Questi sono giorni di sconcerto dinnanzi ad una follia omicida che ha portato all’uccisione di tre persone per le strade di Milano, ma sono anche giorni in cui alcuni gruppi politici hanno strumentalizzato in maniera spregiudicata tale tragedia [qui e al post precedente]. In questo clima, alcuni ricordano che fatti analoghi sono già successi in Italia, ma ad opera di italiani.
Un caso è quello avvenuto a Palermo l’11 maggio 2009, quando un «folle colpisce a martellate passeggeri alla stazione, 2 feriti gravi» (Corriere della Sera).
Un altro è quello di Firenze del 13 dicembre 2011, quando un «esponente dell’estrema destra italiana» spara e uccide due venditori ambulanti senegalesi (Wikipedia).
Oggi sul web sono state pubblicate un paio di comparazioni tra il recente caso milanese e i precedenti. In entrambi i casi il confronto ha l’aspetto di un fact-cheking concreto e oggettivo, ma leggendoli mi viene in mente che a volte i fatti non sono fatti, bensì quel che vogliamo essi siano.
Il primo articolo, ricordando il caso palermitano, si sofferma sulla reazione della destra (o, almeno, di una sua parte, quella dei leghisti e dei neofascisti) che in seguito alla strage milanese si è sollevata sia contro i “clandestini” che contro l’immigrazione in genere, senza disdegnare accuse al ministro per l’integrazione Kyenge (in carica da un paio di settimane). Il testo di questo articolo osserva che: «Il crimine compiuto nel quartiere di Niguarda a Milano ha mobilitato i leghisti. I loro giornali, parlamentari, militanti hanno inscenato proteste e si sono rivolti all’opinione pubblica per ottenere la cacciata degli stranieri di pelle nera». E, passando alla rappresentazione giornalistica dell’evento, l’articolo domanda esplicitamente: «Se fosse stato uno psicolabile bianco a uccidere e ferire i passanti a Milano, «Libero» avrebbe titolato “assassini bianchi”? E quale parlamentare, come nel caso di Kabobo, avrebbe chiamato in causa il ministro per l’Integrazione?». [1]
Il secondo articolo riprende il caso fiorentino e, specularmente al precedente, pone attenzione alla reazione che ebbero la sinistra e la comunità senegalese immigrata: «L’accaduto, in poche parole, fu strumentalizzato in senso politico» da «quest’Italia progressista» al fine di «inventare nuovi tabù e delimitare il libero pensiero». Per cui, denuncia l’autrice del testo, stavolta che l’assassino è un africano, «nessuno utilizzerà questo tragico avvenimento come avvertimento verso la violenza di taluni immigrati […]. Nessuno ricorderà questi morti come simbolo di qualcosa di più profondo, da combattere ad ogni costo». Il riferimento, cioè, è ad una sorta di razzismo rovesciato. [2]
In entrambi i contributi sono presenti interpretazioni dei fatti volte a sostenere la propria tesi di partenza, dunque entrambi gli articoli mancano di rigore nell’analisi dei dati o – e direi che è l’aspetto principale – non si pongono domande sufficientemente pertinenti.
Il primo caso solleva un punto sensibile, quello della rappresentazione mediale dell’«altro» (in particolare quando commette un crimine), che è una questione su cui si dovrebbe lavorare seriamente: non in termini politico-legislativi (la libertà di stampa non si tocca), ma di certo da un punto di vista deontologico dei giornalisti. Ci si imbatte spesso, cioè, in titoli che non disdegnano toni urlati o che fanno uso di termini ambigui o che hanno riferimenti etnico-culturali anche là dove il racconto della notizia non lo richiederebbe. E’ superfluo ricordare quanto pesino le parole, non a caso alcune agenzie giornalistiche hanno dichiarato di non utilizzare più il termine “clandestino” in riferimento all’immigrazione. Si tratta di una questione niente affatto secondaria, se un’associazione come Naga vi ha dedicato uno studio lungo un anno: «Se dico rom… Indagine sulla rappresentazione dei cittadini rom e sinti nella stampa italiana».
Meno pertinente e piuttosto campanilista è, invece, l’affermazione – sempre del primo articolo – secondo cui «è nel Nord, questo va sottolineato, che i rigurgiti razzisti sopravvivono. […] Il Mezzogiorno d’Italia ha tanti peccati sulla coscienza, ma non questo». Il Sud accogliente, tollerante e solidale, tuttavia, non esiste; i «rigurgiti razzisti» forse non sono organizzati in movimenti politici come quello leghista dell’Italia settentrionale, ma in giro per le città meridionali è facile ascoltare pregiudizi, stereotipi, se non anche esplicite esternazioni di intolleranza (non di rado, ad esempio, nella mia cittadina sono apparsi graffiti offensivi contro “le polacche” o “le ucraine”: razzisti e sessisti allo stesso tempo). Soprattutto, però, l’idea che il Sud Italia sia esente da quei rigurgiti è sconfessata dalla cronaca quotidiana delle aree di Castel Volturno, della piana foggiana e di quella battipagliese, per non parlare della abominevole caccia all’immigrato del 2010 a Rosarno (qui).
Il secondo caso è più delicato. L’autrice mostra spesso solidarietà alla comunità senegalese colpita a Firenze, ma solo per sottolineare una separazione – dunque una irriducibilità – tra le differenti appartenenze etniche e nazionali. Proprio per tale ragione, nel caso attuale in cui le vittime sono italiane, la redattrice rivendica il diritto di «sfogare la rabbia per le strade o sui giornali» o di «ricondurre questo tragico evento ad un fenomeno che non è stato e non è trattato con la dovuta cautela». La logica è quella del “noi” contrapposto al “loro”, quella di due gruppi incompatibili, per cui per «gli italiani» sarebbe ormai urgente «tornare ad essere popolo». Il paradosso di tale ragionamento è che bisognerebbe prendere esempio dagli stessi senegalesi di Firenze: «hanno davvero tanto da insegnare a noi italiani, non tanto sulla multiculturalità, sulla convivenza o sul melting pot, ma su come tornare, senza più paura, ad essere COMUNITA’, come tornare a REAGIRE, come tornare a PRETENDERE GIUSTIZIA, quando questa ci spetti». Va da sé che la giustizia a cui si allude sembrerebbe risiedere nell’escludersi mutualmente, come se la coesione di una minoranza in terra straniera fosse la stessa cosa della solida compattezza di una maggioranza.
Tornando al fatto di cronaca, l’articolo sostiene che i due assassini (quello di Milano e quello di Firenze) sono uguali: o entrambi “pazzi” o entrambi “razzisti”.
Ma la questione essenziale è capire se davvero i due soggetti possano essere messi sullo stesso piano. E’ verosimile che i due casi abbiano punti di convergenza: è possibile, infatti, che i due omicidi fossero mentalmente disturbati e che entrambi avessero maturato sentimenti di odio verso il proprio «altro», con quelle vite così al limite o ai margini. Tuttavia, fermo restando che saranno perizie psichiatriche e indagini giudiziarie a far emergere elementi che ora non possediamo, la domanda che, personalmente, mi pongo è: un immigrato (regolare o irregolare) che, per definizione, è “doppiamente assente” e che quotidianamente subisce rifiuti e dinieghi, dovendo affrontare giornalmente enormi difficoltà di ordine personale e sociale, può essere posto sullo stesso piano di chi, per quanto disadattato e sofferente, vive comunque tra persone che parlano la sua lingua, possiede una casa, ha un pubblico di lettori su internet e frequenta abitualmente circoli di ritrovo (di estrema destra, nel caso fiorentino)? Pur ammettendo che entrambi gli assassini abbiano agito in preda ad un raptus alimentato dal razzismo, quello (ancora ipotetico) dell’assassino ghanese è dello stesso tipo di quello (comprovato) dell’assassino italiano?
L’autrice del testo osserva che «Un uomo che ammazza tre italiani a picconate, senza centrare nemmeno uno straniero, dovrebbe essere considerato sì un pazzo, ma con un obiettivo». Ebbene, volendo assumere per buona quest’ultima affermazione (comunque tutta da dimostrare), il mio dubbio è il seguente: un evento del genere, per quanto allarmante, suscita le medesime preoccupazioni politiche che può sollevare la capillare presenza sul territorio nazionale di gruppi organizzati che si rifanno esplicitamente al fascismo, che professano regolarmente la xenofobia e che hanno la forza economica di sostenere estese campagne mediatiche? [3]
Inoltre, è verosimile l'(auto)rappresentazione proposta dall’articolo, ovvero che gli italiani sono un “popolo ostaggio” sia degli immigrati («statistiche alla mano, [è imputabile] agli immigrati un’altissima responsabilità nell’aumento dei crimini, dal furto allo stupro»), sia della sinistra («quell’ala politica che tanto gode della discordia civile, dell’odio tra connazionali»)? Che ruolo ha il “pensiero di Stato” in questa rappresentazione e, ancor più concretamente, che peso assume la cittadinanza (e il permesso di soggiorno) come strumento di esclusione nelle attuali politiche sociali? Quanto pesa lo “spettacolo del confine”, reso possibile proprio grazie alla giornaliera reiterazione dei concetti di “clandestinità” e di “immigrazione”?
Mi viene in mente un esempio banale: colui che ruba nei supermercati è ladro nella stessa maniera di chi ha costruito quel supermercato rubando? Ovvero: i due assassini sono entrambi “ladri nei supermercati” o, anche nella loro miseria e sciagura, è individuabile una sproporzione di potere, dunque di responsabilità? Probabilmente si tratta di pazzi, una tale brutalità sarebbe difficile da spiegare in maniera diversa, tuttavia la domanda corretta da porsi è: l’odio che li ha portati ad uccidere è stato armato nello stesso modo?
[1] Articolo che compara i fatti di Milano e di Palermo, QUI.
[2] Articolo che compara i fatti di Milano e di Firenze, QUI.
[3] Una campagna della Lega Nord contro i “clandestini”, QUI.