriere delle Migrazioni” un piccolo breviario intitolato “Del parlar male, anche a sinistra“, a proposito dell’uso – talvolta inconsapevole, talaltra strumentale – di particolari parole o espressioni che producono razzismo, il quale, come si sa, “poggia su una montagna costituita anche da cattive parole“.

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INTEGRAZIONE del 19 aprile 2016:
Su “Rivista Studio” Anna Momigliano racconta di una certa difficoltà della sinistra inglese nei confronti degli ebrei, segnale di una particolare concezione del razzismo, ancorato ad una visione data di tale fenomeno, dipendente cioè da una dicotomia tra “potere” e “oppressione” (in quest’ottica, “Il razzismo dunque è principalmente lo strumento con cui una maggioranza al potere, il centro egemonico, cerca di impedire l’emancipazione di una minoranza emarginata, socialmente ed economicamente. È l’insieme dei meccanismi che rendono più difficile che un ragazzo di colore diventare medico o ingegnere, perché ha accesso a delle scuole più scadenti e perché ospedali e studi legali sono meno inclini ad assumere personale di colore“). Il razzismo, però, è qualcosa di più ampio, per cui una minoranza può essere perseguitata pur non essendo discriminata: “che il razzismo possa essere anche una questione di semplice odio e non soltanto di oppressione, può essere difficile da metabolizzare (tant’è vero che sebbene “Non [risulti] che gli ebrei siano marginalizzati, svantaggiati nel mondo del lavoro o degli studi […], risulta però che, ogni tanto, gli ebrei vengano insultati – e in qualche raro caso, com’è accaduto Parigi, a Tolosa e a Bruxelles, persino ammazzati – per il loro essere ebrei“).

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Studio il rapporto tra gli esseri umani e i loro luoghi, soprattutto quando si tratta di luoghi "a rischio"
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7 risposte a Che razza di… (razzismo)

  1. giogg ha detto:

    “Internazionale”, 10 dicembre 2013, QUI

    DIFFERENZE CREATIVE
    di Annamaria Testa

    “Tutti noi cerchiamo costantemente di ricavare un senso dal mondo in cui viviamo e la sfida di riuscirci è tanto maggiore quanto più sono complesse le nostre esperienze. Sta in questa sfida la chiave della creatività”, scrive Nigel Barber su Psychology Today.
    Barber prosegue spiegando che proprio nella molteplicità di prospettive acquisite attraverso esperienze diverse dalla norma sta, per esempio, il motivo per cui negli Stati Uniti gli immigrati sembrano avere sette volte più possibilità di eccellere in campi creativi di quante ne abbiano individui le cui famiglie risiedono in America da generazioni.
    Lo stesso schema che unisce creatività e differenza si applica a chiunque abbia una “dimensione di alterità” che lo allontana dalle categorie sociali
    mainstream. Barber conclude che qualsiasi punto di diversità (etnica, culturale, di genere, di orientamento sessuale) sviluppa una potenzialità creativa.
    Ha un effetto analogo anche qualsiasi accidente esterno o situazione complicata che l’individuo sperimenta: è noto – uno dei primi ad accorgersene è stato Dean Simonton – che le persone eminenti hanno avuto in percentuale molto superiore alla media infanzie difficili e, a volte, traumatiche.
    La regola che dice “prospettive diverse = creatività maggiore” vale non solo per i singoli individui ma anche per i gruppi. Così, per esempio, è dimostrato che gruppi etnicamente eterogenei producono idee più efficaci e fattibili di quelle messe a punto da gruppi omogenei. E perfino gruppi messi insieme a caso trovano soluzioni migliori di gruppi omogenei di esperti che, proprio perché condividono una stessa formazione, la pensano tutti alla stessa maniera.
    Insomma, se
    necessity is the mother of invention, potete star certi che diversity is the mother of creativity. S’intitola proprio così un lungo appello a importare la diversità in azienda, mettendo insieme persone diverse da reparti diversi, cambiando luoghi e processi e magari introducendo un po’ di diversità anche nella vita dei manager.
    La regola vale anche per l’educazione: in
    Il codice dell’anima, il grande psicoanalista James Hillman scrive che, con i bambini, “ciò che conta è la passione, e la passione può avere un valore predittivo del talento e diventare una forza motivazionale più efficace di altri più consueti parametri non esiste un cibo giusto e un cibo sbagliato”, (per l’anima e la crescita), “basta che soddisfi l’appetito, e che l’appetito trovi un cibo che lo soddisfa”.
    “Esistono però”, continua Hillman, “nella dieta capace di risvegliare l’immaginazione alcuni ingredienti indispensabili. Tra i molti requisiti preliminari, ne elencherei almeno tre: primo, che i genitori o altri adulti intimi abbiano una qualche fantasia sul loro bambino; secondo, che nell’orizzonte del bambino siano compresi tipi eccentrici e vecchie signore un po’ strambe; e, terzo, che si trattino con rispetto le attività ossessive”.
    E certo: gestire la diversità è molto più complesso che gestire gruppi omogenei, sia a scuola, sia in azienda. Pensate solo alle quantità di equivoci che possono sorgere a causa di incomprensioni linguistiche, criteri di giudizio disallineati, priorità differenti, sensibilità e codici di cortesia non condivisi, preparazione e sfere di competenza eterogenee.
    È necessaria una dose maggiore di curiosità, flessibilità e rispetto.
    Se volete capire quanto siete avanti (o indietro) nella capacità di interagire tenendo conto delle differenze culturali, potete guardarvi la scala di Bennett, che comprende sei stadi: negazione della differenza, difesa, minimizzazione, accettazione, adattamento, integrazione.
    Bennett indica anche i cinque passaggi necessari per arrivare all’integrazione: diventare consapevoli delle differenze, depolarizzare i pregiudizi negativi e riconoscere le somiglianze tra culture, afferrare l’importanza delle differenze interculturali, esplorarle e imparare a conoscerle, sviluppare empatia
    .

  2. giogg ha detto:

    “Corriere della Sera”, 11 maggio 2000, QUI

    Anteprima. Esce un’edizione aggiornata del saggio dedicato ai ragazzi dal filosofo spagnolo. Pubblichiamo le pagine conclusive: i valori dominanti del futuro saranno tolleranza ed ecologia
    SAVATER: ECCO LA NUOVA ETICA PER I FIGLI
    Dobbiamo rispettare le leggi non scritte dell’ ospitalità Tutti fratelli nel grande appartamento che è la Terra
    di Fernando Savater

    Anticipiamo parte dell’appendice che Fernando Savater ha scritto per la nuova edizione di «Etica per un figlio», che esce domani da Laterza (pagine 130, lire 18.000). Il saggio, pubblicato in Italia nel ’92, dove ha venduto 150 mila copie, ha inaugurato un genere, quello di temi alti spiegati ai ragazzi, e ha reso popolare nel mondo il filosofo spagnolo.

    L’essere umano esiste in tre gradi interrelati: come individuo, come società, come specie. Nel corso dei secoli, ha contato molto la società (il gruppo, la tribù, la comunità, la nazione) e poco l’individuo: e tuttora esistono alcuni collettivisti che vorrebbero riportarci a quella fase arcaica. È da pochi secoli che l’individuo ha incominciato a essere sempre più importante, inducendo necessariamente le società in cui viviamo a trasformarsi, rendendole più democratiche e aperte per tutti, perché nessuno vuole più essere il semplice ingranaggio di una macchina sociale, quantunque possa essere ben lubrificata. Tuttavia, l’aspetto caratteristico del nostro secolo – e se non vado errato, ancor più di quello venturo – è prendere coscienza del fatto che apparteniamo a una stessa specie e che l’umanità deve cercare di salvarsi tutta insieme… altrimenti moriremo tutti, chi prima, chi poi. Parlare di «specie umana» o, per meglio dire, di «umanità», non significa utilizzare un concetto puramente biologico (come quando classifichiamo altre specie animali o vegetali), ma mirare a un progetto comune, a un modo di comprendere l’essenza umana a partire dalla sua fondamentale fratellanza. Equivale a qualcosa che potremmo riassumere così: essere umano significa non riuscire a capire se stessi se si trascura e s’ignora il resto dei propri simili. Un autore latino disse: «Sono umano e nulla di ciò che è umano mi è alieno»; vale a dire, rispetto al meglio e al peggio degli esseri umani è possibile avere giudizi e valutazioni differenti, ma non si può mai essere indifferenti, poiché l’umanità dell’altro chiama sempre in causa la mia… Non prendiamoci in giro: vivere così non è affatto comodo, soprattutto se vogliamo andare oltre le belle parole. Non c’è nulla di più facile che amare l’Umanità in astratto, specialmente quando si vuole apparire sublimi per fare bella figura: dopo tutto, nessuno di noi incontrerà mai la signora Umanità né sarà costretto a cederle il posto in autobus; ma ciò che è veramente difficile è rispettare gli altri esseri umani reali e ancor di più se sono «strani», se vengono da lontano, se parlano un’altra lingua e hanno altre credenze, come ormai accade in molte nostre città. Rispettare il prossimo che ci somiglia è abbastanza ovvio, perché in certo modo equivale a rispettare noi stessi, visto che siamo come lui: la difficoltà inizia quando dobbiamo accettare il diverso, l’estraneo, lo straniero, l’immigrante. Dopotutto, noi umani siamo animali gregari e pertanto ci piace vivere in gregge, vale a dire fra coloro che più ci somigliano. Vivere in gregge è come vivere davanti a uno specchio: intorno a noi vediamo sempre facce che riflettono la nostra, che parlano come noi, che mangiano le stesse cose, che ridono o piangono per ragioni simili. Ma all’improvviso arriva qualcuno che non appartiene al nostro clan, che ha un odore o un colore diverso, che parla un’altra lingua. Allora, l’animale gregario che è in ognuno di noi si spaventa, incomincia a diffidare, si sente in pericolo, crede di essere «invaso». In una parola, ecco che diventiamo aggressivi e pericolosi… Poiché ad aumentare non sono soltanto gli abitanti del pianeta, ma anche le possibilità di viaggiare e di comunicare, la presenza di «estranei» nel nostro gregge o nella nostra tribù cresce continuamente. Se vivi in una grande città te ne sarai già abbondantemente accorto; se studi in un centro come si deve, di quelli che non escludono né discriminano nessuno per mantenere la loro disumana «purezza» gregaria, forse, nella scuola o istituto che frequenti, siedi accanto a qualcuno che non è proprio uno «specchio» per te, ma che si presenta in un modo abbastanza diverso. Ed è molto probabile che, all’inizio, ti farai dei problemi… come, ovviamente, se ne farà l’altro! Ora sappi che state per dare inizio a qualcosa in comune: sentirvi e sapervi «diversi» da colui che, comunque, vive al vostro fianco. Ma se controllerai i tuoi istinti gregari, se non ascolterai i cupi mugugni della pecora stolta in agguato dentro di te, scoprirai presto che con quel forestiero condividi molte più cose di quelle che in apparenza ti distinguono da lui. Capirai che vi assomigliate nelle cose essenziali, che anche lui, o lei, è nato, e ama, e lotta e sa, proprio come te, che un giorno dovrà morire. Capirai che come te ha bisogno di parole e di comprensione, di appoggio e di riconoscimento. Ora mi viene in mente un cartone animato dei Simpson: Homer va in visita in una specie di manicomio dove gli additano un tipo stranissimo, feroce e peloso; i dottori dicono che nessuno ha mai sentito quel mostro proferire la benché minima parola umana. Homer, allora, lo saluta: «Ciao!». E anche la fiera grugnisce un «ciao». Tutti i medici accorrono ammirati per studiare il prodigio, mentre il presunto mostro mugugna: «Era ora che qualcuno mi salutasse!». La maggior parte delle volte, l’altro risulta incomprensibile perché nessuno ha la pazienza di prendersi la briga di cercare di farsi capire… In lingua castigliana, come peraltro anche in italiano, la parola «ospite» indica due ruoli apparentemente contrapposti: quello di colui che alloggia in casa d’altri e quello di colui che invece ospita un altro in casa propria. Ma forse questo duplice uso un poco sconcertante racchiude in sé una verità molto profonda sulla condizione umana. Perché tutti siamo nello stesso momento il forestiero ricevuto in casa d’altri e l’anfitrione che lo ospita e deve preoccuparsi del suo benessere. Dal momento in cui nasciamo – e non dimenticate che nascere è «giungere in un Paese straniero», come disse un antico greco – dipendiamo dall’ospitalità che altri vorranno darci e senza la quale non potremmo vivere. Tuttavia, siamo sempre noi che presto dobbiamo occuparci di altri che sono arrivati dopo, cercando di farli sentire il più possibile a loro agio. Non domandarti che diritto abbia l’altro alla tua ospitalità; ricordati solo che anche tu ne hai avuto bisogno e l’hai avuta; e se non l’hai avuta, ricordati che volevi ottenerla e tratta l’altro come avresti voluto essere trattato tu e non come, di fatto, ti hanno trattato. In fin dei conti, tutti gli uomini sono immigranti in questo pianeta e, certamente, chi arriva da un altro Paese non viene da più lontano né è più straniero di colui che per la prima volta sboccia dal grembo di sua madre. Chi può somigliarti di più, chi ha più diritto a chiamarsi tuo simile e perfino fratello di colui o colei che arriva da chissà dove e quanto più da lontano, tanto meglio? Forse tutta l’ etica di cui tanto si parla può riassumersi nel rispetto delle leggi non scritte dell’ospitalità: in tutte le epoche e a tutte le latitudini, comportarsi in maniera ospitale con chi ne ha bisogno, e per questo ci assomiglia, significa essere realmente umani. Poiché non sappiamo da dove veniamo, chiunque venga da chissà dove merita il nostro complice occhiolino… Tuttavia, gli obblighi dell’ospitalità vanno ben oltre. Il buon ospite, in tutt’e due i sensi della parola, non cerca solo di essere fraterno nei confronti dei suoi simili, ma anche di rispettare e curare al massimo la casa in cui si alloggia o ospita il suo prossimo. E questa «casa» di tutti è proprio il pianeta Terra in cui viviamo (anche se forse tu o i tuoi figli, chissà, avrete l’occasione di occupare qualche altro «appartamento» dell’enorme vicinato del sistema solare!). Per il momento, non abbiamo altra dimora in tutto l’universo che questo modesto corpo celeste di terza categoria in cui ci siamo ormai abituati a vivere. Se lo inquiniamo senza rimedio o distruggiamo le sue risorse, da dove tireremo fuori, a medio termine, una buona alternativa?

  3. giogg ha detto:

    In occasione dei 50 anni della marcia antirazzista e per i diritti dei neri a Selma, negli USA (foto e discorso di Obama), lo scrittore italo-americano Gay Telese ha rilasciato un’intervista a “La Stampa” in cui esprime il seguente concetto: «Niente, la mia generazione deve morire. Fino a quando questo non succederà, e non lasceremo il passo ad una più giovane e aperta, il razzismo resterà con noi. Non solo negli Stati Uniti, ma anche in Italia: non pensiate di essere diversi voi».

    “La Stampa”, 7 marzo 2015, QUI

    NON VEDREMO LA FINE DEL RAZZISMO FINCHE’ CI SARA’ LA NOSTRA GENERAZIONE
    di Paolo Mastrolilli

    Gay Talese c’era, cinquant’anni fa a Selma. Era andato a raccontare la marcia per il New York Times, che adesso lo ha rimandato in Alabama a ripercorrere la storia. «Ma è tutto un gioco, una photo opportunity, un’ipocrisia. Sembra che questo piccolo paese del sud sia la radice del problema, quando invece lo stesso razzismo esiste dentro di noi, ovunque nel paese. Andremo, faremo le parate, e poi torneremo alle nostre vite segregate».

    Qual è il ricordo più vivo che ha della marcia?
    «Vedere Martin Luther King combattere una battaglia di cento anni prima».

    Cioè?
    «Un premio Nobel per la pace, una figura nota in tutto il mondo, che marciava nel 1965 in Alabama per cercare di affermare gli stessi principi per cui nel 1865 era stata combattuta la Guerra civile. Nulla era cambiato, in un secolo, e questa era la vera tragedia dell’America».

    Perché dice che Selma non era la radice del problema?
    «Io sono cresciuto nel New Jersey, e vicino al negozio di sarto di mio padre vedevo spesso riunirsi degli uomini vestiti di bianco, che appartenevano al Ku Klux Klan. Il razzismo era dentro di noi, ovunque, solo che noi eravamo ipocriti e lo nascondevamo. Su questo aveva proprio ragione Wallace».

    Chi, il governatore dell’Alabama? Ma non era quello che aveva ordinato di picchiare i manifestanti a Selma?
    «Una volta l’ho intervistato, all’hotel Pierre di New York, nel cuore dell’Upper East Side privilegiato di Manhattan. Mi prese per un braccio, mi portò alla finestra, e indicandomi la Fifth Avenue mi disse: “Voi ve la prendete con il Sud, ma non siete diversi. Mi indichi una sola persona nera che vede per strada”. Ci pensai su, e mi resi conto che aveva ragione. Io abitavo e abito nell’Upper East Side: non avevo allora, e non ho oggi, un solo vicino di casa nero. Segregazione economica e sociale non dichiarata».

    Ma alla Casa Bianca c’è un presidente nero.
    «Certo. Se è per questo, il sindaco di New York de Blasio è sposato con una donna nera e ha due figli misti. Sono eccezioni, però. La realtà quotidiana della gente normale non è questa. La nostra società è ancora segregata, e lo è anche la vostra».

    Cosa intende dire?
    «Io sono italiano, mio padre era emigrato dalla Calabria. Qual è la nostra storia? Dopo il Risorgimento e l’unificazione guidata da Garibaldi, la Calabria, la Sicilia, il sud in generale, erano l’Alabama dell’Italia. La gente povera moriva di fame e cercava di costruirsi una vita decente altrove, come mio padre che partì per l’America. Arrivati qui fummo maltrattati e discriminati, ma poco alla volta riuscimmo ad affermarci. E quando ci integrammo cosa facemmo? Cominciammo a riservare lo stesso trattamento alle altre minoranze, maltrattando i neri come facevano tutti gli altri bianchi. Nel frattempo il razzismo esplodeva anche in Italia».

    Cioè?
    «Ricordo che una volta venni a Roma, con l’ambasciatore americano Rabb, e l’autista che ci portava si lamentava: “Questa città – diceva – si sta riempiendo di meridionali. Con tutti questi calabresi, sembra di stare in Africa”. Io sono calabrese – pensai – e sono venuto dall’America fino a qui per farmi insultare da questo ignorante. Non lo vede? Non c’è alcuna differenza fra questo razzismo, e quello di Selma contro i neri».

    L’Italia è razzista come l’Alabama del 1965?
    «Certo. Infatti ora che siete ricchi, e gli immigrati vengono da voi, non volete i neri. Ma anche l’America è razzista come l’Alabama del 1965, tutti lo siamo».

    Come ne veniamo fuori?
    «E’ un problema economico, perché i neri continuano a non avere le stesse opportunità dei bianchi, ma soprattutto culturale. E a questo punto temo che non sia più possibile cambiare il cuore degli uomini. Bisogna aspettare che muoiano le generazioni razziste, ed educare meglio i giovani, nella speranza che crescano senza questi pregiudizi. E’ difficile, però, perché da ragazzi siamo sensibili, ma invecchiando diventiamo tutti più conservatori e intolleranti verso gli altri»
    .

  4. giogg ha detto:

    “Corriere delle Migrazioni”, 8 marzo 2015, QUI

    DEL PARLAR MALE, ANCHE A SINISTRA
    di Annamaria Rivera

    Per ciò che riguarda migrazioni e diritti dei migranti, razzismo e antirazzismo, il discorso pubblico italiano, anche nelle sue varianti non-razziste, spesso sembra atteggiarsi come se ogni volta fosse la prima volta: gli antefatti e lo sviluppo di questo o quell’accadimento, questo o quel problema, questa o quella rivendicazione, questo o quel concetto sono semplicemente rimossi.
    Una tale smemoratezza non riguarda solo le retoriche pubbliche maggioritarie, ma talvolta influenza l’atteggiamento e il discorso delle minoranze attive, riflettendosi anche nel linguaggio e nel lessico, influenzati dalla vulgata mediatica e perfino dal gergo del senso comune.
    Mentre li credevamo archiviati grazie a un lungo lavoro critico, tornano in auge formule e vocaboli legati a schemi interpretativi, anche spontanei, del tutto infondati. Non potendo farne l’intero catalogo, ci soffermiamo solo su alcuni.

    Razza-razziale
    Il razzismo è anzitutto un’ideologia, quindi una semantica: è costituito da parole, nozioni, concetti. Sicché l’analisi critica, la decostruzione e la denuncia del sistema-razzismo hanno obbligatoriamente un versante lessicale e semantico. Così se tu parli di discriminazione razziale, invece che razzista, puoi finire inconsapevolmente per legittimare la nozione e il paradigma della razza, suggerendo l’idea che a essere discriminate siano persone differenti per ‘razza’.
    A incorrere in sbavature lessicali di tal genere possono essere anche locutori antirazzisti, per di più colti; perfino istituzioni e associazioni deputate a contrastare il razzismo o addirittura a promuovere il rispetto di codici deontologici nel campo dell’informazione. Questo appare oggi tanto più paradossale se si pensa che pure in Italia, per iniziativa di un gruppo di antropologi-biologi, poi anche di antropologi culturali, è in corso una campagna per la cancellazione di ‘razza’ dalla Costituzione e dai codici .

    Etnia-etnico
    Frequente, anche in ambienti antirazzisti, è l’abuso di locuzioni quali ‘società multietnica’, ‘quartiere multietnico’, ‘corteo multietnico’… Sebbene qui usate in senso intenzionalmente positivo, formule di tal genere rinviano pur sempre a ‘etnia’: una nozione assai controversa, poiché basata sull’idea che esistano gruppi umani fondati su qualche principio ancestrale, su qualche identità originaria (Cfr R. Gallissot, M. Kilani, A. Rivera,
    L’imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari 2012).
    Nei contesti discorsivi mainstream, ‘etnici’ sono sempre gli altri, i gruppi considerati particolari e differenti dalla società maggioritaria, ritenuta normale, generale, universale. Non è raro che ‘etnia’ sia adoperata, in riferimento alle minoranze, ai rom, alle popolazioni di origine immigrata, come sostituto eufemistico di ‘razza’. Tanto che perfino nella cronaca della migliore stampa italiana è possibile imbattersi in locuzioni paradossali quali individui di etnia latinoamericana o addirittura di etnia cinese; mentre mai ci è capitato di leggere di etnia europea o di etnia nordamericana.
    In ogni caso, che sia per pregiudizio o intento discriminatorio, per incompetenza o sciatteria, quando si tratta di qualificare cittadine/i di origine immigrata o appartenenti a minoranze sembra non valere il criterio neutro, o almeno simmetrico, della nazionalità.

    Guerra tra poveri
    E’ una delle retoriche più abusate, anche a sinistra, perfino in quella che si pretende colta. Di solito la si adopera in riferimento a due categorie di presunti belligeranti, immaginati come simmetrici, una delle quali è costituita da qualche collettività di migranti o di rom.
    L’abuso di questa formula è indizio di un tabù o di una rimozione: si ha difficoltà ad ammettere che il razzismo possa allignare tra le classi subalterne, così da scatenare guerre contro i più poveri. Guerre asimmetriche, non solo perché di solito gli aggressori sono i nazionali, ma anche perché essi, per quanto disagiati possano essere, godono pur sempre del piccolo privilegio della cittadinanza italiana, che conferisce loro qualche diritto in più.
    Un tale razzismo – che nella letteratura sociologica è detto “ordinario” o “dei piccoli bianchi” – spesso attecchisce tra coloro che patiscono qualche forma di disagio sociale e/o di marginalità anche spaziale. Favorito da dissennate politiche abitative, urbanistiche, più in generale sociali, spesso è anche fomentato ad arte dagli imprenditori politici del razzismo.
    A volte, la formula passe-partout di ‘guerra tra poveri’ non ha la minima base che ne giustifichi l’utilizzo, come nel caso dei ripetuti assalti armati al Centro per rifugiati di Viale Morandi, nel sobborgo romano di Tor Sapienza, a novembre del 2014. Il tentato pogrom contro adolescenti fuggiti da guerre e altre catastrofi fu spacciato come espressione spontanea della rabbia dei residenti esasperati dal ‘degrado’, quindi come un episodio della ‘guerra tra poveri’ . In realtà, a dirigere gli assalti, cui partecipò un numero di residenti limitato, fu una squadraccia di ‘fascisti del Terzo Millennio’, a loro volta probabili esecutori, di mandanti legati a Mafia Capitale.
    Poco tempo prima, di ‘guerra tra poveri’ si era parlato, anche a sinistra, a proposito di un crimine particolarmente odioso, accaduto il 18 settembre 2014 alla Marranella, quartiere romano del Pigneto-Tor Pignattara: il massacro a calci e pugni di Muhammad Shahzad Khan, un pakistano di ventotto anni, mite e sventurato, per mano di un bullo di quartiere, un diciassettenne romano, istigato dal padre fascista.
    Numerosi sono i precedenti di questo pigro schema interpretativo. Che di volta in volta è stato applicato ai pogrom contro i rom di Scampia (2000) e di Ponticelli (2008), istigati dalla camorra e da interessi speculativi; alla strage di camorra di Castelvolturno (2008); ai gravi fatti di Rosarno (2010), anch’essi fomentati da interessi mafioso-padronali.

    Tutto ciò è indizio di un’avversione crescente per le interpretazioni complesse, favorita dal chiacchiericcio socialmediale, che a sua volta contribuisce al crescente conformismo che caratterizza il dibattito pubblico. Il razzismo, si sa, poggia su una montagna costituita anche da cattive parole. Decostruirle e abbandonarle non è fare esercizio astratto di ‘politicamente corretto’ (sebbene quest’ultimo non sia affatto disprezzabile), bensì intaccarne il sistema ideologico e semantico.

  5. giogg ha detto:

    “Rivista Studio”, 19 aprile 2016, QUI

    CORBYN E LA SUA IDEA DI SINISTRA
    Il leader laburista è legato a una concezione del mondo ferma agli anni Settanta, e i suoi problemi con l’antisemitismo ne sono una dimostrazione.
    di Anna Momigliano

    In queste settimane il Labour di Jeremy Corbyn è alle prese con dure, e purtroppo non del tutto infondate, accuse di antisemitismo. Nessuno, a scanso di equivoci, insinua che Corbyn odi gli ebrei: quello che gli si rimprovera è di avere preso sottogamba, e troppo a lungo, frasi e atteggiamenti smaccatamente antisemiti da parte di esponenti del suo partito. Il lato interessante nella vicenda è che, oltre a una serie di cadute di stile tra i laburisti, evidenzia anche una questione più ampia. E cioè che una parte della sinistra europea ha una visione poco matura del razzismo e sta affrontando le questioni ad esso legate con schemi fermi agli anni Settanta. Eletto con una maggioranza schiacciante alla guida del partito lo scorso settembre, Corbyn è talvolta percepito come un politico di rottura che ha spinto il Labour su posizioni radicali, allontanandolo dalla sua tradizione moderata vicina ai Democratici americani. Sotto alcuni aspetti però, la sua visione del mondo è un ritorno al passato e riflette un modo di pensare comune anche tra l’ala sinistra dei liberal americani, una divisione del mondo tra “centro” e “margini”.
    Recentemente una consigliera comunale di Luton, Aysegul Gurbuz, si è dovuta dimettere per avere twittato che Hitler era «la migliore persona della storia». Poco prima un ex sindaco laburista dell’area metropolitana di Bradford, Khadim Hussain era stato sospeso dal partito per avere protestato su Facebook il fatto che si insegnasse nelle scuole britanniche la storia dell’Olocausto, definito come «l’uccisione di sei milioni di sionisti». Anche una giovane attivista della sezione del Labour per i diritti dei lavoratori, Vicki Byrne, è stata sospesa per tweet antisemiti (pare riguardassero il «nasone» di uno dei due Miliband). Le misure disciplinari sono state intraprese soltanto dopo le dure proteste della comunità ebraica. Byrne in particolare era già stata sospesa per affermazioni antisemite, ma poi era stata riammessa nel partito.
    A rendere l’idea dell’aria che tira, inoltre, il presidente degli studenti laburisti dell’università di Oxford Alex Chalmers si è dimesso a febbraio sostenendo che troppi suoi colleghi «hanno dei problemi con gli ebrei»: tra le cose che segnalava, l’utilizzo frequente del termine “Zio” (che non sta per “ciao zio”, ma è un’abbreviazione dispregiativa di “Zionist”) per rivolgersi a studenti ebrei, e l’opinione diffusa che le segnalazione di episodi di antisemitismo fossero percepite come «allarmi ingiustificati da parte di sionisti che urlavano al lupo, al lupo!». E in effetti sembra la percezione del fratello di Corbyn, Piers. Che, quando il presidente delle comunità ebraiche Jonathan Arkush ha cominciato a protestare, ha commentato: «I sionisti non riescono a sopportare la sola idea che si parli di diritti palestinesi». Corbyn ha difeso il fratello. A onor del vero, ha anche aperto un’indagine sui casi di antisemitismo nel suo partito, ma lo ha fatto soltanto dopo che il tema era parecchio montato sui media, inclusi giornali amici come il Guardian. In altre parole: ha deciso di prendere la questione seriamente quando non aveva altra scelta.
    L’impressione, dunque, oltre a un problema di antisemitismo vero e proprio tra certe frange marginali del Labour, ci sia anche un problema di tolleranza dell’antisemitismo in frange assai meno marginali. In molti sono convinti che la questione sia soprattutto legata al conflitto israelo-palestinese. Come ha riassunto il commentatore del Guardian Jonathan Freedland, in passato Corbyn ed altri, quando si sono «trovati davanti a potenziali alleati sulla questione palestinese» si sono dimostrati «disposti a chiudere un occhio su eventuali oscenità che avrebbero potuto dire sugli ebrei». Freedland nota come in passato Corbyn sia stato vicino a personaggi come Paul Eisen, dichiarato negazionista, e lo sceicco Raed Salah, che sostiene gli ebrei facciano il pane azzimo col sangue dei bambini cristiani. Sempre sul Guardian, anche Tony Klug legava la questione al conflitto israelo-palestinese. La sua analisi è questa: parte del Labour tende a condonare l’antisemitismo quando proviene da attivisti filo-palestinesi; inoltre tende a guardare con diffidenza gli ebrei, o per lo meno quelli che sostengono Israele; questo avviene soprattutto perché proietta sullo Stato ebraico i crimini coloniali commessi dalla Gran Bretagna, dimenticando il fatto che Israele sì ha commesso crimini, ma a differenza dell’Impero britannico è nato da un’esigenza di sopravvivenza e non dalla sete di dominio.
    Questa analisi può essere molto utile a spiegare il tradizionale schieramento della sinistra nel campo filo-palestinese. Aiuta un po’ meno però a spiegare come una parte della sinistra sia giunta a prendere sottogamba attacchi rivolti agli ebrei, non agli israeliani o ai “sionisti”. Forse se a sinistra talvolta si tende sottovalutare il razzismo contro gli ebrei, il problema c’entra poco con la concezione della politica estera e c’entra parecchio con la concezione del razzismo. Il fatto è che indignarsi per l’antisemitismo, in alcuni ambienti, è diventata una questione “poco di sinistra”, quasi non si trattasse di una forma di razzismo come gli altri. È una tema è forse più marcato in Gran Bretagna, ma non è squisitamente inglese. Uno studente di Stanford, Gabriel Knight, non solo l’ha passata liscia per avere dichiarato durante un consiglio studentesco che «dire che gli ebrei controllano i media non è antisemitismo», ma è stato difeso… dalla coalizione antirazzista.
    Com’è che si è arrivati a considerare l’antisemitismo come qualcosa di “altro” e meno serio rispetto al razzismo? Un’altra allieva di Stanford Madeleine Chang, ha raccontato che la domanda più frequente che sente tra gli altri studenti è: «Com’è possibile che gli ebrei siano oppressi se sono bianchi?». Di questa affermazione, Chang si sofferma sulla questione razziale (gli ebrei, evidentemente, non sono una “razza”, dunque chi è abituato a combattere il razzismo fatica a capire che diffondere stereotipi antisemiti è pericoloso). Ma forse il concetto più interessante sta proprio in quegli «oppressi».
    Negli ultimi quaranta o cinquant’anni una buona parte della sinistra ha affrontato la questione del razzismo principalmente in termini di “potere” e “oppressione”. Nel suo saggio del 1970 White Awareness: Handbook For Anti-Racism, considerato un classico della letteratura anti-razzista, Judith Katz ha popolarizzato la definizione di razzismo come la «somma di pregiudizio e potere». Il razzismo dunque è principalmente lo strumento con cui una maggioranza al potere, il centro egemonico, cerca di impedire l’emancipazione di una minoranza emarginata, socialmente ed economicamente. È l’insieme dei meccanismi che rendono più difficile che un ragazzo di colore diventare medico o ingegnere, perché ha accesso a delle scuole più scadenti e perché ospedali e studi legali sono meno inclini ad assumere personale di colore (un’interessante ricerca australiana del 2009 stimava che, a parità di curriculum, un giovane nero ha il 68% in più delle difficoltà nel trovare lavoro). Il razzismo sono i pregiudizi, magari inconsci, che ci spingono a considerare qualcuno meno preparato (o più pericoloso) per via delle sue origini, e dunque ad escluderlo da posizioni di potere e responsabilità.
    Cosa c’entra l’antisemitismo in tutto questo? Non risulta che gli ebrei siano marginalizzati, svantaggiati nel mondo del lavoro o degli studi. Risulta però che, ogni tanto, gli ebrei vengano insultati – e in qualche raro caso, com’è accaduto Parigi, a Tolosa e a Bruxelles, persino ammazzati – per il loro essere ebrei. Il fatto che una minoranza possa essere perseguitata senza essere discriminata, che il razzismo possa essere anche una questione di semplice odio e non soltanto di oppressione, può essere difficile da metabolizzare. La contrapposizione tra un «centro egemonico» al potere e vari gruppi minoritari non spiega soltanto la concezione riduttiva del razzismo diffusa nella sinistra à la Corbyn, ma è alla base della concezione del mondo di molti liberal anglosassoni, che lo storico del pensiero politico dell’Università di Gerusalemme Gabi Taub ha riassunto così: «Immaginate una cerchia centrale che contiene il gruppo egemone: i maschi bianchi eterosessuali. Ora disegnate cerchi più piccoli al di fuori del cerchio egemone, ognuno dei quali rappresenta un gruppo: donne, neri, gay e il Terzo Mondo. Ciascuno di questi gruppi per affermarsi ha bisogno di prendere d’assalto il centro da una direzione minoritaria».
    Questa visione del mondo – che non solo evidenzia una contrapposizione tra maggioranza egemonica e minoranze oppresse ma dà per scontato che tutte le minoranze abbiano un obiettivo comune – aveva molto senso negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, fa notare Taub, quando donne, minoranze etniche e studenti si allearono per fare valere i propri diritti. Ma forse non è molto appropriata per capire alcune dinamiche contemporanee. Cosa succede, si domanda, quando gli interessi di due gruppi oppressi non coincidono? «Non c’è ragione di dare per scontato», nota Taub, «che la battaglia di un immigrato in Germania di conservare la sua identità senza farsi schiacciare dal centro egemonico lo faccia sentire alleato del movimento per i matrimoni gay»
    Cosa succede, poi, quando a trovarsi attaccato è un gruppo che non sta ai margini, ma che è stato più o meno inglobato nel sistema? E quando una minoranza è attaccata da membri di un’altra minoranza? Alcune delle esternazioni antisemite qui citate (ma non tutte, ovviamente) provenivano da membri del Labour figli di immigrati turchi e pachistani. Il vecchio modello liberal della contrapposizione tra centro egemone e margini non regge più, e chi ci resta legato fatica a comprendere la gravità di alcune situazioni e ad agire di conseguenza
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