Ci sono due problemi profondi.
Il primo è che il razzismo (e dentro questa categoria vi inserisco molte cose: sessismo, omofobia, xenofobia e così via) è spesso inconsapevole: la maggior parte dei razzisti lo è intimamente, non si rende conto di esserlo.
Il secondo problema riguarda il web quale luogo in cui si possono vomitare insulti e minacce e raccontarsi la storia che si tratta di satira o di burle, dunque da non censurare (intanto, però, quelle parole e quelle immagini restano lì a sedimentare).
Ne parla Laura Boldrini in un’intervista rilasciata a Concita De Gregorio, su “La Repubblica” di oggi, 3 maggio 2013: «Boldrini: “Io, minacciata di morte ogni giorno. Non ho paura ma basta all’anarchia del web”. La presidente della Camera: sulla Rete campagne d’odio, è tempo di fare una legge. In Italia le donne continuano a morire per mano degli uomini e per molti è sempre e solo una fatalità, un incidente, un raptus».
[Quanto siano pertinenti le problematiche sollevate da Boldrini è riscontrabile in molti commenti lasciati in calce all’intervista].
PS: Proprio ieri mi è capitato di “discutere” di queste tematiche in un gruppo fb in cui qualcuno aveva ripreso (da un utente che si richiama al fascismo) un fotomontaggio di un politico omosessuale ritratto con i capelli da ortaggio e la dicitura «Al forno con tanta besciamella». [Ne ho salvato lo screenshot]. Ho commentato che si tratta di un’immagine penosa e che andrebbe rimossa (per di più perché non pertinente all’oggetto per cui il gruppo è nato). Mi è stato risposto (da tutti, tutti maschi) che si tratta di satira (qualcuno ha ammesso che fosse “becera”) e che rimuoverla sarebbe stato censura. [La discussione sta proseguendo, qui].
Sono uscito dal gruppo.
Altre osservazioni e aggiornamenti sono tra i commenti
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AGGIORNAMENTO del 9 febbraio 2014:
La deputata del PD Alessandra Moretti ha scritto una lettera al “Corriere della Sera” annunciando una legge contro l’hatespeech (l’odiosa pratica in rete di prendere di mira qualcuno e insultarlo): QUI.
Le ha risposto Marta Serafini, sollevando qualche perplessità: Moretti e gli insulti sul web: perché una legge non deve partire da casi personali. Se un testo parte da casi personali, accaduti a parlamentari e figure istituzionali, perde di efficacia, perché acquista l’odore di legge ad personam: QUI.
In merito al linguaggio (politico e non solo) sempre più banalizzato, ingiurioso, squalificato, volgare e violento ho avviato una raccolta di analisi, di interpretazioni, di osservazioni e, purtroppo, di vari esempi di turpiloquio in QUESTO post.
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AGGIORNAMENTO del 15 febbraio 2014:
Un articolo appassionato, argomentato, documentato e, direi, definitivo sul tema della promulgazione di una legge ad hoc per fermare la violenza in rete è questo di Arianna Ciccone su “Valigia Blu” (15 febbraio 2014):
È ora di dire basta agli ignoranti che pontificano (in malafede?) sul web
Suicidio, adolescenti e le regole del web. Tra mistificazioni e distorsioni ci raccontano una realtà che non solo non esiste ma che potrebbe comportare gravi conseguenze per la libertà di tutti noi. I danni di un vuoto di cultura digitale tra i professionisti dell’informazione.
Continua QUI.
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AGGIORNAMENTO del 5 giugno 2014:
Dalla pagina fb di Laura Boldrini: “Un’ora di educazione digitale per un uso consapevole del web“:
“I genitori insegnano ai figli come attraversare la strada, cosa significa il rosso e il verde. Oggi, in una società digitale, perché non insegniamo loro anche a riconoscere i segnali di pericolo in rete e a stare attenti ai tram che li possono investire nel web?”. Condivido pienamente la metafora usata da Antonello Soro, Presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, nel descrivere la necessità di un’educazione digitale, al passo coi tempi. Ne abbiamo parlato questa mattina a Montecitorio, nell’incontro con i componenti dell’Autorità in vista della presentazione del loro Rapporto annuale.
L’educazione al web è un elemento strategico dell’innovazione del nostro Paese. E’ importante fornire gli strumenti giusti per far comprendere che, nell’immenso spazio di libertà di internet, l’anonimato può comportare anche atteggiamenti aggressivi e minacce. Ai ragazzi – e non solo a loro – va fatto inoltre capire che per le grandi società del web i dati privati che ciascuno di noi lascia in rete sono la materia prima sulla quale queste aziende costruiscono i loro giganteschi profitti.
Sono favorevole all’ipotesi di potenziamento dei programmi educativi su questi temi. Tra le diverse iniziative che mettono in atto molti insegnanti capaci e appassionati meriterebbe di diventare stabile anche l’ora di “educazione digitale.
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AGGIORNAMENTO del 20 ottobre 2014:
L’11 aprile 2014, Vanessa Niri ha scritto su “Wired” un articolo molto citato e condiviso sui sociamedia: “I nuovi analfabeti: usano Facebook, ma non sanno interpretare la realtà“. Si tratta di un fenomeno contemporaneo e coinvolge anche coloro che sono andati a scuola: secondo l’Ocse, “Un analfabeta è anche una persona che sa scrivere il suo nome e che magari aggiorna il suo status su Facebook, ma che non è capace “di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”“. In Italia queste persone sono 20 milioni, ovvero 3 su 10.
Il 20 ottobre 2014, Giulia Blasi ha scritto sul suo blog il post “Leggere, scrivere e far di conto: del perché l’analfabetismo funzionale fa male anche a te“. L’autrice scrive, tra l’altro, che “[…] Li riconosci perché scrivono su Facebook senza punteggiatura, con i puntini al posto dei punti, con le virgole al posto dei puntini, con abbreviazioni inutili, senza congiuntivi, “ai” e “o” usati come verbi. Li riconosci perché se provi a parlarci di politica partono con dei pipponi in cui si contraddicono ogni due frasi, pretendono che tu provi “con dati statistici” ogni cosa che dici (ma non sono in grado di fare altrettanto), non capiscono quello che scrivi. Non. Sanno. Leggere. Sostengono opinioni razziste, ma se gli fai notare che sono razziste vanno in bestia perché secondo loro li hai insultati (l’opinione rimane razzista). Li riconosci perché sono convinti che tutte le opinioni siano uguali e parimenti degne di rispetto e non capiscono – non hanno la struttura mentale per farlo – che ci sono opinioni sostenibili e opinioni insostenibili. Sembrano scemi e invece sono solo gente che ha smesso di leggere libri dopo la maturità, se l’hanno presa. In molti casi sono laureati, non si capisce esattamente come. […] E pensare che basta così poco. Un libro della madonna (non di Fabio Volo: della madonna!), un articolo al giorno ma scritto bene e documentato meglio, un po’ di fact-checking su un argomento controverso […], un reportage su un paese in guerra, un articolo scientifico. Senti il tuo cervello che si espande e si contrae per masticare le cose nuove che gli stai dando da mangiare“.
Tengo a fare una precisazione.
Sono convinto che la satira sia quello strumento dell’intelletto che scardina i luoghi comuni, che svela gli stereotipi, che destabilizza le certezze del potere. Può essere di molte sfumature, dalla caricatura alla presa in giro, fino all’invettiva, ma ritengo che non debba mai riguardare il privato di chi ne è oggetto: le sue tendenze sessuali, il suo colore della pelle, le sue convinzioni religiose…
Il pericolo, altrimenti, è che si possa giustificare qualsiasi cosa, ovvero che prima o poi anche gli insulti possano passare per “satira”. La conseguenza logica è che, stando così le cose, chiunque chieda la sospensione o la rimozione di quella violenza (gli insulti sono violenza) o proponga di discutere di una regolamentazione del web viene fatto passare per censore (è il caso in cui mi sono trovato ieri e che si può facilmente riscontrare in molti commenti all’intervista di Boldrini).
Alessandro Gilioli (3 maggio 2013) analizza l’intervista che Laura Boldrini ha rilasciato a Concita De Gregorio e osserva: «Quindi il problema va semmai posto in termini pratici. Vale a dire che se in un quartiere ci sono molti furti si deve scegliere: o si introduce la pena di morte per i borsaioli, o si aumenta la quantità e la qualità dei poliziotti in loco. Ebbene, chiunque sa che la polizia postale oggi fa quello che può, ma sono in pochi, decisamente troppo pochi, per stare dietro alle richieste dei cittadini diffamati o minacciati via Internet. Invece di proporre «nuove leggi» inutili o dannose, chi ha un ruolo politico potrebbe utilmente occuparsi di rafforzarla, dotandola di personale molto maggiore e sempre più qualificato, oltre che di mezzi idonei» [QUI].
Sul mio fb, una interessante discussione sul tema in oggetto: QUI.
Ma molto stimolanti sono gli scambi tra “protagonisti”, in particolare sul twitter di Concita De Gregorio. Ecco qualche esempio (tra quelli che condivido, se volete gli altri cliccate il link):
Concita De Gregorio:
«non ha detto che bisogna controllare il web. se ne è ben guardata. Le minacce sono migliaia e impressionanti davvero».
Concita De Gregorio: «non parla né di anarchia del web né di leggi da fare. Pone un problema, invoca una discussione seria e serena»;
Luca Mancini: «perché non lo spieghi al titolista?»;
Concita De Gregorio: «già fatto. L’altra possibilità é leggere le parole prima di commentarle».
Giuliana Rotondi:
«beh un dibattito pubblico sul web (non solo tra addetti ai lavori) serio e misurato male non fa. Anzi».
Luca Sofri:
«Abbiamo detto per anni che la Rete andava considerata un pezzo della vita reale, non possiamo dire che la sua violenza sia meno reale»;
Massimo Mantellini: «scusa e chi lo avrebbe detto?»;
Luca Sofri: «indulgenti del “cosa vuoi che sia”, del “è normale”, del “sono solo cose scritte su internet”»;
Andrea Iannuzzi: «le minacce sono un reato, punibile già oggi, anche in rete. Nella legge sul web ci mettiamo anche telefono e Poste? 😉»;
Arianna Ciccone: «ecco appunto»;
Whiplash: «Telecamere di sicurezza ad ogni buca postale in virtù delle lettere minatorie. Anche quella è vita reale, no?»;
Luca Sofri: «vi state inventando pretese che nessuno ha avanzato».
Mikiciccio:
«Chiedere di applicare la legge, che già esiste, anche al web è diventato un gesto censorio».
Concita De Gregorio:
«no, dice ‘so bene che è una questione delicatissima, non per questo non dobbiamo porcela. Chiedo una discussione serena e seria’».
Concita De Gregorio:
«non parla né di anarchia del web né di leggi da fare. Pone un problema, invoca una discussione seria e serena».
Helena Janeczek:
«La violenza non nasce e spesso non muore sul web che amplifica. Ma non è un buon motivo per non porsi il problema».
Loredana Lipperini:
«Finalmente se ne parla».
Arianna Ciccone, organizzatrice del Festival Internazionale di Giornalismo di Perugia, ha scritto una lettera aperta a Laura Boldrini: «Cara Boldrini, c’è una legge sullo stalking eppure le donne continuano a morire» (“La Repubblica”, 3 maggio 2013): QUI.
Ancora due interessanti commenti di oggi, 3 maggio 2013:
Stefano Rodotà: «Laura Boldrini ha fatto benissimo a sollevare una discussione che peraltro negli altri paesi europei è aperta da tempo. Detto questo, c’è da dire che prima di parlare di una normativa speciale, bisognerebbe fare una ricognizione di tutte le leggi esistenti per verificare se servano o meno delle modifiche per internet. Sono convinto che vale sempre la vecchia regola per cui quello che è illegale offline, è illegale anche online» (in «Bene Laura Boldrini e Pietro Grasso ma piano con le leggi speciali per il web»).
Luca Sofri: «Ora, mentre intorno a me si continua a chiedere conto a Boldrini di quelle parole e quelle richieste, pochi si sono accorti che nessuna di quelle espressioni è stata usata in effetti da Boldrini o è contenuta nell’articolo. Pochissimi hanno notato che le parole più contestate – “anarchia della Rete” – sono state usate solo da chi ha titolato l’articolo di Concita De Gregorio, ma non sono mai citate da nessuno» (in «L’anarchia delle news»).
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E, infine, a proposito di disinformazione e manipolazione, nella sterminata galassia web (dunque sociale) c’è gente che condivide roba del genere:

Il giorno dopo l’intervista, Laura Boldrini ha scritto queste parole sul suo profilo fb (4 maggio 2013):
Vorrei ringraziare tutte e tutti per i tanti attestati di solidarietà arrivati da parte di cittadini, associazioni, esponenti politici, sindacali, religiosi e rappresentanti istituzionali.
Desidero anche ribadire il senso dell’intervista con Concita De Gregorio, uscita ieri su Repubblica, in merito alle diffamazioni, alle minacce, alle intimidazioni che mi riguardano diffuse attraverso il web.
Nell’intervista non parlo mai né di anarchia, né di censura, né della necessità di una nuova legge.
Anzi, proprio perché credo nel potenziale partecipativo e democratico della rete, ho voluto attivare ed utilizzo quotidianamente, da presidente della Camera, una pagina facebook ed un profilo twitter, che considero strumenti utili al confronto e al dialogo. Ci tengo, anche con questi mezzi, ad accorciare le distanze tra le istituzioni ed i cittadini. Ma le minacce, gli insulti, le intimidazioni, la violenza non sono mai accettabili, né dentro il web né fuori.
Nell’intervista, dunque, intendevo aprire un confronto sulla violenza contro le donne, che si manifesta anche attraverso internet. Un raffronto può servire. La pedopornografia, in rete, viene seguita e perseguita con attenzione e preoccupazione. Quello che di sconcio accade contro le donne viene, invece, spesso sottovalutato e ridotto a goliardata machista. È un problema che deve riguardare tutti, non solo noi donne. L’obiettivo è arginare la violenza. Sono certa che saprá condividerlo anche chi ha giustamente a cuore la libertá della rete.
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AGGIORNAMENTO (5 maggio 2013):
Arianna Ciccone continua con le sue osservazioni e richieste di chiarimento: «Boldrini, minacce, web, femminicidio e un chiarimento che non chiarisce. La Presidente della Camera posta su facebook una nota che dovrebbe chiarire l’intervista rilasciata a Repubblica. Purtroppo però i punti critici delle sue parole rimangono ancora senza risposta», QUI.
Altri articoli che prendono spunto dalla conversazione tra Boldrini e De Gregorio:
Adriano Sofri: «Avrebbe potuto tacerne, la presidente della Camera, e avrebbe tolto agli italiani un criterio attraverso cui valutare a che punto è “la crisi”, non meno importante dei dati economici o finanziari di cui si segue febbrilmente l’andamento» («La denuncia e lo scandalo», 4 maggio 2013).
Beppe Severgnini: «Una donna italiana ha dovuto leggere espressioni sconce, guardare immagini vergognose, subire allusioni disgustose. […] Questa non è libertà: è sopraffazione. Impedire queste cose non è censura: è buon senso. […] Internet è troppo importante perché una minoranza di predoni, camuffati da libertari, possa rovinarla» («Minacciare e diffamare è un reato. Farlo sul web è un’aggravante», 4 maggio 2013).
“RepubblicaTV”, 3 maggio 2013, QUI:
De Gregorio: ”Boldrini, nessuna crociata, ma riflessione seria”
di Concita De Gregorio, a cura di Silvia Garroni
Il problema della violenza nel web, posto dalla presidente della Camera, è reale e molto sentito, come dimostra la quantità di commenti di segno diverso arrivati a repubblica.it. L’intenzione è quella di aprire una riflessione serena e costruttiva, non certo una crociata.
Il 9 febbraio 2014 la deputata del PD Alessandra Moretti ha scritto una lettera al “Corriere della Sera” annunciando una legge contro l’hatespeech (l’odiosa pratica in rete di prendere di mira qualcuno e insultarlo): QUI.
Le ha risposto Marta Serafini, sollevando qualche perplessità: Moretti e gli insulti sul web: perché una legge non deve partire da casi personali. Se un testo parte da casi personali, accaduti a parlamentari e figure istituzionali, perde di efficacia, perché acquista l’odore di legge ad personam: QUI.
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AGGIORNAMENTO del 15 febbraio 2014:
Un articolo appassionato, argomentato, documentato e, direi, definitivo sul tema della promulgazione di una legge ad hoc per fermare la violenza in rete è questo di Arianna Ciccone su “Valigia Blu” (15 febbraio 2014) (l’articolo originale è ricco di link di approfondimento):
È ora di dire basta agli ignoranti che pontificano (in malafede?) sul web
Suicidio, adolescenti e le regole del web. Tra mistificazioni e distorsioni ci raccontano una realtà che non solo non esiste ma che potrebbe comportare gravi conseguenze per la libertà di tutti noi. I danni di un vuoto di cultura digitale tra i professionisti dell’informazione.
di Arianna Ciccone
Siamo ancora qui, a dire sempre le stesse cose. Perché ormai “contro l’odio che corre sul web” sta diventando una sorta di format quotidiano.
Quando riusciremo ad andare finalmente avanti, ad avere un dibattito sui temi digitali degno di questo nome?
Questa gravissima mistificazione sta diventando sistematica. E allora mi chiedo: è una battaglia reazionaria studiata a tavolino? Prima o poi assisteremo alla saldatura tra giornali mainstream, che sostengono quotidianamente simili distorsioni, e politici che annunciano proposte di legge contro l’odio del web, trovandoci così in un paese ancora più arretrato, incolto e incivile?
Faccio una piccola premessa, che è un appello, una preghiera.
Se si vuole un web sotto controllo, con filtri e blocchi (e dunque meno libero, inutili le frasi di rito alla «non vogliamo il bavaglio al web»; la conseguenza questa sarebbe) fate questa battaglia a viso aperto. Strumentalizzare il suicidio di una ragazza per sostenere simili posizioni è di una oscenità umana davvero inaccettabile. Li abbiamo lasciati soli davanti al peso della vita. Almeno ora calino silenzio, pietà, amore per questa vita che non c’è più. Non usate più la tragedia di una ragazza di 14 anni che decide di togliersi la vita per le vostre argomentazioni. Quanta sofferenza, quanto smarrimento, quanto dolore, quale abisso viveva il cuore di quella ragazza per arrivare a una simile decisione? Come potete pensare di sapere cosa l’ha spinta verso il buio eterno? Con quale arroganza, presunzione e cinismo pretendete di sapere cosa è successo? E, soprattutto, come potete liquidare o semplificare un gesto così totale con “per colpa del web”. Non vedete l’indecenza in questa mistificazione?
Scrive Loredana Lipperini
Oggi, inevitabilmente, articoli e commenti sulla sventuratissima adolescente di Cittadella che si è uccisa domenica sera. Colpa di Ask.fm, scrivono un po’ tutti. Considerare le colpe a posteriori, in drammi del genere, è un esercizio inevitabile e al tempo stesso impossibile: durante l’adolescenza si è fragili come cristalli, e questo dovrebbe saperlo anche chi non è a contatto con i giovani, in quanto è stato giovane a sua volta. Le ragazzine si sono spente le sigarette sulle braccia e hanno usato le lamette per tagliarsi (non sempre e non tutte) quando Internet e i cellulari non erano neppure stati immaginati dalla fantascienza: ne parla, per esempio, Simone de Beauvoir ne Il secondo sesso, e siamo negli anni Quaranta. Le ragazzine e i ragazzini hanno sempre, tragicamente, flirtato con il suicidio, nella maggior parte dei casi nella propria mente, in alcuni, purtroppo, nella realtà. …Non credo affatto che un social sia determinante quando c’è una fragilità. Ancora una volta, come detto ieri, c’è un mondo adulto che deve essere chiamato in causa: perché non è in grado di fornire modelli salvifici o almeno decenti.
Ho fatto passare alcuni giorni, avevo deciso di scriverne ma non subito, per non alimentare polemiche sul caso e sulla sua copertura mediatica, proprio per rispetto di quel corpo, di quell’anima, di quella storia. Una creatura si era tolta la vita. Non me la sentivo di intervenire sulle gravi distorsioni mediatiche quando c’era una vita di mezzo. Mi sono detta «lascio passare qualche giorno. Poi ne scrivo». Ma non c’è stato giorno in cui non sia stata costretta a leggere bruttissime pagine di giornalismo sulla vicenda e sulla presunta correlazione tra il suicidio e gli insulti sul web.
Cerco di fare un po’ di chiarezza, ricostruendo anche i vari interventi che per fortuna sul web abbiamo potuto leggere e che fanno da contraltare a una simile propaganda.
Certo fa male rendersi conto di quanta ignoranza, di quanta mancanza di cultura digitale è intriso il mainstream.
Suicidi, adolescenti e web
Non c’è nessun dato scientifico a supporto della correlazione suicidio-cyberbullismo. Come spiega questo articolo di Wired.
L’ultimo caso a sollevare di nuovo il dibattito è di due giorni fa: a Cittadella, in provincia di Padova, una ragazza di 14 anni si è gettata dalla terrazza sul tetto dell’ex hotel Palace di Borgo Vicenza. Una scelta che sembrava essere già stata annunciata sul social network Ask.fm, al centro delle polemiche in quanto ritenuto fra i più sregolati, ricettacolo di insulti e attacchi di ogni genere per il suo meccanismo di domande e risposte anonime. Ancora una volta, quando si raccontano queste storie si rischia di confondere la causa con l’effetto. E di attribuire responsabilità sproporzionate a canali che, certo, sembrano ring ideali in cui chiunque (non solo gli adolescenti, come dimostrano le polemiche sull’hate speech) può facilmente riversare la propria aggressività. Ma costituiscono solo l’ultimo campanello d’allarme di una situazione ben più ampia. Insomma: quando queste piattaforme non c’erano, i giovani si uccidevano di più.
C’è un aspetto che mi preme sottolineare. Se non vanno sottovalutati i rischi della Rete, non dovrebbero essere sottovalutati nemmeno gli aspetti positivi. Spesso i ragazzi annunciano in Rete le loro intenzioni di suicidio. Quindi la Rete può anche essere l’ambiente dove far arrivare ai ragazzi informazioni che potrebbero aiutarli.
Maurizio Pompili, psichiatra responsabile del servizio per la prevenzione al suicidio dell’ospedale Sant’Andrea di Roma, ha spiegato in questa intervista un progetto dell’ospedale e della Polizia postale per monitorare online le intenzione suicidarie dei più giovani: creare delle “sentinelle” del web per intercettare il disagio dei ragazzi adolescenti, che affidano sempre più spesso ai social network e ai gruppi di discussione, le loro richieste disperate di aiuto. Per l’esperto del Sant’Andrea uno degli interventi più facili e da attuare in tempi brevi, è far circolare in rete, soprattutto sui social usati dai più giovani, link utili e informazioni antisuicidio.
“Sapere a chi rivolgersi, o con chi parlare in forma anonima in un momento di crisi, è fondamentale soprattutto nell’adolescenza – afferma Pompili -. Oltre a questo resta fondamentale l’atteggiamento dei familiari che devono imparare a riconoscere i campanelli d’allarme: dai disturbi del sonno a quelli alimentari. E tutti quei comportamenti a rischio che vanno monitorati e capiti con più attenzione”.
A proposito di cyberbullismo
Ancora una volta dobbiamo ripetere che il bullismo nasce nella vita reale e poi si riversa anche in Rete, come in tutti gli ambienti frequentati dai ragazzi. Perché mai, secondo questi signori, quello in Rete costituisce preoccupazione più grave? Non potremo mai proteggere i nostri figli da tutti i mali del mondo: quello che possiamo fare è consegnare modelli, strumenti, valori in nome del rispetto e dell’amore per l’altro, della civile convivenza.
La ragazza che ha picchiato la sua coetanea davanti agli amici che invece di intervenire, incitavano, dove ha commesso questa violenza? Su Facebook? Ho visto un’intervista alla protagonista di questa brutta vicenda, parla anche la madre. Ascoltate la madre: per far capire alla figlia che ha sbagliato a usare violenza contro un altro essere umano, non ha utilizzato la parole, ma altrettanta violenza. Ha picchiato la figlia: gliele ho date e gliele ho date, ma tante, pesanti… Se non si usa la parola, la ragione, il buon senso per spiegare cosa e perché è sbagliato, questa ragazza cosa porterà nel mondo (fisico e digitale – non esistono dualismi, davvero dobbiamo ancora sottolinearlo?) se non questo modello? E sarebbe colpa del web? Ci rendiamo conto di questa grave semplificazione, che svuota tra l’altro responsabilità che vanno dalla famiglia, alla scuola, alla società nel suo insieme?
Siamo al punto che si mistificano i dati (in modo consapevole?). Come ha dimostrato Wired rispetto ai dati sul cyberbullismo diffusi da Save The Children (ripresi puntualmente dai giornali e dai politici)
Il cyberbullismo fa paura al 70 per cento dei ragazzi
Peccato non fosse vero.
Nel pieno dell’ennesimo e stanco dibattito sull’odio in Rete, la necessità di nuove leggi e i pericoli del web, un dato sconcertante che aggiungeva benzina sul fuoco: il cyberbullismo, secondo una ricerca, sarebbe diventata la preoccupazione principale per quasi sette minori su dieci. Il fatto è che, come ha appurato Wired.it (chiedendo di leggere il documento originale), non è così.
A essere considerato un «pericolo forte in questo momento» dal 69% dei ragazzi interpellati è il bullismo in generale (e quindi quello che avviene in primo luogo a scuola, per strada, nei luoghi di ritrovo, nel mondo fisico) e non il cyber-bullismo. Internet è parte del fenomeno, ma non lo esaurisce. Non c’è spazio per molti dubbi o fraintendimenti, guardando la ricerca. Il questionario rivolto ai giovani domanda: “Secondo te, quali dei seguenti fenomeni sociali sono un pericolo forte in questo momento per i ragazzi come te?”. Le risposte sono: bullismo (69 per cento, per altro in diminuzione rispetto al 72 per cento del 2013); la droga (55 per cento); le molestie/aggressioni da parte di adulti (45 per cento); le molestie vie cellulare/email/internet / (44 per cento, invariato rispetto al 2013).
Il linguaggio dei censori
Questo martellamento quotidiano su ciò che non si conosce è arrivato a sdoganare espressioni da censura cinese, come ha fatto notare Fabio Chiusi: controllo, filtro, rimozione, eliminazione dell’anonimato (e noi che continuiamo inutilmente a far notare che non c’è correlazione tra anonimato e hate speech). Fino ad arrivare alla mostruosità di vedere come alternative la libertà di Internet e la difesa della vita degli adolescenti.
Ma cosa vale di più: la libertà d’Internet o la vita di una ragazzina?
Così scriveva un autorevole professore qualche giorno fa su La Stampa. Ma come siamo arrivati a questo punto? È ora davvero di dire basta in modo sistematico a questo tipo di narrazione. Che potrebbe avere conseguenze terribili per la libertà di espressione in questo sfortunatissimo nostro paese.
Scrive ancora Fabio Chiusi
Ecco, giunti a questo punto la ragione si arrende. Perché non è affatto vero, naturalmente, che siamo costretti a quella scelta. Non è vero che eliminare l’anonimato (che peraltro, è già sostanzialmente inesistente nella rete post-Datagate) eliminerebbe le cause profonde di disagio degli adolescenti che si tolgono la vita. Non è vero che vi sia un legame di causa-effetto tra insulti e quella terribile decisione (come perfettamente argomentato ieri da Massimo Russo). Non è vero che gli utenti del contestatissimo Ask.fm («la chat dell’odio», come se tutti gli 80 milioni di iscritti non facessero altro), per esempio, siano anonimi (lo spiega anche la Postale che indaga sul suicidio di Padova)
E il linguaggio dei censori inconsapevoli e irresponsabili lo leggiamo ancora oggi su La Repubblica, che con Giovanni Valentini parla come parlerebbe il Ministro cinese dell’Ufficio statale per l’informazione Internet. Come ha fatto notare sempre Chiusi in questo post, riprendendo un estratto dal Liberty and Order in Cyberspace di Lu Wei
So bene che la rete in Italia è molto più libera che in Cina, dove – a suon di parole bellissime come quelle di Lu Wei – si è arrivati all’apparato repressivo più sofisticato al mondo. Ma invito alla lettura i tanti, troppi che hanno ripetuto in questi mesi gli stessi non argomenti per combattere l’odio in rete, come algoritmi idioti che macinano le stesse bugie e le riassemblano ogni giorno sostanzialmente a casaccio.
Ecco, è questa la china che abbiamo imboccato. Quella di una battaglia per una rete «civile», «armoniosa» e soprattutto «sana», in cui i nostri figli siano sempre protetti, le nostre parole sempre normali, i nostri dibattiti sempre educati, positivi – come si legge poco oltre nel testo – che porta inevitabilmente al suo contrario. E non perché la rete sia perfetta così com’è: è che le regole sul suo funzionamento non si discutono a questo modo, non in questi termini. Per esprimerli con Giovanni Valentini: «in difesa della funzione sociale della Rete, il legislatore è chiamato ora a sanzionare e impedire gli abusi di alcuni per garantire la libertà di tutti». Al lettore il compito, arduo, di trovare le differenze.
Le leggi già ci sono. E funzionano.
Si insiste nell’invocare nuove leggi. Che già ci sono e funzionano. Fatevene una sacrosanta ragione. Perché tra l’altro è un’ottima notizia. Lo ha spiegato, credo in modo definitivo, il parlamentare Stefano Quintarelli (raro esempio di parlamentare preparato e competente): una nuova norma contro l’hate speech? Risposta breve: no.
Occorre una norma contro violenza e insulti sul web? Va ricordato il caso di Dolores Valandro, la consigliera comunale leghista di Padova che su Facebook aveva scritto rivolgendosi al Ministro Kyenge: ”Mai nessuno che se la stupri”? Bene, Dolores Valandro è stata condannata per direttissima a 13 mesi e a un risarcimento di 13mila euro. E ancora:
Occorrono nuovi strumenti per scoprire i responsabili di reati online? Per farsi un’idea basta leggere questo articolo che racconta degli arresti di un gruppo dei più bravi cracker italiani, esperti di sistemi informatici e dell’occultamento delle proprie tracce (un utente “normale”, di quelli che si abbandonano a ingiurie ed invettive su Facebook lascia una scia di puntatori alla propria identità e posizione per ottenere le quali, spesso, alle forze dell’ordine bastano due-tre richieste).
P.s. Dopo il suicidio di Nadia, La Repubblica su carta ha pubblicato a doppia pagina le foto della ragazza. Il giorno dopo nella sezione delle lettere su tre righe il quotidiano si è scusato con i lettori perché quella foto non era di Nadia. Perché non parliamo anche di questo? Doppio terribile errore: deontologico – da dove sono state prese quelle foto? Dai suoi account social? Tra l’altro la ragazza era minorenne, è stata chiesta l’autorizzazione ai genitori per l’utilizzo? – e giornalistico – la foto era di un’altra ragazza, sempre minorenne che si è ritrovata a tutta pagina su un grande quotidiano, a sua insaputa… -. Davvero di un doppio errore così grave non si parla, liquidandolo con semplici tre righe? Io sono cresciuta con La Repubblica: la mia amarezza è prima ancora come lettrice che come appassionata di temi di giornalismo.
“Wired”, 11 aprile 2014, QUI
I NUOVI ANALFABETI: USANO FACEBOOK, MA NON SANNO INTERPRETARE LA REALTA’
di Vanessa Niri
Se chiudo gli occhi e immagino un analfabeta, penso ad una persona che firma con una X al posto del nome.
Ma sbaglio.
Un analfabeta, ci ha ricordato l’OCSE pochi giorni fa, è anche una persona che sa scrivere il suo nome e che magari aggiorna il suo status su Facebook, ma che non è capace “di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”.
Certo, sono due analfabetismi diversi: quello di secondo tipo si chiama analfabetismo funzionale e riguarda quasi 3 italiani su 10, il dato più alto in Europa.
Un analfabeta funzionale, apparentemente, non deve chiedere aiuto a nessuno, come invece succedeva una volta, quando esisteva una vera e propria professione – lo scrivano – per indicare le persone che, a pagamento, leggevano e scrivevano le lettere per i parenti lontani.
Un analfabeta funzionale, però, anche se apparentemente autonomo, non capisce i termini di una polizza assicurativa, non comprende il senso di un articolo pubblicato su un quotidiano, non è capace di riassumere e di appassionarsi ad un testo scritto, non è in grado di interpretare un grafico.
Non è capace, quindi, di leggere e comprendere la società complessa nella quale si trova a vivere.
Tre italiani su 10, ci dice l‘OCSE, si informano (o non si informano), votano (o non votano), lavorano (o non lavorano), seguendo soltanto una capacità di analisi elementare: una capacità di analisi, quindi, che non solo sfugge la complessità, ma che anche davanti ad un evento complesso (la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale, lo spread) è capace di trarre solo una comprensione basilare.
Un analfabeta funzionale, quindi, traduce il mondo paragonandolo esclusivamente alle sue esperienze dirette (la crisi economica è soltanto la diminuzione del suo potere d’acquisto, la guerra in Ucraina è un problema solo se aumenta il prezzo del gas, il taglio delle tasse è giusto anche se corrisponde ad un taglio dei servizi pubblici…) e non è capace di costruire un’analisi che tenga conto anche delle conseguenze indirette, collettive, a lungo termine, lontane per spazio o per tempo.
Sarà che forse sono un po’ analfabeta funzionale anche io, ma leggendo i dati dell’OCSE ho subito pensato ad un dialogo di qualche anno fa, tra me e una collega.
All’epoca ero una maestra della scuola primaria. Era una bella giornata di sole: io e la mia collega di italiano avevamo portato le classi in terrazza per la ricreazione e parlavamo del più e del meno. Ad un certo punto mi è venuto in mente di consigliare alla collega di italiano la lettura di un libro che avevo appena terminato e lei mi rispose, candidamente: Grazie, ma io non leggo libri.
Mai? chiesi.
Mai – rispose la collega – l’ultimo libro l’ho letto quando ho preso la maturità, perché dovevo portarlo all’esame. Non ho mica tempo, per leggere, e poi mi annoio.
Davanti ai dati dell’OCSE l’ex Ministro Carrozza si è affrettata a sottolinearne la drammaticità chiedendo una forte inversione di tendenza.
Ma, anche se all’allarme corrispondesse un reale investimento dell’attuale Governo – e, purtroppo, la storia recente ci porta a dubitarne – quale diga fermerà il crollo verticale della cultura degli italiani, se a chi ci deve rappresentare e a chi ci deve insegnare non si impone di essere più preparato, e non meno preparato, del proprio popolo, dei propri impiegati, o della propria classe?
Non esiste cura, se i primi a rifiutare la complessità e l’approfondimento sono i nostri insegnanti, i nostri manager, i nostri politici.
La scuola italiana, da sempre fondata sul dogmatismo, ha visto annullate le proprie spinte verso un insegnamento diverso, riducendosi alla trasmissione di competenze inutili, perché si dimenticano il giorno dopo l’interrogazione, e che non insegnano a capire, ad analizzare, a criticare, a soppesare, a riassumere.
Era il 1974, quando Sergio Endrigo, ispirandosi a Gianni Rodari, incise su un disco questo prologo illuminante: Napoleone Bonaparte nacque ad Ajaccio il 15 agosto del 1769. Il 22 ottobre del 1784 lasciò la scuola militare di Briennes con il grado di cadetto. Nel settembre del 1785 fu promosso sottotenente. Nel 1793 fu promosso generale, nel 1799 promosso primo console, nel 1804 si promosse imperatore. Nel 1805 si promosse re d’Italia. E chi non ricorderà tutte queste date, sarà bocciato!
Dal 1974 le cose, se possibile, sono generalmente peggiorate.
I parametri Invalsi – lo strumento Europeo per la valutazione delle competenze – sono diventati in fretta praticamente l’unica cosa che la scuola si preoccupa di insegnare, riducendo la lungimiranza dell’insegnamento alla verifica in programma, all’esame di fine anno.
Ma cosa rimane fuori da una scuola sdraiata sui parametri Invalsi (per i quali, in ogni caso, non brilliamo, come competenza, in particolar modo nel Sud Italia)?
Rimangono fuori proprio le competenze che fanno di una persona un cittadino attivo, e non un analfabeta funzionale: la capacità di scegliere un libro interessante, e di immergersi nella lettura, la scelta di comprare un quotidiano, la capacità di valutare le proposte economiche e politiche nella loro (grandissima) complessità.
Per rispondere all’allarme dell’OCSE questo paese deve ribaltare il concetto stesso di competenza.
Una scuola dogmatica è una scuola che respinge, e che insegna senza insegnare.
Una scuola che costruisce e valorizza le competenze, invece, è una scuola capace di accogliere, e di insegnare gli strumenti di comprensione del mondo.
Un analfabeta può anche imparare a memoria che Napoleone Bonaparte nacque ad Ajaccio il 15 agosto del 1769, e che nel 1805 si promosse re d’Italia, ma non per questo avrà gli strumenti per accogliere ed analizzare la complessità della società in cui vive.
E anche lui, come i ragazzi che spesso la nostra scuola respinge – quelli che non vengono messi in grado neanche imparare le date a memoria – rischia di entrare a far parte di quel folto gruppo per i quali la guerra in Ucraina è un problema solo se aumenta la bolletta del gas.
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Blog di Giulia Blasi “Scrivo cose, vedo gente”, 20 ottobre 2014, QUI
LEGGERE, SCRIVERE E FAR DI CONTO: DEL PERCHE’ L’ANALFABETISMO FUNZIONALE FA MALE ANCHE A TE
di Giulia Blasi
Quando si parla di analfabetismo funzionale a me viene sempre in mente Mascetti che fa la scena della supercazzola. La supercazzola funziona per due motivi: non ha nessun senso per chi ascolta e a Mascetti basta usare un tono serissimo come se stesse facendo un discorso sensato. Solo il macellaio gli risponde “Non ho capito un cazzo”, ma lo fa affilando il coltello, e quando il conte decaduto e disarmato incontra il macellaio armato, il conte decaduto abbozza. Nessuno, però, gli dice: “O Mascetti, supercazzola ‘un vor di’ una sega, tarapia tapioco come se fosse Antani la tu’ sorella”, perché metti che invece la parola esista.
Se non la sai, la parola non esiste. Se non sai che una parola esiste, non puoi usarla per descrivere un oggetto, un sentimento, una sensazione, un’azione, una situazione. Meno parole sai, meno sei in grado di difenderti dai Mascetti del mondo, ma soprattutto non capisci cosa ti dicono quelli che non sono il Mascetti, ma stanno cercando di comunicarti un’informazione che per te ha valore. Storicamente, chi detiene il potere ha interesse a far sì che la gente legga e studi il minimo indispensabile: un atteggiamento che non era affatto comune nel dopoguerra, quando mandare i figli a scuola era un vanto e un motivo di grandi sacrifici per i genitori, istruirsi una cosa onorevole e l’ignoranza tutt’altro che un motivo di orgoglio. Quando la gente si istruisce, o prova a istruirsi, legge, si informa, si dà gli strumenti per capire non solo la realtà ma anche le possibili implicazioni delle proprie azioni, la responsabilità è meglio distribuita. Se invece il tuo obiettivo è accentrare, la cosa più furba che tu possa fare è incoraggiare l’ignoranza: celebrarla, glorificarla, farla diventare una condizione aspirazionale, di purezza. E allora dagli con la mistica del rapper che ha imparato all’università della strada, del meccanico con le manazze ruvide che fa sospirare le intellettuali di città annoiate dalla vita moderna, del leghista che non ha studiato ma è uno del popolo, del grillino che legge solo status di Facebook ma si sente migliore dei politici di professione, della mamma – eh, la mamma! – che non ha studiato e non lavora ma è una mamma e quindi capisce tutto. Lo studio diventa una condizione di inquinamento dell’anima, uno stato di progressiva corruzione: più sai, più la puoi impapocchiare a chi non sa. Se sai, diventi parte del sistema che cerca di mettercela in culo a tutti.
Si impoveriscono le scuole, si smantella il dibattito culturale o peggio, lo si confina a un parlarsi addosso misto a gran rottura di coglioni. Gli scrittori si recensiscono entusiasti a vicenda, ogni tanto qualcuno si ricorda anche di raccontare una storia che la gente capisce e quel qualcuno è Fabio Volo. “Che la gente capisce” è la chiave, qui. Se tre italiani su dieci sono analfabeti funzionali, stiamo parlando più meno di venti milioni di italiani, giusto? Venti milioni di italiani, amici vostri – forse pure voi che leggete, se siete riusciti a seguire fino qui – che hanno difficoltà a comprendere un testo scritto, che non riescono ad appassionarsi a un romanzo perché fanno fatica a capire le parole, si stancano. La lettura non dà loro piacere, ma fatica. In quei due, tre, quattro milioni che comprano Fabio Volo (quanto vende Fabio Volo? Diciamo due, tre, quattro milioni) ce ne sono tantissimi per cui la prosa soggetto-verbo-complemento, lutto-amore-divorzio-paternità è il massimo dello sforzo intellettivo a cui arrivano. “Mi rilassa”, dicono le vostre colleghe. “Quando torno dal lavoro ho solo bisogno di scaricare il cervello”. E grazie tante. Più rilassante di quella roba lì, giusto un pediluvio.
Tre italiani su dieci che non sanno capire un articolo di giornale oltre a un boxino sulle chiappe di Pippa Middleton. Tre italiani su dieci che non capiscono una manovra finanziaria neanche concentrandosi moltissimo (e io sono fra quei tre, sereni: infatti leggo molto nel tentativo di rimediare, e di sicuro non me ne vanto). Tre italiani su dieci che non hanno idea di come funziona il mondo, ma pretendono di andare in Parlamento a gestirlo perché loro sono migliori di voi. Tre italiani su dieci che votano senza averci capito un cazzo, perché – ripeto – non sanno leggere.
Li riconosci perché scrivono su Facebook senza punteggiatura, con i puntini al posto dei punti, con le virgole al posto dei puntini, con abbreviazioni inutili, senza congiuntivi, “ai” e “o” usati come verbi. Li riconosci perché se provi a parlarci di politica partono con dei pipponi in cui si contraddicono ogni due frasi, pretendono che tu provi “con dati statistici” ogni cosa che dici (ma non sono in grado di fare altrettanto), non capiscono quello che scrivi.
Non. Sanno. Leggere.
Sostengono opinioni razziste, ma se gli fai notare che sono razziste vanno in bestia perché secondo loro li hai insultati (l’opinione rimane razzista). Li riconosci perché sono convinti che tutte le opinioni siano uguali e parimenti degne di rispetto e non capiscono – non hanno la struttura mentale per farlo – che ci sono opinioni sostenibili e opinioni insostenibili. Sembrano scemi e invece sono solo gente che ha smesso di leggere libri dopo la maturità, se l’hanno presa. In molti casi sono laureati, non si capisce esattamente come. Cascano in tutte le bufale che gli passano davanti e le inoltrano: si fidano del “Fate girare!!!” e non controllano mai una fonte che sia una. Il post con la bufala che stanno facendo girare non l’hanno letto, e se l’hanno letto non l’hanno capito, e se l’hanno capito non sanno che gli articoli scientifici fatti bene non si basano su dicerie ma riportano studi accreditati. Sono quelli che spalleggiano Vannoni, sì, Vannoni, quello che fa le iniezioni di brodino di pollo e le chiama miracolo. Sono quelli che non sanno leggere, punto.
Sono quelli lì. Gente che se gli fai presente che c’è differenza fra opinioni, aneddoti e fatti ti aggredisce, perché per loro è tutto uguale.
Nel mio paese d’origine, quando uno parla “difficile” (cioè: l’interlocutore non lo capisce) gli dicono “Parla potabile”. Non ho mai capito fino a oggi perché quell’espressione mi irritasse tanto, ma ora lo so: “potabile” non vuol dire quella cosa lì che pensi tu. “Potabile” vuol dire un’altra cosa. Se anche la parola che usi per chiedermi di semplificare la terminologia che uso è sbagliata, cosa vuoi che faccia io per te? Che punti il dito verso i colori come l’ispettore Catiponda ed esclami “Il giallo!”? Ti faccio un disegnino? Chiamo la maestra di sostegno?
E pensare che basta così poco. Un libro della madonna (non di Fabio Volo: della madonna!), un articolo al giorno ma scritto bene e documentato meglio, un po’ di fact-checking su un argomento controverso (Wired ne fa di ottimi e in italiano, se tutto il tempo che potresti usare per migliorare l’inglese lo metti nel perculare quello di Renzi), un reportage su un paese in guerra, un articolo scientifico. Senti il tuo cervello che si espande e si contrae per masticare le cose nuove che gli stai dando da mangiare. Rileggi Moby Dick senza saltare le parti sulla caccia alla balena*. Leggi Moby Dick. Leggi Ritratto di signora. Leggi Giro di vite, ma leggilo di giorno ché di sera ti caghi sotto. Leggi Rosemary’s Baby. Leggi tutti gli Harry Potter in fila. Due volte. Leggi tutto John Wyndham, non importa quale. Leggi la serie dei libri da cui è tratto Game of Thrones, no, seriamente, leggili che spaccano, ti ci vuole un anno ma leggili, è un anno speso bene: valgono come un trattato di geopolitica applicata, ma sono molto più goduriosi. Leggi Jeanette Winterson, Augusten Burroughs, E. M. Forster. Non leggere Thomas Hardy, era un deprone, anzi leggilo perché era un deprone sublime. Leggi Edith Wharton. Leggi Kurt Vonnegut. Leggi Tom Robbins, ma quelli vecchi, ché quelli nuovi hanno un po’ perso lo smalto. Leggi Benni, Pratolini, Calvino, Arbasino, Ginzburg, Morante. Leggi le biografie dei musicisti, che sono sempre uno spasso. Leggi The Hunger Games. Leggi i libri che raccomandiamo su The Book Girls, noi li abbiamo letti tutti e se sono brutti te lo diciamo. Leggi, cazzo, è la cosa più bella del mondo. Giuro.
* Colpevole, vostro onore: ma all’esame di letteratura angloamericana feci comunque un figurone, Moby Dick mi aveva scavato dei tunnel nel cervello e dissi cose che neanche so io come. Del resto, quando ero piccola i miei si privavano del cibo per comprarmi i libri. Mica scherzo.
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