Sorrento prima di Sorrento

Tratto da «Virtual Sorrento», 2004

Sorrento prima di Sorrento
La trasformazione della città nel cuore dell’Ottocento

Talvolta città diverse si succedono sopra lo stesso suolo e sotto lo stesso nome, nascono e muoiono senza essersi conosciute, incomunicabili tra loro. A volte anche i nomi degli abitanti restano uguali, e l’accento delle voci, e perfino i lineamenti delle facce; ma gli dèi che abitano sotto i nomi e sopra i luoghi se ne sono andati senza dir nulla e al loro posto si sono annidati dèi estranei. È vano chiedersi se essi sono migliori o peggiori degli antichi, dato che non esiste tra loro alcun rapporto, così come le vecchie cartoline non rappresentano Maurilia com’era, ma un’altra città che per caso si chiamava Maurilia come questa.
Italo Calvino, Le città invisibili.

1) L’arrivo del Milord;
2) Il ventre di Sorrento.

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Studio il rapporto tra gli esseri umani e i loro luoghi, soprattutto quando si tratta di luoghi "a rischio"
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2 risposte a Sorrento prima di Sorrento

  1. giogg ha detto:

    L’arrivo del Milord

    Per secoli gli abitanti della Penisola Sorrentina hanno condotto una vita da “isolani”. Unica via di comunicazione con il continente era, appunto, il mare o un impervio e pericoloso sentiero montano attraverso il massiccio del Faito. A partire dal 1839, però, il rapporto tra la comunità sorrentina e il proprio territorio mutò profondamente: quell’anno, infatti, venne completato il tracciato della prima strada carrozzabile d’accesso alla Penisola, voluta da Ferdinando di Borbone sette anni prima.
    L’apertura della strada “Sorrentina” senza dubbio comportò un miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita degli abitanti locali, tuttavia, già prima che cominciassero i lavori per la sua realizzazione, la semplice idea di una strada di collegamento rotabile sollevò pareri profondamente avversi, soprattutto da parte dell’alta borghesia locale e dei viaggiatori stranieri, come André Vieusseux che durante il suo soggiorno del 1818 annotò: «Si sente dire […] che vogliono aprire una strada da Castellammare a Sorrento: per quest’ultima sarebbe una sciagura! I napoletani vi si riverserebbero coi loro corricoli, trascinandosi appresso lussi e vizi che li distinguono ed infettandone i pacifici abitanti; non solo, ma si determinerebbe un rialzo nei prezzi del necessario, che qui è assolutamente ragionevole». (*)
    Bisogna stare in guardia da chi teorizza “impatti fatali”: l’incontro tra culture e comunità diverse, infatti, quasi mai si realizza nella cancellazione di una di loro, ma più spesso comporta un reciproco rimescolamento. E questo, in breve, è quanto accaduto tra gli abitanti della Penisola e i loro vicini napoletani. Piuttosto, l’incontro dall’impatto più profondo sulla cultura locale, dunque anche sul paesaggio, è stato proprio quello tra l’élite mitteleuropea impegnata nel “voyage pittoresque en Italie” e, appunto, la comunità sorrentina.
    In ogni viaggio degno di nota Sorrento era tappa obbligata, e da quando poté godere di un accesso più facile, crebbe anche il numero dei suoi visitatori. Questi viaggiatori, però, solo all’arrivo scoprivano di aver raggiunto un luogo “ambiguo”: da una parte, infatti, si lasciavano incantare da miti, nostalgie e utopie che lì si fondevano in un tutt’uno straordinario, dall’altra, invece, erano testimoni di un antico e grave livello di povertà.
    Nella sua guida turistica del 1857 Carlo Merlo tentò di ammorbidire le proporzioni di un fenomeno di cui comunque non poteva tacerne l’esistenza: «Vi è una classe di gente miserabile, ma l’apparenza la fa credere più numerosa che nella realtà, per l’abitudine che hanno sin dalla più tenera età di chieder sempre l’elemosina ai forestieri. Io ho visto delle donnicciuole ben nudrite, che mentre mangiavano nella strada ed aveano sotto il braccio un pane, mi chiedeano un grano, ed ho anche visto dei ragazzi di vegeto aspetto, di cinque a sei anni, che mentre giocavano tra loro, sospendeano i loro giuochi per chiedermi qualche cosa». (**)
    E testimonianze dello stesso tipo, soprattutto con bambini mendicanti, se ne hanno ancora almeno fino ai primi del Novecento.
    Una popolazione che viveva in simili condizioni, dunque, non è difficile credere che finisse per “mitizzare” il viaggiatore straniero, che lo “idealizzasse”, e ogni visitatore, dunque, diventava il “milord”, cioè un personaggio così rilevante per l’immaginario popolare ottocentesco che in numerose fiabe dell’Italia Meridionale addirittura sostituì i vecchi protagonisti, cioè i principi e i cavalieri.
    In questo modo il modello di vita locale entrò in crisi subendo una sorta di autosvalutazione in base ad una logica clientelistica di superiorità dello straniero secondo cui bisogna adattare il luogo e la propria mentalità alle abitudini degli ospiti, piuttosto che puntare sulle ragioni differenzianti della propria storia (dunque qualcosa di molto simile a quel che accade oggi nei paradisi esotici del turismo internazionale). Ciò portò al fatto che qualsiasi monumento o reperto non risalente all’epoca classica veniva lasciato a se stesso, abbandonato e prima o poi addirittura sacrificato in nome di una supposta gradevolezza estetica da dare alla città
    .
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    (*) A. Vieusseux, Italy and the Italians in the nineteenth century: a view of civil, political, and moral state of that country; with a sketch of the history of Italy under the French; and a treatise on modern Italian literature. In two volumes. I (1a ed. inglese 1821), Printed for Charles Knight, London 1824, pp. 133-137.
    (**) C. Merlo, Guida della città di Sorrento (1a ed. 1857), Tip. Gutemberg ’72, Sorrento 1978, p. 18.

  2. giogg ha detto:

    Il Ventre di Sorrento

    L’inizio della trasformazione di Sorrento venne deciso quasi all’unanimità dal Decurionato cittadino il 29 settembre 1840: quel giorno su dieci votanti uno solo fu contrario a decretare l’abbattimento del castello sito all’ingresso est della città, dove attualmente c’è piazza Tasso. I motivi di tale demolizione (avvenuta poi nel giugno del 1843) furono riconosciuti nella «luridezza delle fabbriche crollanti», ma anche nella necessità di «togliere degl’inconvenienti» e nel «decoroso aspetto che va a prendere questo paese».
    Quel castello venne eretto nel 1459 sul posto della casa Acciapaccia e ingrandito nel 1506. Nel 1799 fu parzialmente diroccato dai Francesi che assediarono la città per soffocare la rivolta di «pochi reazionari», come li definì Manfredi Fasulo agli inizi del Novecento. (*)
    In tutta la sua storia la città non aveva mai subìto un colpo di tale portata, solo un precedente – almeno in epoca moderna – comportò effetti altrettanto visibili sul paesaggio urbano locale: la costruzione delle mura fortificate in seguito allo spaventoso assedio del 1558 da parte dei Turchi, oggi rimaste in piedi solo nella zona di Parsano lungo un breve tratto di via degli Aranci.
    La demolizione del castello, tuttavia, non fu altro che l’inizio di un processo che per certi versi sembra non essersi ancora concluso. (**) Cominciarono, infatti, una serie di interventi la cui responsabilità andava ben oltre la mera modifica degli elementi materiali, ma piuttosto toccava un sistema di riferimenti che fino ad allora aveva dato senso e realtà alla città. In contemporanea iniziò la graduale colmata del Vallone dei Mulini, che di fatto sconvolse gli equilibri preesistenti fondendo il centro con il borgo ed attivando così l’espansione dell’urbanizzazione al di fuori della cinta muraria viceregnale.
    Proprio la copertura dei valloni intorno a Sorrento (completata nei primi anni del XX secolo con materiale di risulta) può considerarsi l’evento più profondo nella metamorfosi del paesaggio locale, perché oltre a cancellare gli stessi connotati fisici della città, ne ha snaturato addirittura l’antico significato del nome: secondo l’archeologa Paola Zancani Montuoro, infatti, l’etimo di Sorrento non avrebbe alcun collegamento col mito delle sirene, ma deriverebbe piuttosto dal verbo greco “surreo”, che significa “concorro”, “scorro insieme” o anche “confluisco”. In questo caso il toponimo corrisponderebbe perfettamente alla morfologia del costone sorrentino, per l’appunto dotato di «due corsi d’acqua che, […] sboccano in mare distinti e distanti, circonvallando la città». (***)
    Al maniero sorrentino sopravvisse soltanto la Porta orientale, la cosiddetta Porta del Piano, sulla quale fu trasferito l’orologio del castello (sull’altro lato della Porta il Decurionato decise di «farcene uno finto, onde abbellire e decorare l’ingresso del Paese»). Ma ben presto sparì anch’essa perché la trasformazione che fino ad allora aveva interessato solo l’accesso a Sorrento, adesso finalmente era pronta ad investire il cuore stesso della città. L’antico impianto urbano romano – quello del cardo e del decumanus che si incrociano ad angolo retto – fu infatti stravolto da una nuova strada, il “corso Duomo” (“corso Littorio” durante il fascismo e “corso Italia” oggi).
    Si trattava – e si tratta – di una strada leggermente obliqua che rompeva la geometria dell’originario tessuto abitativo, una strada fuori scala, l’unica corredata di marciapiedi: quella dove allineare i palazzi dei ricchi e i negozi di lusso, quella dove far sfilare le processioni e i cortei. (****)
    Era il 1866, e la “bizzarra” idea che Sorrento così com’era non fosse adeguata ad accogliere aristocratici ed artisti internazionali si stava realizzando: ecco finalmente una strada degna dell’immagine che si voleva dare all’esterno, anche a costo di sventrare insulæ, giardini e palazzi patrizi, anche a costo di ulteriori demolizioni, come quella della Porta occidentale (detta “di San Bacolo” o “della Potenza”) per far posto anche qui ad una strada, quella di collegamento tra Sorrento e Massa Lubrense (dove oggi si trova buona parte degli alberghi).
    La metamorfosi ottocentesca del centro di Sorrento si concluse, poi, con la demolizione della Porta della Marina di Capo Cervo (l’attuale Marina Piccola)(*****), abbattuta per lasciare spazio ad un doppio tornante carrabile che seppellì l’antica gradonata e gran parte delle case dei pescatori sulla spiaggia in vista della costruzione del porto (nel 1912).
    Da questo primo nucleo, la “grande trasformazione” si allargò al resto della Penisola, in particolare ai centri abitati del Piano (Sant’Agnello, Piano di Sorrento e Meta), i quali cominciarono ad espandersi l’uno verso l’altro seguendo un’edificazione di tipo lineare lungo il tratto di strada che li collega tra loro, ovvero lungo l’asse viario più importante per il traffico locale: un processo di cambiamento che – com’è intuibile – proseguì a macchia d’olio nel corso del Novecento, anche se con motivazioni e proporzioni di tutt’altra natura
    .
    ———————————-
    (*) M. Fasulo, La Penisola Sorrentina, Tip. Cav. G. M. Priore, Napoli 1906, p. 457. È interessante sottolineare come la storia possa essere interpretata in maniera radicalmente diversa a seconda dei punti di vista: ad esempio, mentre in Spagna i rivoltosi del primo Ottocento contro i Francesi erano considerati “eroi” e “partigiani”, qui in Italia venivano bollati come “reazionari”.
    (**) Gli sventramenti degli ultimi giardini sorrentini per far spazio alla costruzione speculativa di garage per le auto sono un esempio lampante di quanto l’omologazione paesaggistica (dunque culturale) sia un problema drammaticamente attuale.
    (***) Cit. in G. Jalongo, Case e casali della penisola sorrentina, Officina Edizioni, Roma 1993, p. 41.
    (****) Una preziosa documentazione fotografica del “prima” e del “dopo” la fornisce Alessandro Fiorentino in Memorie di Sorrento. Metamorfosi di un incantesimo 1858-1948, Electa Napoli, Napoli 1991.
    (*****) Rimasero in piedi, invece, e lo sono ancora oggi, le rimanenti due porte dette “di Parsano Nuova” (anticamente conosciuta come “degli Anastasi”, costruita nel 1745) e “della Marina Grande” (costruita nel 1558).

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