Il “manifesto” del gruppo «Save Sorrento View», primavera del 2012:
Ogni luogo racconta una storia, quella di chi l’ha vissuto. «Noi siamo il nostro luogo, i nostri luoghi», sostiene Vito Teti, «Noi siamo anche il rapporto che abbiamo saputo e voluto stabilire con i luoghi».
Descrivere un paesaggio è descrivere storie vissute, è fare l’inventario della vita della comunità che lo abita. Non è, dunque, una cartolina pittoresca, non è una pagina romantica, bensì una «componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità» (art. 5 della Convenzione Europea del Paesaggio, Firenze, 2000).
Oggi in Penisola Sorrentina sono in corso tali e tante trasformazioni ambientali che è possibile fare un parallelo con quanto vi accadde nei decenni di metà Ottocento, quando alcune profonde iniziative modificarono radicalmente il territorio e, di conseguenza, il suo uso e la sua percezione da parte degli abitanti locali.
Dagli sventramenti urbani del XIX secolo, alla novecentesca macchia d’olio cementizia estesasi alle colline, fino all’attuale – irragionevole e inarrestabile – proliferazione di parcheggi multipiano sopra e sotto (dunque: al posto di) agrumeti e oliveti, la Contrada delle Sirene da quasi due secoli si trova ad attraversare un processo di trasformazione di lungo periodo che talvolta, come nel caso che stiamo vivendo, accelera e si acutizza. In quest’ultima decade, infatti, l’impatto delle azioni che i sorrentini hanno intrapreso sui propri luoghi assume un nuovo slancio e si dirige con sempre più chiarezza verso una svolta irreversibile, i cui esiti sono del tutto oscuri. […]
L’intero “manifesto”:
In Difesa del Paesaggio Sorrentino
«Siamo all’inizio di un’era le cui costruzioni ci fanno molta più paura delle rovine» (Rebecca Solnit)
«Siente, siè ‘sti sciure ‘e arance: nu prufumo accussì fino… dint’‘o core se ne va» (Giambattista De Curtis)
Ogni luogo racconta una storia, quella di chi l’ha vissuto. «Noi siamo il nostro luogo, i nostri luoghi», sostiene Vito Teti, «Noi siamo anche il rapporto che abbiamo saputo e voluto stabilire con i luoghi».
Descrivere un paesaggio è descrivere storie vissute, è fare l’inventario della vita della comunità che lo abita. Non è, dunque, una cartolina pittoresca, non è una pagina romantica, bensì una «componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità» (art. 5 della Convenzione Europea del Paesaggio, Firenze, 2000).
Oggi in Penisola Sorrentina sono in corso tali e tante trasformazioni ambientali che è possibile fare un parallelo con quanto vi accadde nei decenni di metà Ottocento, quando alcune profonde iniziative modificarono radicalmente il territorio e, di conseguenza, il suo uso e la sua percezione da parte degli abitanti locali.
Dagli sventramenti urbani del XIX secolo, alla novecentesca macchia d’olio cementizia estesasi alle colline, fino all’attuale – irragionevole e inarrestabile – proliferazione di parcheggi multipiano sopra e sotto (dunque: al posto di) agrumeti e oliveti, la Contrada delle Sirene da quasi due secoli si trova ad attraversare un processo di trasformazione di lungo periodo che talvolta, come nel caso che stiamo vivendo, accelera e si acutizza. In quest’ultima decade, infatti, l’impatto delle azioni che i sorrentini hanno intrapreso sui propri luoghi assume un nuovo slancio e si dirige con sempre più chiarezza verso una svolta irreversibile, i cui esiti sono del tutto oscuri.
Il paragone con quanto avvenne nell’Ottocento è triplice: per la figura patrocinante gli interventi (tutti promossi dall’Amministrazione Pubblica, in modo diretto o indiretto), per le motivazioni delle decisioni (che tradiscono un bisogno di adeguarsi a modelli esterni), per l’entità delle azioni (le quali – considerate sia singolarmente, sia nel loro insieme – hanno una portata tale da segnare un prima e un dopo).
Senza entrare nel groviglio dei provvedimenti dell’epoca, ciò fu vero nel 1840 quando i decurioni di Sorrento stabilirono (con un solo voto contrario) l’abbattimento del castello cittadino per dare «più decoro al paese», ed è vero oggi quando nel nuovo Piano Urbanistico Comunale si usano termini come «potenziamento, miglioramento, adeguamento…».
Attualmente, però, la velocità delle trasformazioni grazie all’uso di tecnologie sempre più efficienti (macchine di scavo, gru, camion…) e l’entità del loro impatto (per volumetrie, numero e qualità edilizia) rendono il fenomeno alquanto allarmante. È in atto una colata di parcheggi interrati che sta riducendo ad un groviera il sottosuolo della Penisola; c’è una baldanzosa incuria verso gli agrumeti che si accompagna ad una mancanza assoluta di qualsiasi forma di tutela che li preservi dalla definitiva sparizione. Questa sarebbe una perdita incalcolabile: ambientale e culturale, storica ed economica.
La logica speculativa – miope ed egoistica – per cui un terreno edificabile può trasformare un uomo comune in un milionario non è più tollerabile. Non lo è di fronte alla storia di questa terra, che testimonia un rapporto ben più armonico tra uomo e natura, ma non lo è nemmeno rispetto ai viaggiatori che ogni anno raggiungono questa costa da tutti gli angoli del pianeta in cerca proprio della sua particolarità, di quel “mito” sorrentino alimentatosi nei secoli nell’immaginario di milioni di persone. Innanzitutto, però, non è più tollerabile alcuno scempio – legale o illegale che sia – dinnanzi alle generazioni che in futuro abiteranno questa terra. Come scrive Marc Augé, «quando i bulldozer cancellano il territorio […] è nel senso più concreto, più spaziale che si cancellano, con i riferimenti del territorio, anche quelli dell’identità». Purtroppo in Penisola Sorrentina lo abbiamo sperimentato e continuiamo a sperimentarlo: i significati spaziali che agiscono ad un livello inconscio – quelli che nel loro complesso potremmo definire “paesaggio culturale” o, per certi versi, “paesaggio interiore” – sono sotto assedio. Il mutamento (sociale, culturale, territoriale, paesaggistico…) non può essere fermato, anzi non deve, oltretutto sarebbe ingenuo, inverosimile e sbagliato, tuttavia il divenire deve necessariamente essere gestito, in maniera consapevole e possibilmente in coerenza con la storia che lo precede.
Prima della seconda guerra mondiale si cantava «Paris sera toujours Paris», chissà se dopo questo fragile inizio di terzo millennio potremo cantare anche noi «Sorrento sarà sempre Sorrento» e continuare ad invitare i nostri ospiti a tornare ancora e ancora.
Già nel 1968 Ermanno Rea scriveva che «dietro il cemento che ha invaso Sorrento non è difficile individuare molte responsabilità. Sono ben pochi, ad esempio, i sindaci e gli assessori che nei sei comuni della penisola non siano sospettati di legami con imprese edili». E, nello stesso anno, Antonio Cederna denunciava che «quella in atto nella penisola sorrentina è una politica suicida».
Se nel 1975 Cesare De Seta parlava di «sacco della Penisola Sorrentina» e di «una vera e propria lebbra edilizia che ha corroso le pendici e le coste della penisola», cosa bisognerebbe dire di quanto sta succedendo oggi, proprio sotto i nostri occhi e i nostri piedi?
Se leggendo gli atti dei decurioni ottocenteschi – che decretarono l’apertura di strade, lo sventramento di insulæ, l’abbattimento di monumenti, la colmatura di valloni e così via – ci si rende conto che il loro modello di modernizzazione era contestuale al clima culturale del tempo, evidentemente ci si può altrettanto domandare quale immagine di Sorrento abbiano gli eredi odierni di quegli amministratori: cosa vedono intorno a loro tra 5 anni, tra 10, tra 20? Realizzare strade a scorrimento veloce e consentire decine di parcheggi multipiano è un modo per pedonalizzare la città, per renderla più vivibile ai suoi cittadini e più attraente per i turisti?
Sorrento è meta di viaggi internazionali da almeno tre secoli per varie ragioni che qui sarebbe difficile riassumere in maniera esaustiva, ma tra i motivi più evidenti c’è senza dubbio la sua “diversità”. Nonostante le tante ferite subite, l’essere riuscita a tenersi distante dalla dilagante omologazione urbanistica ha permesso che la sua “aura” restasse intatta. Nemmeno la tragica emergenza ventennale dei rifiuti napoletani ha seriamente minato il fascino della nostra città e del suo territorio, allora perché favorire quest’altra devastazione ambientale e culturale a cui non si potrà mai più porre rimedio? Perché insistere nella dissipazione di un patrimonio che è dei sorrentini tanto quanto lo è dell’umanità?
L’intrusione di blocchi edilizi fuori scala, la privatizzazione della costa, la distruzione di quei veri e propri monumenti all’equilibrio tra cultura e natura che sono gli agrumeti sorrentini e i terrazzamenti d’olivo, la moltiplicazione di parcheggi multipiano, la cancellazione della stratificazione storica, il mutamento della viabilità da pedonale a carrabile, l’incapacità o la non volontà di porre dei limiti al carico automobilistico sopportato dal territorio peninsulare sono con tutta evidenza segno di interessi particolari e di politiche poco (o fintamente) lungimiranti. Soprattutto, però, sono il sintomo di una società che ha bisogno di recuperare un rapporto più sereno e rispettoso col proprio territorio, oltre che col proprio futuro.
«Talvolta città diverse si succedono sopra lo stesso suolo e sotto lo stesso nome, nascono e muoiono senza essersi conosciute, incomunicabili tra loro. A volte anche i nomi degli abitanti restano uguali, e l’accento delle voci, e perfino i lineamenti delle facce; ma gli dèi che abitano sotto i nomi e sopra i luoghi se ne sono andati senza dir nulla e al loro posto si sono annidati dèi estranei. È vano chiedersi se essi sono migliori o peggiori degli antichi, dato che non esiste tra loro alcun rapporto, così come le vecchie cartoline non rappresentano Maurilia com’era, ma un’altra città che per caso si chiamava Maurilia come questa» (Italo Calvino).