“Una vecchia puttana”, “Merder”, “Container di merda liquida”, “Cancronesi”, “Supercazzolaro”, “Banchiere del cazzo qualsiasi”, “Alzheimer”, “Nuova maschera lombarda a far la figura di merda”, “Zombie”, “Quasi morto”, “Faccia di culo”, “Ebetino di Firenze”, “Zoccole”, “Puttanieri”… (fonte-1, fonte-2).
E’ un periodo in cui gli insulti e il turpiloquio sono particolarmente di moda e il dibattito pubblico vede emergere accuse di ipocrisia e rivendicazioni di schiettezza. Ma cosa diciamo quando pronunciamo una parolaccia? Di seguito raccolgo alcune brevi citazioni su questo tema.
«The origin of swearing and cursing swearing, interestingly enough, is not a universal phenomenon: American Indians do not swear, nor do the Japanese, nor do Malayans and most Polynesians». «A “good cry”, a “good laugh”, and “a good swear” have each in their way long been recognized as serving the useful function of bringing relief to the harassed mind» (Ashley Montagu, The Anatomy of Swearing, 1967, pp. 55, 83, QUI).
In un articolo pubblicato dalla rivista «Airone» nel giugno 2008, Anna Fregonara risponde alla domanda «Diciamo parolacce da almeno 4 mila anni, perché non riusciamo a trattenerci?». Le diciamo per almeno sei motivi principali: «1. Sfogarsi; 2. Offendere, umiliare, ferire; 3. Segnare l’appartenenza a un gruppo; 4. Attirare l’attenzione; 5. Cacciare il male (il cosiddetto “turpiloquio apotropaico”); 6. Persuadere a cambiare atteggiamento» (QUI).
«Altro tipo di parola potente […] è l’imprecazione […] è sempre fondata sulla sessualità. E’ il motivo per il quale le cosiddette “parolacce” sono sempre oscene. Esse, infatti, si richiamano, in un modo o nell’altro, all’organo sessuale maschile, in quanto simbolo riassuntivo di tutta la potenza della sessualità; perfino quando, apparentemente, la parolaccia sembra sfuggire alla sessualità, perché si riferisce alle feci, in realtà passa invece anch’essa attraverso la sessualità. Non è necessario richiamare teorie psicoanalitiche per affermare questo collegamento, perché le strade che fanno confluire la parola potente di imprecazione con la sessualità sono due, e tutte e due molto chiare: una è legata al concetto di “contaminazione”, che […] determina la distinzione fra sacro e profano; ma siccome la sessualità riassume concretamente e simbolicamente tutte le contaminazioni possibili, defecazione e sessualità sono collegate al sacro in quanto contaminanti […]. Inoltre è evidente il collegamento fra feci e sessualità nell’uso della parola “stronzo” considerata altamente offensiva, e di solito usata dai “maschi” per i maschi” […]. E’ una parola offensiva perché allude alla omosessualità, ossia alla passività sessuale del maschio nel subire il coito in modo anale» (Ida Magli, Gesù di Nazaret. Chi fu veramente il nazareno? [1982], Rizzoli, 1998, pp. 87-88, qui).
INTEGRAZIONI:
Le parole sono fatti, la forma è sostanza. Come scrive Ilvo Diamanti, «In questa “Repubblica a parole” (o meglio: “a parolacce”), mi dichiaro prigioniero politico» (30 marzo 2013: QUI) [Incollo l’intero articolo al commento #01].
«Può succedere che i diretti interessati e i gruppi sociali che si sentono emarginati rifiutino l’uso dei termini eufemistici, dietro i quali si maschera l’ipocrisia sociale, e preferiscano definirsi autonomamente, anche ricorrendo a termini più volgari, come «queer» (checca) piuttosto che gay, «nigga» invece di nero. In America e libertà Furio Colombo conferma che rivolgersi a un gruppo etnico o sociale con i termini che esso ha scelto è una dimostrazione di rispetto, che produce effetti positivi e apre al dialogo. […] Ma certe volte è necessario ricorrere allo strumento legislativo per sensibilizzare la comunità e rendere esplicito un aspetto critico che non si limita alla parola, ma dove la parola si fa strumento di violenza. Basta guardare alla storia recente, o anche solo alla cronaca degli ultimi anni, per trovare casi in cui l’aggressività contro le minoranze è accompagnata da slogan, segni, simboli e parole usati allo scopo di giustificare culturalmente il gesto, gridati per eccitare gli animi. Eliminando la parola violenta si toglie violenza anche al comportamento umano»
(Carlo Bordoni, “La Lettura del Corriere della Sera”, 29 agosto 2013: QUI)
[l’articolo è presente anche tra i commenti].
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Tra i commenti qui in basso sono presenti anche citazioni da testi di Riccardo Muti, Aldo Cazzullo, Adriano Sofri, Roberto Saviano, Luca Ricolfi, Giovanna Cosenza, Saverio Tommasi, Francesco Merlo, Federico Mello, Marco Bracconi.
PS: tra i commenti di QUESTO post ho raccolto articoli ed altri documenti sul caso della giornalista Maria Novella Oppo, messa all’indice da Grillo per le sue opinioni critiche nei confronti del M5S e poi pesantemente insultata da numerosi adepti del comico/politico. (Qualche testo è anche qui sotto).
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AGGIORNAMENTO del 31 gennaio 2014:
«[…] Con gli insulti, è sempre così. Lasciano di stucco, almeno in un primo momento. È per questo che i filosofi del linguaggio ne parlano come di una forma di hate speech, discorso dell’odio. Quando si insulta una persona, non si cerca né di dialogare, né di manifestare il proprio disaccordo. Quando la si insulta, si cerca solo di farla tacere. Che cosa si può mai rispondere quando qualcuno ci insulta d’altronde? Che non si è d’accordo? Che chi ci insulta sta sbagliando? Che non è affatto vero che le donne del Pd sono “brave solo a fare pompini”?
Chi insulta lo sa. Ed esulta dell’umiliazione che provoca, proprio come uno schiaffo in pieno viso che continua a far male anche dopo molto tempo. Allora sì, l’altra sera anche io sono rimasta ammutolita. Silenziosa e impotente di fronte agli insulti di De Rosa, nonostante questa storia dell’hate speech la insegni da anni ai miei studenti per spiegare come nel momento in cui si insulta un interlocutore non è più una questione di diversità di idee o di opinioni, ma sempre e solo un gesto di violenza. Quando ci si trova di fronte alla violenza, tutto è più complicato. Molto più complicato delle teorie. Ecco perché, con le altre colleghe, ci abbiamo messo un po’ prima di reagire, prima di fare comunicati e dichiarazioni, prima di andare al commissariato e sporgere querela […]».
Michela Marzano, “Noi, insultate a Montecitorio“, “Repubblica”; 31 gennaio 2014.
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Negli ultimi giorni di gennaio 2014 la Camera dei Deputati è stata oggetto di violenze verbali e fisiche. Tra le prime espressioni di questo degrado c’è stata la rivendicazione orgogliosa di un onorevole grillino dello slogan “Boia chi molla”. A me ha ricordato un episodio del 1999 che riguardò il calciatore Gianluigi Buffon; ne ho scritto QUI.
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AGGIORNAMENTO del 1° febbraio 2014
Beppe Grillo ha lanciato un’esca per tutti i violenti del suo movimento: un post brevissimo su fb in cui istiga alla volgarità e alla violenza contro Boldrini. Questo sconcio è stato riportato da tutti i principali giornali nazionali: “Repubblica“, “Corriere della Sera“, “La Stampa“, “L’Unità“.
Metilparaben (Alessandro Capriccioli) vi ha scritto un post: Beppe, non sei a disagio? (Altri link e approfondimenti sono tra i commenti).
Tra i commenti qui sotto ci sono testi (articoli, tweet, video) anche di Alessandra Luongo, Ezio Mauro, Massimo Mantellini, Marina Terragni, Giuseppe Civati, Michele Di Salvo, Claudio Messora, Luca Mastrantonio, Ernesto Galli Della Loggia, Pietro Minto, Marco Bresolin, Curzio Maltese, Corrado Augias, Pierpaolo Pinhas Punturello, Stefano Rodotà.
Riferimenti anche a/di Fabio Fazio, Daria Bignardi, Adriano Sofri, Luca Sofri, Sabina Ambrogi.
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AGGIORNAMENTO del 2 febbraio 2014
Anche Corrado Augias è stato oggetto di “gogna grillina” per aver espresso delle dure critiche al M5S in tv (estratto video). Oggi, su “La Repubblica”, racconta la sua versione di quel che è successo e, tra l’altro, riporta un’interpretazione psicologica della volgarità e della violenza manifestate negli ultimi giorni tra Parlamento e web: «[…] Lo psicologo Nicola Artico mi aveva scritto giorni fa per darmi la sua interpretazione dei recenti comportamenti: “Ho visto giovani deputati fronteggiare con il proprio viso quello di un altro come lupi di rango superiore, ho letto insulti di un sessismo arcaico nutrito da pulsioni mai sopite, ho riconosciuto un noto cluster diagnostico: il narcisismo. Non voglio fare una diagnosi a distanza, ma il tema del narcisismo, clinicamente, evoca un mix coordinato come un senso grandioso di importanza, credere di essere speciali, e dunque di poter essere capiti solo da persone (o istituzioni) altrettanto speciali; avere la sensazione che tutto ci sia dovuto, esibire comportamenti arroganti. Più in generale manifestare incapacità di controllare gli impulsi. Ogni volta che si passa all’agito (violento), si è incapaci di dare parola a un’emozione, e costruire simboli, dunque cultura. Si passa all’atto con la negazione anche semantica del concetto di “parlamento”. Questa dimensione colpisce in giovani parlamentari che, in gran parte, s’erano proposti come il nuovo” […]».
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La banalizzazione delle parole e lo svilimento del linguaggio, la normalizzazione delle iperboli e la polarizzazione dei giudizi sono caratteristiche evidenziate da Mario Fillioley in un articolo che spiega l’uso massiccio e sempre più frequente di vocaboli ed epiteti violenti e volgari, soprattutto sul web: «[…] all’essere umano risulta molto difficile pensare senza parole, quindi è facile immaginare che ciò che accade al linguaggio accada anche al pensiero, e che ciò che accade al pensiero di solito si riflette sulla capacità di giudizio. Quando cominciamo a parlare di giudizio ci affacciamo sul balcone dell’etica, e dall’etica alla politica saltare giù è un attimo, poi dalla politica si passa alla legislazione ed eccoci là a scavare con la pala meccanica verso gli inferi della barbaria […]».
(“Le iperboli piatte dei social network“, in “Il Post”, 5 febbraio 2014)
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AGGIORNAMENTO del 7 febbraio 2014:
L’editoriale di Giovanni De Mauro al numero di “Internazionale” del 7 febbraio 2014 si intitola “Eterna” ed è la citazione di una “Cartolina” (programma tv) che Andrea Barbato indirizzò a Beppe Grillo il 25 febbraio 1992. (Riprodotto anche in questo commento).
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Sempre il 7 febbraio 2014, su “Internazionale” è stato pubblicato un editoriale di Lee Marshall, “Solo chiacchiere da bar“, in cui pone attenzione al linguaggio dei membri e dei sostenitori del M5S. Estrapolo i brani seguenti: «[…] Ho cominciato a leggere i commenti su Facebook […]. Ho finito per leggerli tutti. Per chi volesse capire l’M5s e i suoi sostenitori, a quasi un anno della loro entrata trionfale in parlamento, consiglio di dedicarci qualche minuto: non sarà scientifico, ma non è male come spunto per una lettura degli umori, le preoccupazioni, le ossessioni di quel 20-25 per cento degli italiani che sostiene il movimento. […] Direi che le tre sindromi che emergono dai commenti dei sostenitori dell’M5s sono: 1) La convinzione di essere l’unico movimento politico pulito e onesto, l’unico in grado di redimere la dignità calpestata di un paese che è stato troppo a lungo nelle mani di una classe politica corrotta. […] 2) La convinzione di essere trascurati e perfino perseguitati dai mezzi d’informazione, a volte in sintonia con altre forze politiche o un “loro” non meglio definito. […] 3) Proclamazione di un dibattito democratico che in realtà segue delle linee guida mandate dall’alto. […]».
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AGGIORNAMENTO del 9 febbraio 2014:
La deputata del PD Alessandra Moretti ha scritto una lettera al “Corriere della Sera” annunciando una legge contro l’hatespeech (l’odiosa pratica in rete di prendere di mira qualcuno e insultarlo): QUI.
Le ha risposto Marta Serafini, sollevando qualche perplessità: Moretti e gli insulti sul web: perché una legge non deve partire da casi personali. Se un testo parte da casi personali, accaduti a parlamentari e figure istituzionali, perde di efficacia, perché acquista l’odore di legge ad personam: QUI.
Il dibattito intorno alla violenza espressa sul web è stato avviato ai primi di maggio 2013 da Laura Boldrini con un’intervista a Concita De Gregorio. Della discussione che ne ha preso le mosse, ho conservato vari stralci QUI.
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AGGIORNAMENTO del 22 marzo 2014:
L’on. Michela Marzano ha presentato un’interpellanza per conoscere quali siano le intenzioni del Governo Renzi in merito alla cosiddetta “strategia LGBT 2013-2015”. Dal suo intervento di ieri in Parlamento ho estrapolato questa definizione di “hate speech“:
«C’è un problema di fondo, non si capisce la differenza tra libertà di espressione e insulto. L’insulto è una forma di hate speech, di discorso dell’odio, come ci insegnano i Paesi anglosassoni, come sappiamo bene in Francia, come si sa in Germania. Ora, hate speech non è un modo di esprimere un’opinione, è un modo di utilizzare il linguaggio per fare qualcosa. Con hate speech, con il discorso dell’odio, si vuol far male, si vuol far tacere la persona; si agisce, è un atto linguistico. Non c’entra nulla con l’espressione della libertà, con l’espressione di un’opinione diversa» (VIDEO).
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INTEGRAZIONE (al post):
Il 17 gennaio 2014 “Cafè Babel” ha pubblicato la versione italiana (tradotta da Silvia Tomasin) di un articolo di Alex Martinez Ortis sulla storia del gesto del “dito medio”: Un dito per insultarli tutti, del quale «il primo riferimento […], alzato in segno di disprezzo, lo incontriamo ne Le nuvole, una commedia di Aristofane del 423 a.C.».
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AGGIORNAMENTI del 19 maggio 2014:
- Pierluigi Battista (“Corriere della Sera”, 18 maggio 2014) ha scritto un editoriale sul linguaggio che Beppe Grillo sta tenendo durante la campagna elettorale per le Europee del 25 maggio 2014: Grillo ha varcato con freddezza un’altra soglia.
- In questi giorni è tornato a circolare un estratto del libro Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana di Massimo Recalcati (libro-intervista curato da Christian Raimo, edito da Minimum Fax). Si tratta di una pagina pubblicata da “Vita” il 26 agosto 2013: Analisi psicopatologica del grillismo. I giudizi fondamentalisti pararivoluzionari di Grillo “sono ispirati da un fantasma di purezza che troviamo al centro della vita psicologica degli adolescenti [il cui furore] non è in grado di generare davvero un mondo diverso. Può solo chiamarsi fuori dalle responsabilità che scarica integralmente sull’Altro ribadendo la sua innocenza incontaminata. [Eppure] non c’è cambiamento autentico se non attraverso il rispetto delle generazioni che ci hanno preceduto, se non attraverso una soggettivazione, una riconquista dell’eredità che viene dall’Altro. […] Lo psicoanalista, per vizio professionale, guarda sempre con sospetto chi si ritiene portatore di istanze di purificazione della società, chi agisce in nome del bene. Lo psicoanalista sa che chi si ritiene puro non ha tolleranza verso la diversità“.
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AGGIORNAMENTO del 23 maggio 2014:
La Costituzione all’art. 22 sancisce che “nessuno può essere privato, per motivi politici, del nome“. I nomignoli per gli avversari politici e il pubblico ludibrio sono una forma primitiva del giustizialismo. Come spiega Giacomo Papi, storpiare i nomi è un manganello linguistico, un modo per sminuire l’altro come essere umano: Il pubblico ludibrio (“Il Post”, 22 maggio 2014). Nel caso specifico italiano attuale, tuttavia, “la novità politica non è l’insulto in sé, ma la metodica ridicolizzazione dell’avversario, il ricorso allo sfottò come arma di propaganda, il connubio tra insulto e risata“.
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AGGIORNAMENTO del 30 luglio 2014:
Sul suo profilo fb, l’onorevole Luigi Manconi ha scritto il post “Contumelie e psiche a Cinque Stelle“:
“Durante la sudaticcia seduta di ieri, alcuni senatori (specie del partito di 5 Stelle) hanno insultato ripetutamente i parlamentari della maggioranza (specie quelli del Pd), ricorrendo a un vocabolario al tempo stesso ferocemente aggressivo e monotonamente ripetitivo. Questi gli insulti più ricorrenti: traditori, servi, ricattati e altri appartenenti alle medesime categorie semantiche. Da modestissimo cultore delle discipline della psiche, devo notare che un simile catalogo di accuse rivela, in chi lo usa, una irresistibile tendenza gregaria, una spiccata pulsione all’infedeltà e una irriducibile vocazione alla servitù volontaria. Insomma, come può leggersi in un qualunque manuale in vendita presso le edicole delle stazioni ferroviarie, la denuncia troppo accaldata della presunta pecca altrui svela impietosamente ciò che di sé si vorrebbe occultare e rimuovere”.
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INTEGRAZIONE dell’11 febbraio 2015:
Marcello Sorgi ha scritto un articolo su “La Stampa” intitolato “Da Garibaldi a Grillo: onorevoli insulti“, che trae spunto dal recente libro “Storia dell’insolenza” di Antonello Capurso (ed. Il settimo libro, pp. 172, € 16), che ripercorre gli insulti più celebri della politica italiana dopo l’Unità: “Nell’austero Parlamento subalpino risuonavano offese verbali simili a quelle dei giorni nostri“. Il testo completo è QUI.
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AGGIORNAMENTO del 16 febbraio 2015:
Ancora una volta un parlamentare del M5S ha usato un’ingiuria per esprimere il suo pensiero politico. Sebastiano Messina, commentando l’uscita, ha scritto:
“L’insulto gratuito e le offese all’ingrosso [sono] le scorciatoie classiche di quei perdenti rimasti senza argomenti”.
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INTEGRAZIONE del 1° marzo 2015:
All’indomani della manifestazione che la Lega Nord di Matteo Salvini ha tenuto a Roma insieme ad altri movimenti e partiti di destra (Fratelli d’Italia e Casa Pound, tra gli altri), Aldo Cazzullo ha scritto un editoriale sul “Corriere della sera” a proposito del linguaggio usato dal leader leghista dal palco:
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INTEGRAZIONE dell’8 marzo 2015:
Annamaria Rivera ha pubblicato sul “Corriere delle Migrazioni” un piccolo breviario intitolato “Del parlar male, anche a sinistra“, a proposito dell’uso – talvolta inconsapevole, talaltra strumentale – di particolari parole o espressioni che producono razzismo, il quale, come si sa, “poggia su una montagna costituita anche da cattive parole“.
“La Repubblica”, 30 marzo 2013, QUI
LESSICO DEI TEMPI FEROCI
di Ilvo Diamanti
I politici della Prima Repubblica. Erano incomprensibili. Il linguaggio era fatto apposta per non essere compreso. Se non da loro. Al loro interno. Messaggi cifrati. Obliqui. Paralleli. I cittadini, d’altronde, non se ne occupavano troppo. I discorsi politici e dei politici: non li interessavano. Tuttavia, la società non era estranea al contesto politico. “Con-testo”, appunto. Un “testo” condiviso. Perché la politica è rappresentanza e rappresentazione. I “rappresentanti” riflettono la società e la società vi si riflette. Almeno in parte. E il linguaggio ne era lo specchio. Così, le persone parlavano in modo “educato”. In pubblico. Le parolacce non erano ammesse. Quando scappavano, il responsabile veniva guardato con un sorriso tirato, di riprovazione. Sui giornali e sui media, poi, guai. Quel “Cazzo!”, pronunciato sapientemente da Zavattini, nel 1976, fece rumore. Anzi, fragore. Mentre quando Benigni in tv, ospite della Carrà, recitò tutti i sinonimi della “passerottina” (dalla chitarrina alla vulva…), sollevò grandi risate, ma molto meno clamore. Era il 1991. Il muro di Berlino era caduto. E stava travolgendo anche il sistema politico italiano. Seppellendo, insieme alla Prima Repubblica, una civiltà formalista e un po’ ipocrita. Dove il distacco tra società e politica era riprodotto dall’impossibilità di comprendere quel che avveniva “in alto”. I politici non erano apprezzati né, tanto meno, stimati. Anche prima di Tangentopoli. Venivano considerati disonesti. Inattendibili. Disinteressati ai problemi della “gente comune”. Eppure non ci si faceva troppo caso. Tutti votavano sempre. Allo stesso modo.
Certo, negli anni Settanta i movimenti sociali portarono in piazza slogan violenti. Ma si trattava di metodi di lotta. Il linguaggio era usato come strumento “politico”. Non “antipolitico”. Perché, comunque, la “politica” e la “classe politica” contavano. Il loro “potere” era riconosciuto.
Oggi, anzi, da almeno vent’anni: la scena è cambiata. I politici sono impopolari come prima, più di prima. Ma nessuno si fa scrupolo a dirlo. Neppure i politici. I quali si fanno schifo e se lo dichiarano reciprocamente. Non c’è nessuno, d’altronde, che sia disposto ad ammetterlo. Di essere un politico. Neppure i dirigenti di partito, i parlamentari, i senatori. Tutti im-politici. Il vetro che separava i politici dalla società e la società dai politici: si è rotto. Certamente, almeno, dal punto di vista della comunicazione e del linguaggio. L’alto e il basso. Chi sta in alto, i rappresentanti, insegue chi sta in basso, i rappresentati. E scende più in basso possibile. Tutti leader e tutti follower. Gli “eletti” fingono di essere come il “popolo”. Per imitare il “volgo” cercano di essere “volgari”. E ci riescono perfettamente. Senza fatica. Perché spesso sono peggio di loro. Nei comportamenti e nelle parole. Hanno trasformato il Parlamento e la scena politica in un luogo dove non esistono limiti né regole. Ai discorsi, al linguaggio.
Fra i rappresentanti e i rappresentati, è un gioco di specchi infinito. Così l’esibizione di chi “ce l’ha duro” si alterna al grido di “Forza gnocca”. Mentre si sviluppano relazioni internazionali tra “Cavalieri arrapati” e “Culone inchiavabili”. Di recente, infine, nelle piazze, nei palazzi e sui media echeggiano i “vaffanculo”, ripetuti all’infinito. Da chi rifiuta di dialogare con i “morti-che-parlano-e-camminano”. Con i “padri puttanieri della Patria”. Che sono già morti. E, comunque, “devono morire”. Il più presto possibile. Per cambiare davvero il Paese.
È il clima del tempo. Il linguaggio del tempo. (Ben riassunto nel Dizionario della Seconda Repubblica, scritto da Lorenzo Pregliasco e di prossima pubblicazione per gli Editori Riuniti). Contamina tutto e tutti. Anche gli artisti più gentili. Perfino lui, l’Artista a cui mi rivolgevo nei momenti più concitati. Quando vivevo “strani giorni”. Mi rassicurava, sussurrando: “avrò cura di te”. Anche lui, divenuto “politico”, descrive il Parlamento come un luogo affollato di “troie disposte a tutto”.
E, allora, perché resistere? Perché rivolgersi, ancora, agli altri in modo educato? Perché chiedere rispetto: tra genitori e figli, professori e studenti, autorità e cittadini, immigrati e residenti, vicini e lontani, amici, conoscenti e sconosciuti. Perché? E perché limitarsi alle parole e non passare alle vie di fatto? D’altra parte, la distanza è breve. Le parole sono fatti.
Perché mai, allora, io – proprio io – dovrei essere l’ultimo “coglione” rimasto in circolazione? L’unico a trattare tutti, ma proprio tutti, con rispetto? Anche coloro che non rispetto?
Così mi arrendo. Al clima e al linguaggio del tempo. E, per chiudere, rilancio un elegante adagio raccolto al Bar da Braun: “Andate tutti a-fare-inculo. Voi e la vostra politica del cazzo”.
Appunto a margine.
Ho svolto il filo del discorso sul rapporto – degenerato – fra linguaggio, politica e società cercando di essere coerente. Fino in fondo. Eppure, questo linguaggio mi dà fastidio. Scrivere così, a maggior ragione, mi dà (e io mi do) fastidio. Non lo farò mai più. E se le parole servono a “rappresentare” la realtà, se il linguaggio è rappresentanza, io, oggi, non mi sento rappresentato. In questa “Repubblica a parole” (o meglio: “a parolacce”), mi dichiaro prigioniero politico. In questi tempi cattivi, sempre più feroci, mi avvalgo della facoltà di non rispondere.
«E poi questo turpiloquio mi fa orrore. Un segno di abbrutimento»
(Riccardo Muti, intervistato da Aldo Cazzullo il 31 marzo 2013: QUI).
«Il programma dei 5Stelle contiene molti obiettivi buoni per una sinistra della conversione ecologica, e anzi da quest’ultima pensati e proposti da lungo tempo.
La differenza sta altrove, nel Vaffanculo, nei Morti che camminano, nel Tutti a casa. La differenza fra il federalismo verde e aperto di Alex Langer e il razzista federalismo leghista passava dalle imprecazioni di Bossi e dei suoi. I buoni programmi smettono di essere minoritari e vincono quando vengono distorti e incattiviti dalla demagogia» (Adriano Sofri, 25 aprile 2013: QUI).
«Non si tratta di essere ipocriti o politicamente corretti (espressione insopportabile per esprimere invece un concetto colmo di dignità), ma di comprendere che usare un linguaggio disciplinato, non aggressivo, costruisce un modo di stare al mondo. I linguisti Edward Sapir e Benjamin Whorf hanno teorizzato la relatività linguistica secondo cui le forme del linguaggio modificano, permeano, plasmano le forme del pensiero. Il modo in cui parlo, le cose che dico, e soprattutto come le dico, le parole che uso, renderanno il mondo in cui vivo in tutto simile a quello connesso alle mie parole. Se uso (non se conosco, ma proprio se uso) cento parole, il mio mondo si ridurrà a quelle cento parole. Noi siamo ciò che diciamo. Quindi il turpiloquio, l’insulto o l’aggressività costruiscono non una società più sincera ma una società peggiore. Sicuramente una società più violenta. I commenti biliosi degli utenti di Facebook e Twitter portano solo bile e veleno nelle vite di chi scrive e di chi legge».
Roberto Saviano, Fuori i bulli dal nostro Twitter, «La Repubblica», 11 maggio 2013.
L’elogio della schiettezza a scapito della buona educazione, per me è qualcosa di inaccettabile. Sui socialnetwork l’encomio della franchezza dilaga, naturalmente di pari passo ad un generale degrado del livello della comunicazione (sempre più impoverita dall’intromissione di parolacce, se non ingiurie) e, ovviamente, del suo contenuto (le reazioni dei “genuini” sono quasi sempre equiparabili all’alzarsi di botto da un tavolo e andarsene sbattendo la porta).
Questo fenomeno di imbarbarimento non riguarda solo il privato, com’è intuibile, ma lo si respira ovunque. Innanzitutto in politica. E Luca Ricolfi inserisce questo dato tra i fattori del recente insuccesso elettorale grillino:
«[…] Il Movimento Cinque Stelle pare non aver capito che molti elettori danno una notevole importanza a due virtù: la competenza e lo stile. Molti elettori (la maggioranza, a mio parere) non si accontentano affatto di essere governati da gente «semplice e onesta», ma vorrebbero anche che i politici che li rappresentano fossero competenti, esperti, e persino educati. Soprattutto quest’ultima cosa. Gli elettori possono anche perdonare la volgarità del capo, che può mascherarsi dietro l’alibi della satira, ma apprezzano molto di meno la volgarità dei sottoposti, sia quando si manifesta come amore per il vil denaro (vedi il surreale dibattito sugli scontrini e gli emolumenti dei parlamentari) sia quando si manifesta con le offese e il turpiloquio (giusto ieri le parole «merda» e «stronzo» erano al centro delle profonde riflessioni politiche di due grillini molto in vista, la capogruppo alla Camera Roberta Lombardi e l’uomo-streaming del movimento Salvo Mandarà; per non parlare delle offese di Grillo a Stefano Rodotà). […]»
Luca Ricolfi, La fiammata dei Cinque Stelle, «La Stampa», 31 maggio 2013, QUI
Il 20 agosto 2013 Beppe Grillo ha postato “Gli Houdini della parola“, in cui scrive:
«Non possiamo più parlare. Il politically correct ha trasformato le nostre conversazioni in parole sintetiche. Di plastica. Le ha svirilizzate. Parlare come si pensa è diventato uno scandalo. […] Mentre parli devi continuamente e seriamente valutare se ogni parola che stai per pronunciare può urtare la sensibilità di qualcuno: un gruppo religioso, un’istituzione, una comunità, un’inclinazione sessuale, un’infermità, un popolo. Per non avere problemi devi limitarti ai saluti “Buongiorno e non mi faccia dire altro”. […]».
Diverse risposte, tra le quali segnalo le seguenti.
Giovanna Cosenza: «[…] il turpiloquio di Grillo è diverso da quello della Lega e di qualunque altro politico, perché viene dalla satira e come tale attacca il potere, ma soprattutto perché, se pronunciato (e agito) da lui nelle piazze, fa ridere e la risata stempera ogni aggressività. […] Perciò quando ho letto il post di Grillo «Gli Houdini della parola» mi sono arrabbiata. Perché dice anche cose giuste, ma è fuorviante ai limiti della disonestà intellettuale. Mi spiego. Grillo giustamente fa appello al potere liberatorio e dirompente del linguaggio schietto, del «dire pane al pane e vino al vino». Ma mischia la lana con la seta e generalizza in modo scorretto. […] Chi usa in modo ipocrita il linguaggio politically correct non sta lì a «valutare seriamente» un bel nulla, né si preoccupa di «urtare la sensibilità» di nessuno. L’ipocrita parla per automatismi e conformismo, e si riempie la bocca di parole vuote mentre dentro di sé resta ottusamente ancorato ai suoi pregiudizi, razzismi e privilegi. Viceversa parlare stando attenti, attentissimi a non urtare la sensibilità di nessuno/a è sacrosanto, lo devono fare tutti. Inclusi gli attivisti 5 Stelle. […]» (QUI).
Saverio Tommasi: «Caro Grillo, ti scrivo. Lo faccio perché ho letto il tuo post di oggi e fra la critica e il silenzio ho deciso di scegliere la prima. […] Caro Grillo, confermo quello che già pensi. Io non sono come tu mi vorresti, non uso il turpiloquio per mandare messaggi politici, non attacco le minoranze per strappare un sorriso, non mi faccio scrivere i post da Casaleggio, penso che la differenza fra destra e sinistra ci sia eccome, non gioco a confondere l’opinione pubblica confondendo il PD con la sinistra, amo la partecipazione che non sia genuflessione e poi sì, rispetto il ruolo dei capi, ma se qualcuno dice cento volte “uno vale uno” e poi mi accorgo che quell’uno che lo urla vale più di tutti quegli altri “uno” che lo ascoltano sono capace di rimarcarlo in un post. […] Ti lamenti di non poter più parlare (“Non possiamo più parlare” è addirittura l’incipit del tuo post),quando tu per primo, negli ultimi anni, hai storto il linguaggio abusandone in volgarità. E poi di seguito all’articolo ti scagli contro il “politically correct” senza spiegare cos’è. […] Comunque, caro Beppe, per me vali zero. Detto da amico. Tu avresti usato l’espressione “non vali un cazzo” ma spero tu mi abbia capito anche se ho usato un gergo differente. […] A me quello che impressiona è un altro fatto: a te interessano i voti degli omofobi. Questo sì che mi impressiona. […] “Mentre parli devi continuamente e seriamente valutare se ogni parola che stai per pronunciare può urtare la sensibilità di qualcuno: un gruppo religioso, un’istituzione, una comunità, un’inclinazione sessuale, un’infermità, un popolo”. Su questo sono d’accordo, ma tu l’hai scritto come se questo fosse un problema, perciò non sono più d’accordo. O in altre parole: sono d’accordo con l’opposto di quello che dici. […]» (QUI).
Sulla retorica grillina (altroché Houdini!), segnalo questa riflessione di Marco Bracconi:
“Politica Pop”, 27 febbraio 2014, QUI
IL PADRONISMO E LE PAROLE
di Marco Bracconi
Fosse vivo Camus, direbbe forse che il linguaggio è inno all’ambiguità. Perché anche quando serve a mentire dice sempre la verità. Spesso, anzi, esaspera la menzogna ma senza riuscire a nascondere i suoi reali obiettivi. E altrettanto spesso si copre in superficie con la parola democrazia rivelando però nel profondo i propri tic totalitari.
La sineddoche, il far passare una parte per il tutto, è uno degli strumenti aurei di questa sintassi sofisticata e scientemente ad uso di inconsapevoli cultori dei mainstream.
Dire che l’espulsione di qualcuno è stata decisa dalla Rete piuttosto che – correttamente – affermare che è stata decisa dai militanti attraverso una votazione on line, è un tipica forma linguistica totalitaria. Esattamente come ripetere che i cittadini vogliono mandare tutti a casa, quando i cittadini che vogliono mandare tutti a casa sono solo un quarto degli elettori.
Il padronismo grillino (più che nelle espulsioni in sé) ha nella retorica comunicativa la sua vera arma di dissimulazione del reale. Un’arma che penetra surrettiziamente nel corpaccione sonnolento dell’opinione pubblica nel tentativo di definire uno spazio unico in alterità ad un non-luogo, quello di chi in realtà non esiste più (siete morti viventi) pur se misteriosamente conserva ancora le leve del potere.
Il solo luogo reale è quello a Cinque Stelle.
Per questo un hastag ben piazzato diventa un plebiscito dell’intero Twitter, e per questo qualche migliaio di voti on line fanno diventare un illustre giurista il presidente scelto dal popolo.
La democrazia diretta ha più di un peccato originale. Tra questi c’è la sistematica trasformazione linguistica di minoranze, anche ampie, in maggioranze totalitarie. E allora la domanda che ci si dovrebbe porre è quanto sia credibile un Movimento che grida al golpe per un premio di maggioranza nel sistema elettorale e poi si attribuisce da sé un premio di maggioranza ogni duemila commenti su Facebook.
Proclamando quelli cittadini, e così negando cittadinanza a tutti gli altri.
“La Lettura” (“CorSera”), 29 agosto 2013, QUI
LA LINGUA BATTE DOVE LA POLITICA VUOLE
In Italia si discute una legge contro l’omofobia, la Russia punisce la «propaganda gay» Ma non è facile guidare dall’alto l’enorme capacità di mediazione culturale delle parole
di Carlo Bordoni
La saggezza popolare ci aveva messi in guardia: quanti proverbi — da «Le parole sono pietre» a «Ne uccide più la penna che la spada» — raccomandavano un uso attento del linguaggio per non offendere la sensibilità altrui? Le parole possono ferire, istigare alla violenza, spingere al suicidio, perché ognuna di esse può nascondere il giudizio sociale, la disapprovazione, il senso di colpa. Mentre il Parlamento italiano avvia la discussione della legge contro l’omofobia, rinviata in calendario dopo la pausa estiva, anche altrove si assiste a una curiosa concentrazione del dibattito sull’uso e l’abuso di termini tendenziosi, scorretti o ingiuriosi e al conseguente tentativo di regolamentarli o contenerli per legge.
La Russia di Putin, con un rigurgito moralista, ha introdotto la censura verso la «propaganda omosessuale» con la pretesa di tutelare i minori: un’omofobia di Stato che, com’era prevedibile, ha scatenato vivaci proteste in occasione dei Mondiali di atletica a Mosca. Per contro, l’Italia si appresta a condannare la propaganda omofoba e a punire con la reclusione fino a un anno e sei mesi chi «incita a commettere o commette atti di discriminazione motivati dall’identità sessuale della vittima e con una pena fino a quattro anni in caso di incitamento alla violenza o commissione di atti violenti». Il campo d’intervento, nei due casi opposti, attiene sempre al linguaggio.
Ma una legge può cambiare il modo di pensare e, di conseguenza, il comportamento sociale? È sufficiente togliere la parola «razza» dalla Costituzione francese, come propone il presidente Hollande, per cancellare il razzismo? Quella che Sarkozy ha definito la «guerra al dizionario» non è solo frutto di un tentativo subdolo di rimuovere freudianamente il problema e nasconderlo alla coscienza: è un atto sociale. Perché, come asseriva il fondatore della linguistica moderna, Ferdinand de Saussure, «il linguaggio è un sistema di differenze in cui il significato risiede non nei termini stessi, ma nelle relazioni differenziali tra loro».
Con l’evolversi della società le parole si evolvono anch’esse; cambiano senso, si adeguano. Certe perdono l’innocenza e si caricano di un significato odioso. È il caso di «negro», che richiama alla memoria la pratica della schiavitù, sostituito da «coloured», «nero» o «afroamericano» a partire dalla fine degli anni Ottanta in America e poi in tutto l’Occidente. Eppure usato senza sospetto da Martin Luther King nel suo discorso «I Have a Dream» del 28 agosto 1963 (riprodotto sulla «Lettura» #91 del 18 agosto). O come lo spregiativo «nigger», ancor più offensivo di «negro», che Joseph Conrad aveva utilizzato per il romanzo Il negro del Narciso (1897). Proprio «nigger» è stato sostituito da «schiavo» in una versione «purgata» del capolavoro di Mark Twain Huckleberry Finn.
Può succedere che i diretti interessati e i gruppi sociali che si sentono emarginati rifiutino l’uso dei termini eufemistici, dietro i quali si maschera l’ipocrisia sociale, e preferiscano definirsi autonomamente, anche ricorrendo a termini più volgari, come «queer» (checca) piuttosto che gay, «nigga» invece di nero. In America e libertà Furio Colombo conferma che rivolgersi a un gruppo etnico o sociale con i termini che esso ha scelto è una dimostrazione di rispetto, che produce effetti positivi e apre al dialogo.
La sostituzione di un termine politically incorrect avviene per lo più naturalmente, a seguito della maturazione della sensibilità comune o dell’affermarsi di una corrente d’opinione per il riconoscimento dei diritti delle minoranze, come è avvenuto negli Stati Uniti. Ma certe volte è necessario ricorrere allo strumento legislativo per sensibilizzare la comunità e rendere esplicito un aspetto critico che non si limita alla parola, ma dove la parola si fa strumento di violenza. Basta guardare alla storia recente, o anche solo alla cronaca degli ultimi anni, per trovare casi in cui l’aggressività contro le minoranze è accompagnata da slogan, segni, simboli e parole usati allo scopo di giustificare culturalmente il gesto, gridati per eccitare gli animi. Eliminando la parola violenta si toglie violenza anche al comportamento umano.
Ogni censura linguistica rischia tuttavia di limitare la libertà di opinione: su questo registro si muove gran parte delle obiezioni di chi non è favorevole alla legge contro l’omofobia. «Famiglia Cristiana» e varie organizzazioni cattoliche (tra cui i Giuristi per la Vita, autori di un appello ai parlamentari) temono di incorrere nel reato d’opinione esprimendosi contro i matrimoni tra persone dello stesso sesso e le adozioni gay, ma anche di non poter più sostenere pubblicamente affermazioni del tipo «gli atti omosessuali sono contrari alla legge di natura».
D’altra parte l’obbligo per legge di usare o meno un determinato linguaggio ha sempre il carattere di una censura preventiva. Ricorda da vicino le disposizioni fasciste contro i termini stranieri, un’italianizzazione con risultati esilaranti («calciobalilla», fiumi di «sciampagna», ricchi premi e «cotiglioni»). Ma qui non si tratta di formalismi o di eccessi del politically correct per sostituire termini in disuso — povero con «non abbiente», bidello con «non docente» — che in genere rispondono a una prassi eufemistica. E neppure di mascherare una realtà troppo cruda o scomoda: nessuno parla più di guerre, ma solo di «missioni di pace»; i morti e i feriti rientrano tra i «danni collaterali». Qui si tratta del diritto a non essere discriminati (o colpevolizzati, o emarginati) per l’orientamento sessuale, così come accade per la razza, la religione, il genere il credo politico.
Qui il linguaggio fa la differenza, dimostra una valenza di mediazione sociale. Ha il potere di scatenare odio, paura, aggressività. Il cervello associa le parole a sensazioni, angosce, emozioni e provoca reazioni: la relazione tra il pensiero e la mano — lo ha dimostrato Leroi-Gourhan in un testo fondamentale di etnologia, Il gesto e la parola (1964-65) — passa attraverso il linguaggio. Per questo, e non per ipocrisia, il National Cancer Institute americano ha proposto di sostituire la parola «cancro», che provoca terrore in chi riceve la diagnosi, con «neoplasia», termine meno minaccioso che non evoca subito la morte. Una sostituzione che Umberto Veronesi sostiene da tempo. Mentre nella bozza del nuovo codice deontologico i medici italiani sostituiscono «paziente» con «persona assistita».
Perché anche le parole possono curare (lo sappiamo dalla psicanalisi) e perdere la loro carica dolorosa, oppure offensiva o discriminante. Come è sparita dall’uso comune «matrigna», per definire la donna che prende il posto della figura materna; come sono scomparsi «nullafacente» per disoccupato, «vucumprà» per ambulante extracomunitario, «zitella» per la donna nubile, «mongoloide» o «storpio» per il diversamente abile, così possiamo liberarci di «invertito», «pervertito» o «frocio», senza preoccuparci troppo se, al riguardo, le Sacre Scritture parlano di «grave depravazione». Il mondo cambia di continuo e con esso le relazioni sociali. È la dimostrazione della vitalità dell’unica razza a cui apparteniamo (come diceva Einstein): quella umana.
Il 6 dicembre 2013 Grillo ha cominciato una lista di proscrizione dei giornalisti sgraditi cominciando da Maria Novella Oppo (ne ho scritto qui).
(Fonte)
Francesco Merlo ha commentato così:
“La Repubblica”, 7 dicembre 2013, QUI
IL MANGANELLO DI GRILLO
di Francesco Merlo
Ha lanciato la prima fatwa contro una giornalista e adesso tutti devono insultare, sbertucciare e molestare la signora Maria Novella Oppo che scrive (bene) sull’Unità. E domani è già previsto un altro wanted, un ricercato nuovo. Più precisamente sul blog di Beppe Grillo ci sarà un giornalista al giorno da lapidare. “Segnalateli” è infatti l’ordine testuale del leader populista: sfogatevi, colpiteli, prendeteli.
Nel blog, con la sua solita prosa malata, scrive “sputtaniamoli” per spiegare il senso della rubrica che ha appena inaugurato e che ha intitolato “Giornalista del giorno”. Ebbene, nel recente passato uno così caricaturale ed esagerato lo avremmo liquidato con un coro di “scemo scemo” magari davanti a casa sua, sulla spiaggia di Bibbona. Insomma, non lo avremmo preso troppo sul serio. Era stato del resto Dario Fo a spiegarci che le sue sparate, il suo parlare per eccessi, per iperboli, per sberleffi e anche per insulti fegatosi e per minacce era in fondo teatro, opera buffa, metafora, linguaggio smodato e maleducato che qualche volta può anche essere necessario. Per la verità Dario Fo non era convincente, ma in molti pensavamo che gli spasmi biliosi e la patologia ossessiva di Grillo non avrebbero certo contagiato un Paese sano, una democrazia matura e neppure il web che il leader del malumore cerca sempre più di ridurre a un cortile dove, come le lavandaie di una volta, i suoi garzoni sbraitano contro tutti; o come i muri delle latrine dove il primo che arriva scrive le proprie porcherie.
Ma oggi questo strampalato Grillo, che farnetica di assalti e di vendette, sta diventando troppo minaccioso e il suo incitamento all’offesa persecutoria contro i cronisti e gli opinionisti è ormai una forma di teppismo politico. E infatti non è insorto solo Enrico Letta lanciando in un tweet «la solidarietà per Maria Novella Oppo schedata e lapidata verbalmente da Grillo». Questa volta persino il nonno nobile del grillismo, lo stesso Dario Fo, intervistato dal quotidiano “Europa” si è dissociato: “Non mi piace. Non accetto un linguaggio di questo genere”. Dario Fo dice pure, attenuando il suo disagio, di conoscere un Grillo “più sottile e ironico” e conclude che forse “non l’ha scritto lui, ma qualcuno che lavora nella comunicazione”. E mi ricorda “la colpa è del portavoce”, vale a dire il ritornello della più trita tradizione del peggiore politichese. In realtà è lo stesso spurgo che, il mese scorso, spinse la senatrice Paola Taverna a rassicurare i propri adepti con una frase agghiacciante su Berlusconi: “Un giorno di questi gli sputo”. E le scuse successive suonarono come un’aggravante. Si giustificò infatti dicendo: fuori parlo così. Significa che c’è qualcosa di peggio dell’orrore che Grillo ha mandato dentro il palazzo della politica; significa che c’è un fuori dove si deposita altro orrore.
Come si vede i tempi sono più propizi alla violenza che alla ragione e il furore sta trasformando gli ex ingenuotti del Movimento 5 stelle in funzionari fanatici. Sembrano gli arditi con il web tra i denti al posto del pugnale. Il loro codice di rapidità e di fuoco diventa sempre più eversivo e, se ci fate caso, orecchia in modo sorprendente il vocabolario marinettiano, quello della guerra in Etiopia. Vediamolo. “La Corte ha i tempi di un gasteropode”. “I giornalisti sono paraculai dei giornalai di regime”. È tutto un “pirotrone”. Esplode “lo sterco secco”. Zirla “il cuculus canorus”. Si propaga “la pippite” tra “i catafalchi”. “Il ballista d’acciaio” metallizza “le scimmie instancabili”. E intanto turbinano i “vaffa” e i “siete ominicchi e prendinculo”. E sono “illegittimi” il Parlamento, il governo, il Presidente della Repubblica, le elezioni, la Corte Costituzionale, le istituzioni e, prima di tutti, i cronisti che non criticano ma “diffamano”, non raccontano ma “servono i partiti” e presto saranno licenziati e dovranno trovarsi un lavoro: “Tutto finirà in una combustione politica spontanea”. Ora ditemi se questa non è la digitalizzazione grottesca e caricaturale del futurismo di guerra, ma senza la cultura che pur sempre gli stava dietro: Boccioni, Carra, Severini, Russolo, Slataper e Palazzeschi. Pensate adesso ai balbettii, anzi ai “borborigmi” di Casaleggio, del professore Paolo Becchi, di Vito Crimi e della Lombardi.
Certo anche io sono un giornalista e non mi fa piacere che già domani potrei essere esposto (ancora una volta) alla gogna. Ma è giusto ricordare che gli ultimi elenchi di giornalisti, le ultime schedature di “obiettivi sensibili”, le hanno fatte in Italia quelli che poi, dopo qualche anno, aspettarono in via Solferino Walter Tobagi. E, a ritroso, i camorristi che inseguirono la Mehari di Giancarlo Siani e i mafiosi che pedinarono Pippo Fava sino alla sede del teatro stabile di Catania. È vero che Grillo non è ancora terrorista né camorrista né mafioso. Sempre più però il suo codice di violenza, i suoi roghi, le sue scomuniche, i suoi avvertimenti, i suoi manganelli foscamente rimandano alla “sgrammatica” dei terroristi, dei camorristi, dei mafiosi.
“Maschile / Femminile”, blog su “Io Donna”, 7 dicembre 2013, QUI
AMICHE 5 STELLE, AVETE UN PROBLEMA
di Marina Terragni
Ho sempre rispettato il Movimento 5 Stelle, i suoi eletti e i suoi 8 milioni di elettori -chi frequenta il blog lo sa-. Pur non condividendo completamente la scelta di tenersi fuori politicamente da ogni responsabilità di governo, ho sempre riconosciuto la spinta innovativa del Movimento, senza il quale anche quelle poche prospettive di cambiamento a mio parere sarebbero ancora sbarrate.
A occhio, quindi, non dovrebbe capitarmi di finire nella lista di proscrizione istituita da Beppe Grillo contro i giornalisti nemici del Movimento, né di sentirmi dare, come è capitato alla collega Maria Novella Oppo dell’Unità, della “cessa”, “baldracca”, “racchia”, “ammoscia cazzi”, “cagna”, “zoccola”, “carta da culo”, “troia”, “succhia cazzi” (traggo dalla pagina Facebook di Beppe Grillo). Ma sarei ben lieta che capitasse anche a me, se questo servisse a risvegliare le coscienze delle moltissime elette e militanti 5 Stelle, che non soltanto dovrebbero rivoltarsi di fronte all’idea di una lista di proscrizione dei giornalisti, armamentario classico dei fascismi e delle dittature, e su questo non si discute, ma anche riconoscere quello che è capitato alla mia collega come odio misogino e pura e ripugnante violenza sessista: e anche questo è fuori discussione.
Beppe Grillo non ha saputo e non ha voluto fare il passo che sarebbe stato necessario a consolidare il suo straordinario successo elettorale: dall’urlo alla mitezza gandhiana, dalla guitteria savonaroliana alla sobria e ferma denuncia delle moltissime cose che vanno denunciate. Nel merito di quello che dice ha molte ragioni, ma quel metodo, funzionale alla fase dell’attacco destruens, non gli consentirà di costruire granché. Di vaffa in vaffa, il Movimento rischia di perdere colpi.
Mi appello alle amiche 5 Stelle perché ricorrano a tutta la loro autorità femminile per costringere il leader a un rapido e deciso cambio di passo, stigmatizzando in ogni modo l’odio misogino espresso da un Movimento che paradossalmente gode della fiducia e del sostegno attivo di moltissime donne. Le avversarie politiche non sono “baldracche” (epiteto, vedo in quella stessa pagina, riservato anche alla Presidente della Camera Laura Boldrini), e qualunque maschio colga l’occasione del conflitto politico per esprimere la propria fragilità, la propria miseria e la propria violenza, andrebbe bannato in quanto stalker e allontanato con decisione.
Se la civiltà politica che i 5 Stelle hanno in mente contempla lo stupro “etnico” simbolico delle donne della parte avversa, be’, allora tanto vale che il Movimento si estingua, e al più presto.
aggiornamento delle ore 12.30: quanto a misoginia, Massimo D’Alema non è da meglio: vedere qui. Proprio non c’è limite. Che si vergogni.
– – –
Le Officine Tolau hanno raccolto in un video di 47′ gli insulti grillini a Maria Novella Oppo, letti da un gruppo di giornalisti modenesi, presentato sul blog con questo commento:
La “base” del Movimento 5 Stelle? Eccola qui: incitati da Beppe Grillo i “fan” del movimento così commentano su Facebook un articolo (sgradito al Capo) scritto da Maria Novella Oppo, giornalista dell’Unità. La faccia, in questo video, la mettono alcuni giornalisti di Modena, solidali con la collega, ma le parole sono quelle testuali dei grillini.
VIDEO:
“La Repubblica” ne ha pubblicato un estratto di 2 minuti: QUI.
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“Huffington Post Italia”, 11 dicembre 2013, QUI
DA SCANZI A GRILLO: PERCHE’ SU INTERNET VINCE L’INSULTO
di Federico Mello
“Vecchia troia”, “Testa di cazzo”, “Merda”, “Venduto”, “Ma chi ti scopa?”, “Ladro”. Questa una breve selezione dei tipici insulti che si trovano online. Non bisogna andare troppo lontano: basta guardare una qualsiasi pagina Facebook o i commenti ad un qualsiasi blog mediamente popolato.
Ma dopo il caso di Maria Novella Oppo, l’insulto digitale ha sfondato le mura dei bit ed è diventato argomento di dibattito pubblico: se ne sono occupati in questi giorni Francesco Merlo su Repubblica e Marco Travaglio sul Fatto, Vittorio Feltri sul Giornale e persino Renato Brunetta sul Foglio.
Il dibattito, al netto degli insulti per stigmatizzare gli insulti, è interessante. Quello che sfugge a molti commentatori, però, è il dato strutturale che riguarda gli insulti digitali. Le domande da porsi infatti sono due:
1) Perché la Rete è terreno fertile per gli insulti?
2) Perché su Internet l’insulto paga?
Proviamo a rispondere.
La Rete è un media diverso dagli altri. A differenza di tv, radio, giornali, che prevedono una emittente e una moltitudine di riceventi, online è possibile una comunicazione “molti a molti”. Per tanti anni quelli come me, nati blogger, hanno pensato che ci trovassimo di fronte ad un passaggio fondamentale per l’umanità: avrebbe favorito dibattiti, l’emergere di idee nuove, un’abbondanza di informazioni scomode e solitamente taciute dai media tradizionali. Negli ultimi anni, però, ci siamo dovuti arrendere ad un’altra realtà.
La Rete, infatti, lo sapete bene voi che leggete, è un media dove la distrazione è la vera protagonista. Davanti allo schermo siamo bombardati da stimoli, inviti, luci che si accendono e pulsanti che chiedono di essere cliccati. Navigare è diventato un processo estremamente faticoso: se non ci si organizza è quasi impossibile focalizzare la propria attenzione su un singolo contenuto per un tempo superiore al minuto.
Quelli che si occupano di marketing digitale tutto questo lo sanno bene. Se leggete i loro manuali, infatti, vi spiegheranno che in tutta questa distrazione un contenuto diventa virale o se è utile o se ha un alto valore emotivo. È un dato di fatto: gatti, neonati, incidenti stradali, hits su YouTube funzionano spesso proprio per il loro carico “di pancia”.
Se volete farvi notare online, allora, avete due strade: o scrivete qualcosa di utile, o scrivete qualcosa di emotivo. Scrivere qualcosa di utile, però, è estremamente difficile. Buttarla sulla pancia è terribilmente più facile.
Per avere un quadro completo di come funziona la comunicazione online, infine, bisogna tenere a mente un’altra caratteristica strutturale della Rete: quasi sempre sul web comunichiamo solo e soltanto con del testo. Se andiamo a bere un caffè con qualcuno, lo guardiamo in faccia, vediamo le sue reazioni, abbiamo davanti un essere umano. Sul web no: posso mandare a quel Paese chiunque senza il rischio di dover ribattere alla sua risposta, di dover affrontare una sua reazione (magari fisica) e non c’è neanche alcuna sanzione sociale per i nostri comportamenti (in fila alle poste diremmo mai: “Dove pensi di andare brutto stronzo?” a qualcuno che vuole fare il furbo?). Online, insomma, siamo tutti leoni, tutti a fare i bulli.
Ecco che abbiamo le risposte alle domande di sopra:
1) Il web è terreno fertile per gli insulti perché è di per se stesso un contesto de-umanizzato: dove non c’è incontro fisico si diffonde lo scontro verbale.
2) Insultare conviene perché così si aumentano i like, i “mi piace”, i commenti di risposta, i retweet, il numero di fan, quindi la notorietà.
Questa è la poco edificante realtà della Rete e probabilmente non possiamo fare molto per cambiare il mood generale.
Quello che però colpisce, in questi tempi feroci e connessi, è come molti giornalisti, politici, blogger, militanti, persone note e con una reputazione che dovrebbero essere esempio per gli altri, utilizzano scientificamente l’insulto come strumento di marketing.
È il caso di Beppe Grillo, naturalmente. È talmente connaturata a Grillo la denigrazione verbalmente violenta dell’avversario, che viene da chiedersi se il comico scriva i suoi post perché ci crede davvero o perché solo scrivendo certe cose può fare il pieno di “mi piace”. Ed è talmente vero tutto ciò, che il leader a 5Stelle tuona dal suo blog ma ha paura a confrontarsi in tv con gli avversari o con giornalisti in carne e ossa: in faccia non riuscirebbe mai a dir loro quanto dice nascosto dal suo blog (e non a caso quando si è recato al Quirinale aveva la cravatta al collo – e alla lingua).
Ma sono tanti anche i giornalisti e gli opinion maker – persone che se non eccedessero nel dileggio avrebbero la mia stima – che utilizzano a piene mani questa tecnica per farsi notare online. Andrea Scanzi, per esempio, ha chiesto a Matteo Renzi le dimissioni di un membro della neo-segreteria pd. Nel mirino è finito il blogger Francesco Nicodemo – che non conosco – reo (quando ancora non rappresentava nessuno) di tweet insultanti e molto sgradevoli nei confronti di giornalisti e avversari politici.
Fa specie però che Scanzi utilizzi vari insulti per stigmatizzare gli insulti altrui. Parlando di Nicodemo, scrive: “Lasciamo stare la fisiognomica (non sarebbe elegante)” [Ovvero, è brutto]; ha “la capacità dialettica, un mix di balbettii e tentennamenti esilaranti (nei momenti tristi, andate a sbirciarlo su Youtube: vi tornerà il buonumore)” [È ridicolo]; “Adesso proverà a cancellare i tweet: troppo tardi, Statista” [È sicuramente disonesto]; “Compie uno stalking denigratorio quasi tenero, come se Travaglio gli avesse rubato la merenda (delle molte che pare aver mangiato) da piccolo” [È grasso]; e gli dà infine del “Simpatico statista dal fiero crine stempiato (e forse “pittato”, cit)” [È quasi calvo].
Cinque insulti cinque in un solo articolo. Per stigmatizzare gli insulti ricevuti. Certo, Andrea ha portato a casa 10mila condivisioni su Facebook e quasi 1000 commenti. Il suo è un post che funziona, diamine. Ma tutto ciò a che porta? Avrà delle conseguenze sui toni sguaiati che si leggono online e che si sentono, ancora oggi, in molte piazze?
Umberto Bossi e la sua volgarità, che facevano presa già in epoca pre-digitale, sono sempre stati messi al bando dalla persone per bene. Oggi personalità con seguito, sembrano non voler utilizzare la responsabilità che deriva dalla loro posizione e piuttosto sdoganano l’insulto, la denigrazione fisica dell’avversario, il dileggio come strumento di auto-marketing digitale.
Cominciando da chi scrive, chiedo: sarebbe possibile una moratoria su tutto ciò? Sarebbe possibile provare ad affermare l’importanza delle argomentazioni sulle invettive? Lo spero di cuore.
PS: Se non fosse possibile la suddetta moratoria, caro Andrea, ti suggerisco qualche spunto: come sai sono sovrappeso e stempiato anche io, a volte mi scappano dei refusi e magari quanto scrivo è un nonnulla, una scoreggia nello spazio (cit.), vale mezza lettera di uno qualsiasi dei 140 caratteri dei tuoi preziosi tweet. Eppure, nonostante ciò, sono qua a dire la mia.
“Maschile/Femminile”, blog di “Io Donna” del “CorSera”, 17 dicembre 2013, QUI
CHE COSA DOVREBBE FARE BEPPE GRILLO?
di Marina Terragni
Giuro che la domanda non è retorica: toccherebbe secondo voi a Beppe Grillo -o a chi amministra per lui la pagina Facebook- ripulire il suo wall da questa immondizia? Risposta: sì, perché chi apre uno spazio pubblico, e una pagina Fb lo è, se ne rende responsabile, almeno nei limiti delle sue possibilità. O invece: risposta no, perché cancellare questa roba equivarrebbe a “censurare” la realtà. Meglio che si veda come stanno le cose.
Il fatto è che quello che si vede in questa pagina è la persistenza dei veleni violentemente misogini, da cui anche le donne come potete osservare non sono immuni: Boldrini non viene cioè attaccata o criticata, cosa ovviamente legittima, con argomenti politici e su questioni politiche. Si coglie l’occasione di un atto di Boldrini, donna assertiva e in una posizione di grande responsabilità e visibilità, per ricondurre lei, e con lei tutte le altre, alla sua “naturale” posizione di ricettacolo degli umori maschili, in senso figurato e anche letterale. Si tratta, cioè, di un’operazione di potere. Perfino la Presidente della Camera è semplicemente una “vacca”, “baldracca” etc. (figuriamoci le altre) e l’attività che le si conface, altro che presiedere l’assemblea dei Parlamentari, è “pulire il cesso”, come una qualunque rassicurante surrendered wife.
Il collega Pierluigi Battista ha ottenuto l’ambita nomination nella lista di proscrizione dei giornalisti nemici del M5S. Ma la qualità delle critiche e degli insulti è stata di natura ben diversa -cioè non sessuale- da quella riservata a Maria Novella Oppo. Pure lei, come Boldrini, ricondotta brutalmente alla sua funzione di ricettacolo materiale.
Insomma: che cosa dovrebbe fare Beppe Grillo? Ignorare e lasciar fare, o cancellare (o quanto meno prendere posizione, dissociandosi)?
“ComUnità”, blog de “l’Unità”, 20 dicembre 2013, QUI
GRILLO E’ SENZA PAROLE, GRILLO VUOLE CHE CLICCHI IL VIDEO
di Leonardo Tondelli
Dieci giorni dopo aver esposto Maria Novella Oppo alla gogna, Grillo dimostra di non aver capito (o di aver capito benissimo, e di voler perseverare) lanciando su facebook una corsa all’insulto più sessista nei confronti di Laura Boldrini. Nulla da aggiungere a quello che ha scritto Marina Terragni; vorrei concentrarmi su un dettaglio secondario: il fatto che anche stavolta Grillo faccia saltare il tappo dicendosi “senza parole”. La stessa espressione è una protesta di innocenza (Grillo è talmente indignato che non è in più grado di dire niente) e un invito al massacro (ditelo voi, commentatori inazzati! riempite il vuoto lasciato da Beppe!) E naturalmente c’è l’invito a cliccare un video. Sempre così: non ho parole, clicca il video. Sta diventando un ritornello.
Tra i motivi pre-politici della mia avversione per Grillo c’è il fatto che lui voglia farmi cliccare sui video. Anche il suo blog ha la colonnina destra morbosa, come tutti i siti che cercano di tirare due spicci. Per inciso: non è vero che Grillo faccia i milioni col blog. Se ci tenesse proprio ai milioni Grillo ricomincerebbe a farsi pagare i biglietti ai palazzetti invece di comiziare in piazza gratis: e scriverebbe più libri e inciderebbe più dvd. Coi blog, anche zeppi di inserzioni, ti rifai più o meno delle spese. Grillo non fa politica per guadagnarci, e però neanche vuole perderci troppo; ultimamente la sua colonnina si è fatta più agguerrita, con una strategia cattura-attenzione elementare quanto efficace. È tutto un ‘Siamo senza parole! Clicca qui, guarda il video!’ Non hanno mai parole. Hanno solo video. Adesso vado di là e copio-incollo i primi titoli che trovo, giusto per dare un’idea:
MOVIMENTO 5 STELLE, CENSURATA PURE QUESTA NOTIZIA
Censurata anche questa notizia. Non ne parla nessuno. Abbiamo il video. Guardate cos’è successo. …
Non ho la minima idea di cosa sia, e un po’ di curiosità mi sarebbe anche venuta, però cliccando compare una pubblicità che dura 46 secondi e non si può chiudere. Anche dopo averla guardata per 46 secondi della mia vita, non si chiude lo stesso: forse pretendono che la segnali a qualcun altro via twitter o fb, c’è il logo sopra. Mboh, lascio perdere. In questo modo forse do una mano alla “censura”, ma d’altro canto immagino che se fosse una cosa davvero importante l’avrebbero messa nei titoli veri.
GIULIA INNOCENZI E IL SESSO 4 VOLTE AL MESE
Ecco cosa ha scritto Giulia Innocenzi a proposito del sesso 4 volte al mese: (Clicca…
Questa trovata è particolarmente penosa. Di questo famoso contratto “sesso 4 volte al mese” ne hanno parlato un po’ tutti, oggi, ma solo a casa Casaleggio è venuto in mente di associarlo nel titolo al nome di una giornalista donna che è anche un volto televisivo. Ovviamente chi non ha ancora sentito la notizia assocerà la Innocenzi al “sesso 4 volte al mese” e correrà a cliccare: e ogni clic sono eurocentesimi, butta via. Immagino che dall’altra parte ci sia semplicemente un contenuto visuale o testuale in cui l’Innocenzi commenta la notizia, ma anche stavolta non sono andato oltre.
COLOSSALE FIGURA DI M…. DELLA RENZIANA!
Preparatevi perché questa è incredibile. Guardate cos’ha combinato la renziana Marianna Madia…
Ha sbagliato ufficio e ha parlato col ministro sbagliato, boh. Fossero questi i problemi della Madia. Poi per carità, è una notizia pure questa, però… “preparatevi perché questa è incredibile“. Ché io me lo immagino sempre questo lettore medio di beppegrillo che prima di ogni clic dà una controllata alla pressione per non sforzare troppo le coronarie.
MILENA GABANELLI SMASCHERA L’INGANNO
Ultim’ora direttamente da Milena Gabanelli. Governo smascherato. Ecco cosa stanno facendo: (Leggi…
Oh, per una volta si legge invece di guardare. Vado a cliccare e non finisco in una pagina di Report o comunque gestita da Milena Gabanelli, ma in un altro sito pieno zeppo di pubblicità video, dove si riporta una notizia (“la Commissione Bilancio ha stralciato quella parte della cosiddetta “web tax” che riguarda l’e-commerce”), segnalando che “lo scrive sul proprio profilo Facebook, Report, il programma di Milena Gabanelli”. C’è il link diretto? Certo che no.
TUTTO INTORNO A LEI!
Mariarosaria Rossi, assistente personale di Silvio Berlusconi. Diffusa questa imbarazzante notizia. …
Tutto così, sempre così. Incredibile, colossale, clicca. Siamo senza parole, guarda il video. Per molti questa è l’esperienza quotidiana con internet: tant’è che appena escono dal sito di Beppe cercano di riprodurla su altri siti. Ad esempio vengono qui nei commenti e si portano sempre delle verità importantissime che però ti possono comunicare soltanto attraverso i video. Guarda che ti sbagli, guarda il video.
Ora, per carità, sono sicuro di sbagliarmi tantissime volte. Ma i video non li guardo quasi mai. Niente di personale, ma mi annoio mentre si caricano. L’idea di restare fermo mentre i video mi spiegano una cosa, senza poter scorrere con lo sguardo e cercare i punti salienti (come faccio quando leggo un testo più o meno rapidamente) mi rende nervoso. Se proprio ci tieni al mio parere, fammi un riassunto. Sono abituato a leggere e a scrivere, e anche internet mi piaceva di più quando era tutta così: scrittura, lettura, di nuovo scrittura. A quel tempo lui i pc li spaccava, ricordate. Veniva dalla tv.
Poi un giorno è arrivato su internet, a casa mia. E si è portato tutti questi noiosissimi video. E la sua corte di videoamatori. Perché la gente si annoia. La gente vuole vedere i video. Con tanta pubblicità intorno. Almeno Berlusconi se ne stava nell’altro scatolone, e per escluderlo bastava una pressione sul telecomando.
Uno screenshot di Tommaso Ederoclite pubblicato su Facebook il 1° gennaio 2014, all’indomani dell’ottavo discorso di fine anno del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Una valanga di insulti, segno di un Paese abbrutito e ignorante.

E questa sarebbe la “democrazia diretta”?
Una ricostruzione del “caso mediatico” relativo a Caterina Simonsen, insultata e minacciata da sedicenti “animalisti” per aver difeso la sperimentazione animale in medicina.
Ne scrive il blog “In Difesa della Sperimentazione Animale“, 2 gennaio 2014.
Il 4 gennaio 2014 l’ex segretario del Partito Democratico Pier Luigi Bersani ha avuto un grave malore ed è stato sottoposto ad un delicato intervento chirurgico al cervello. Sul web sono fioccati commenti raccapriccianti.
Copio due articoli che ne danno una lettura socio-antropologica e politica:
Il primo è di Hamilton Santià, riproposto sul blog “Ciwati” dell’onorevole Giuseppe Civati (6 gennaio 2014):
HAMILTON E I TROLL
Mi scrive Hamilton Santià, che è uno bravo, un pezzo che sottopongo alla vostra riflessione, insieme ai miei auguri affettuosi e partecipi a Pier Luigi Bersani. A cui voglio bene.
Quanto successo ieri sulle pagine internet di alcuni quotidiani a diffusione nazionale come il Fatto o Repubblica, in relazione alle notizia sul malore di Pier Luigi Bersani, ha dell’incredibile.
La violenza con cui moltissimi utenti si sono riversati sui social network ha una matrice che non è solo il puro trolling, fenomeno oggettivamente fastidioso ma relativo alla galassia internet e basta, ma sfocia nell’intolleranza. Ci siamo chiesti spesso di internet sia o non sia lo specchio del paese. Per numeri di utenti, per diffusione della rete, per utilizzo dei social network, penseremmo di no. Lo sappiamo benissimo che l’Italia su questo tema è decisamente arretrata. Però non possiamo liquidare tutto come se si stesse sempre parlando di un oscuro 1% che va lasciato alla sua libertà e che prima o poi si autoregolamenta. Quello che scriveva Paolo Di Paolo su l’Unità qualche giorno fa è ancora più agghiacciante: gente che su internet augura la morte a un signore di 62 anni per la sola colpa di essere un politico che poi, magari, spento il computer, diventa un padre amorevole e affettuoso.
Questo scollamento è inquietante. Inquietante perché rischia di non essere più solo uno scollamento. Inquietante perché un mese fa Torino, la città in cui vivo, è stata bloccata per qualche giorno da un movimento autogestito – i famosi forconi che fra poco minacciano di ritornare – la cui matrice d’intolleranza ha travalicato i confini dello spazio digitale e ha invaso le strade (a questo proposito si è espresso anche Marco Revelli sul Manifesto). Insomma, non possiamo più essere indifferenti alla questione e pensare che i commenti su internet siano uno sfogatoio che fa sì che la gente non si comporti in maniera violenta nella vita di tutti i giorni. Ormai questa differenza, questo confine, sembra non esistere più. E anche se tra queste persone che ieri hanno augurato la morte a Pier Luigi Bersani ci sono molti che di persona mai lo farebbero, ormai non possiamo più pensare a queste dinamiche come fatti isolati.
Fabio Chiusi di Wired stamattina ha scritto su Facebook che censurare e moderare con mano pesante non snatura la faccenda, ed è anche ipocrita: i cretini ci sono sempre stati e che lasciando fare hai il pregio di dare a questi cretini un nome e un volto (e di contro, il buonismo a tutti i costi rappresenta un’altra ipocrisia). Non ha tutti i torti. La censura non ha mai ragione, e la “moderazione” può essere letta come tale solo se inserita in un processo di portata più ampia. Ma ha anche ragione Massimo Mantellini sul Post, quando scrive che quanto successo ieri è indice di un più diffuso disagio sociale e segno di un disgregamento del paese e, soprattutto, della ridefinizione di un nuovo linguaggio per esprimere il malcontento. Un linguaggio nuovo, più violento e sgraziato, che se fossimo snob liquideremmo alla Nanni Moretti (“chi parla male pensa male e vive male”), ma che invece abbiamo il dovere di analizzare. Perché questa esplosione di intolleranza, questa incapacità di riconoscere l’altro, i suoi confini, la sua dignità, sono un pericolosissimo segno di una società e di una comunità che non riesce più a riconoscersi. Non è una “rete”, ma una serie di molecole impazzite che collidono tra di loro e innescano un processo fondamentalmente distruttivo.
Lo ammetto, ho sempre creduto all’utopia della rete come luogo della costruzione di una nuova cittadinanza consapevole, di una nuova diffusione della conoscenza. Per questo mi sento a disagio quando vedo che ad oggi internet è solo un enorme bar in cui ognuno dice la sua e lo dice in maniera più violenta perché non esistono più quei confini del corpo. Le parole hanno delle conseguenze, su internet come nella vita vera. E le parole di odio che ieri sono state scritte contro una persona che è stata male (così come qualche giorno fa è successo per Caterina Simonsen e la sperimentazione animale) dimostrano che l’utopia digitale è ancora attualissima, che l’agenda digitale è una priorità non solo come opportunità di crescita economica ma soprattutto come crescita culturale, e che bisogna adoperare una vera e propria “ecologia”. Non una censura. “Ecologia” del linguaggio. “Ecologia” della mente.
Governare il flusso è sbagliato, a pensarci. Ed è anche impossibile. E su questo ha ragione Chiusi, purtroppo. Però la responsabilità delle parole deve essere assoluta. Non so se i giornali che loro malgrado hanno ospitato questi sfoghi in cui la violenza verbale è diventata quasi fisica siano i soggetti deputati a innescare questo processo di “ecologia” (che è diverso da moderazione, perché presuppone un lungo cammino, e non una cesoia brutale), non so se sia qualcosa di ancora più lungo che va iniziato in altri luoghi istituzionali per poi avere piena manifestazione nel linguaggio parlato in luoghi che non saranno “materiali”, ma sono centrali nella nostra vita contemporanea. So solo che quanto successo negli scorsi giorni – ripeto, non è solo Bersani, ultimo in ordine di tempo – merita una riflessione. Il dibattito è estremizzato. Non esiste più riflessione critica, non esiste più il ragionamento sulle sfumature. Esiste solo un io contro di te (che diventa un “noi” gente contro un oscuro “loro” responsabile di tutto) che alla fine distrugge tutto e non sostituisce con niente.
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Il secondo è di Stefano Bartezzaghi su “La Repubblica” (7 gennaio 2014):
QUEGLI INSULTI A BERSANI: IL PROBLEMA NON E’ SOLO INTERNET
Finalmente una bella notizia”. La notizia è l’ictus che ha colpito Pierluigi Bersani e questo è il più soave e frequente fra i commenti malevoli che la notizia stessa ha ricevuto in rete ancora prima che l’ex segretario Pd fosse sotto i ferri, per un intervento chirurgico dagli esiti oltremodo incerti. Ad Angela Merkel, vittima di un incidente sciistico non gravissimo, è ancora andata bene: ma qualcuno ha rimpianto che non le sia toccata la sorte di Michael Schumacher. Per l’ischemia di Bersani si sono invece registrati messaggi di esultanza, insulti, auguri di morte lenta, incitamenti al male pari a quelli al Vesuvio e all’Etna quando minacciano eruzioni. Commenti apparsi dappertutto, sul blog di Beppe Grillo, sulla pagina Facebook del Fatto quotidiano, ma anche su quelle di altri giornali, fra cui Repubblica: atrocità.
Dopo l’esperimento che fece Radio Radicale mandando in onda i messaggi ricevuti nella sua segreteria telefonica (nel 1986 e poi nel 1993) ogni sgomento su quanto un cittadino possa dire, quando sente di poter parlare liberamente e avere ascolto, risulterebbe se non ipocrita almeno di maniera. Le interpretazioni possibili sono variegate: volontà di sfregio, goliardia, satira, occasione di dirla grossa, sfogo di “vera rabbia ” (da comprendere, se non giustificare), fino all’ovvio “colpa di Internet”.
Ma il problema non è Internet, per quanto la rete dia visibilità immediata e a fare notizia sia ovviamente solo la categoria dei messaggi estremi (in verità molti altri grillini hanno contestato gli sciacalli, e ieri mattina anche Beppe Grillo ha scritto un post di auguri). La rete è semplicemente sempre aperta e sempre visibile, i controlli e la moderazione non sono facili e a volte sembrano maliziosamente tardivi. Il vero salto di qualità, però, consiste nel coro di invocazioni di morte su un avversario, nel momento in cui egli rischia effettivamente la vita. Lì siamo arrivati, qualche gradino sopra ai “devi morire” per il centravanti che mugola in area falciato da un difensore, o ai cappi sventolati in Parlamento. Oggi siamo alla morte augurata a chi la sta effettivamente rischiando, e il fatto è che il caso di Bersani non è neppure il primo. Di poco lo ha preceduto, ed è forse ancora più impressionante, quello di Caterina Simonsen, la giovane studentessa di veterinaria che una settimana fa ha difeso le ragioni di una corretta sperimentazione animale (a cui, malata, deve personalmente svariati anni di vita) e di conseguenza ha ricevuto insulti e soprattutto schiette dichiarazioni il cui senso era: meglio che morissi tu, piuttosto che innocenti cavie di laboratorio. In questo caso opera un rancore puro e impersonale. Questo significa che oggi, in Italia, l’augurio di morte può saettare, e da un numero significativo di tastiere, in maniera paradossalmente spassionata.
Siamo puri nomi, o nomignoli. Molti di questi commenti sono tranquillamente firmati: non ci curiamo di nasconderci dietro all’anonimato perché non vediamo più la persona, la carne e la vita, dietro ad alcun nome proprio. Non l’altrui ma neppure il nostro. Bersani, anzi “Gargamella”: una parola. Angela Merkel, due parole. Schumacher, un brand. Il nostro nome-e-cognome, un account. Inventare la battuta più efficace, o l’insulto, vale al massimo come sfogo, non ci si preoccupa neppure delle conseguenze penali che possono derivarne. Nell’epoca che magnifica l’empatia come suprema qualità umana, cosa davvero sia il dolore a cui alludono con precisione le parole di una diagnosi, o quelle di una maledizione (comunque, di una condanna), non pare interessante né pertinente.
In un immaginario spaventosamente monocorde siamo tutti vittime di soprusi, il potente che cade ha finalmente avuto il fatto suo. “Anche mio nonno è stato in ospedale ma nessuno se n’è fregato”, ha scritto un tizio a proposito di Bersani. Nel suo pauroso candore, la protesta indica la soglia che si è varcata, anno 2014. La nostra morte sarebbe indifferente a chiunque e quindi la morte di chiunque ci è indifferente, anzi ben venga. Questo è il limite che abbiamo raggiunto oggi. Il prossimo?
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E’ da segnalare, inoltre, che Beppe Grillo ha pubblicato sul suo blog (6 gennaio 2014) un post di auguri all’onorevole Bersani:
Oggi tutti, soprattutto i falsi amici, fanno gli auguri di una pronta guarigione a Bersani. E’ un coro sospetto di personaggi che, in molti casi, devono a lui carriera e successo politico. Bersani ha avuto un pregio, quello di apparire umano, un grande pregio in un mondo di politici artefatti e costruiti a tavolino come dei pupazzi in vendita ai grandi magazzini della politica. In fin dei conti, la sua volontà di smacchiare il giaguaro si è avverata. Credo che abbia sempre saputo che i suoi veri nemici non erano i Cinque Stellle, ma alcuni dei suoi compagni di partito e personaggi delle istituzioni. Bersani, ti aspettiamo, non fare scherzi.
Alcuni suoi seguaci, tuttavia, non sembrano d’accordo, come documentato da questo screenshot pubblicato su FB da “Gli audaci, in tasca l’Unità”.
Il giudizio più appropriato mi sembra quello di un vecchio adagio per cui “chi semina vento raccoglie tempesta”.
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Ulteriore commento da archiviare è quello di Toni Jop su “L’Unità” (6 gennaio 2014) (e stamattina Beppe Grillo lo ha “onorato” della gogna che aveva già riservato a Maria Novella Oppo, Francesco Merlo, Massimo Gramellini):
“Parole Povere”, blog di “ComUnità” (“L’Unità”), 6 gennaio 2014, QUI
CANCELLATA LA FESTA MACABRA DEI GRILLINI
di Toni Jop
Ieri, giorno del cancellino. Un gran lavoro al Fatto Quotidiano on line in coda alla notizia del malore, grave, di Bersani. Cancella centinaia di post. La voce del ricovero d’urgenza del leader della sinistra aveva convinto molti, avanguardia del movimento, a vendicare il pallore del Capodanno appena passato stappando al capezzale di Bersani il prosecco migliore, felici. Davide Catta versa entusiasta: «Una bella notizia, giustizia divina pensaci tu»; Pinto Salvatore, tenero: «Speriamo che ci resta secco». Il blog di Grillo ha fiutato per tempo e il ricovero d’urgenza è stato sterilizzato di tutti i commenti. Un peccato negare la festa a chi l’attendeva con ansia. Una ingiustizia palese negare al padre spirituale di questa corale risposta di massa la soddisfazione per il pieno successo di una operazione culturale che ha pazientemente armato di bottiglie e di cotillons le coscienze di tanti ragazzi soddisfatti da un annuncio di possibile morte alle porte. Perché Bersani, l’uomo che ha avuto il coraggio immenso di proporre ai Cinque Stelle un percorso comune e positivo per il Paese è ora un cane rognoso del cui male godere. Grave errore pensare che tutti i Cinque Stelle abbiano partecipato a questo coro, molti hanno preso le distanze inorriditi. Ma è su questo coro che Grillo fonda il suo potere.
Screenshot dell’articolo di Toni Jop: QUI.
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Infine, questo è l’articolo di Ilvo Diamanti su “La Repubblica” del 7 gennaio 2014:
LA CIVILTA’ DELLE CATTIVE MANIERE
di Ilvo Diamanti
Non bisogna sorprendersi troppo dei messaggi truci rivolti a Pierluigi Bersani, dopo l’emorragia cerebrale. Mentre, in sala operatoria, i medici intervenivano per salvargli la vita. In rete, si sono affollati gli appelli e gli auguri. Che muoia! Lui e quelli come lui. I politici. Quelli che godono di privilegi smisurati e immeritati in ogni momento della vita. tanto più e soprattutto nel momento dell’urgenza e della necessità personale. Che muoiano tutti. Anche lui. Bersani. Non importa che sia una persona perbene, mite, educata. In fondo, uno sconfitto. Uscito da un anno di sconfitte. Tanto peggio. Deve morire anche lui.
Non ci si deve sorprendere. È il clima del tempo. Anti-politico. Incattivito contro quelli che abitano il Palazzo. Reso più cattivo dalla crisi, che colpisce le persone, le famiglie. Annulla il futuro. Fa fuggire i giovani (che se lo possono permettere). E allora che muoiano tutti, quelli del Palazzo, che godono di cure particolari. Sempre. Mentre gli altri, la “gente comune”, in punto di vita o di morte, affondano nel banale e nell’anonimo quotidiano.
Allora, non ci si deve sorprendere dei messaggi truci che corrono in rete. Di fronte alla vita e alla morte. Oggi la rete permette a tutti, comunque: a molti, di esprimersi in modo diretto, feroce, spesso (ma non sempre) anonimo. Mentre ieri gli stessi discorsi giravano, in misura molto simile. Ma Nel privato, lontano dal pubblico. In casa, nei dialoghi con familiari e amici, davanti alla TV. Oppure nei bar, nelle osterie. Non su InterNet, ma davanti a una bottiglia di CaberNet.
È la civiltà delle cattive maniere. Incattivita da questi tempi cattivi. Nei quali l’immagine e la popolarità di alcuni fa sentire più acuta l’in-visibilità di tutti gli altri. La grande maggioranza delle persone. In questi tempi cattivi, per apparire, per fare audience, bisogna dire cose cattive. Gridare atrocità. Tempi cattivi, incattiviti dalla politica che, per prima, alimenta la sfiducia. E i talk politici più seguiti, in TV, alimentano, a loro volta, la sfiducia degli spettatori. Ma non perdono ascolti. Perché la sfiducia fa audience.
In questi tempi cattivi, i politici in difficoltà – pubblica o privata – diventano bersagli ideali del (ri)sentimento popolare. Liberato sulla rete. Senza rischi. Come allo stadio. Dove la curva – senza volto – erutta invettive orrende, amplificate dai media. Dalla rete.
Tempi cattivi, in cui per diventare visibili, conviene dire cose cattive in modo cattivo. Non bisogna sorprendersi, allora, dei messaggi feroci che rimbalzano in rete all’indirizzo di Bersani. Certo: neppure far finta di nulla. Restare indifferenti. Però, basta attendere. Avere pazienza. È solo questione di tempo. La civiltà delle cattive maniere, promossa e sospinta dai media e dalla rete: presto, renderà innocuo l’insulto stesso. Ogni insulto, sommerso dalla melma degli insulti, diverrà un rumore di fondo fastidioso. Indifferente e, anzi, dannoso ai fini dell’audience e del gradimento mediatico.
Così, per conquistare ascolti e visibilità, per essere diversi, per scandalizzare, non resterà che tornare alle buone maniere.
Gli ultimi due giorni del Parlamento Italiano sono stati davvero notevoli. E gli onorevoli del M5S si sono distinti per classe ed eleganza.
Si è cominciato con il deputato Giorgio Sorial, che ha dato del “boia” al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: VIDEO.
Il 30 gennaio 2014 Maria Novella Oppo (già messa all’indice da Grillo) ha così commentato: “A proposito di intelligenza, non si può proprio evitare di citare il dramma del deputato grillino Giorgio Sorial, che ha dato del “boia” a Napolitano, forse perché non sa quello che dice, ma soprattutto perché non ha trovato altro modo di farsi notare, nel bailamme assordante del suo partito che copre ogni ragionamento politico. In effetti, il suo numero, replicato da tutti i tg, è stato forse il momento più visto della tv nazionale. Per un partito la cui struttura teorica è basata sul vaffanculo, un risultato notevolissimo” (qui).
Il giorno dopo, 29 gennaio, Angelo Tofalo ha ribadito con orgoglio un doppio “boia chi molla” (VIDEO), adducendo poi su fb che non si tratta di uno slogan fascista.
In giornata, De Rosa ha dato delle “pompinare” alle deputate del PD: QUI, AUDIO.
E Segoni ha fatto il gesto del “suca” in Parlamento: VIDEO e VIDEO.
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Come osserva Ederoclite: “dovevano di nuovo far piacere la politica alla gente. Bravi, bella mossa”
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E’ da segnalare, inoltre, che in Aula si sono avuti anche degli scontri fisici.
“Alcuni commessi di Montecitorio hanno dovuto ricorrere alle cure dell’infermeria. Uno ha un braccio dolorante, un altro ha raggiunto i medici dicendo di aver ricevuto un colpo al volto. “Una violenza così non l’ho vista in 30 anni”, racconta uno dei più anziani assistenti parlamentari, da sempre in aula” (qui)
Loredana Lupo (M5S), inoltre, ha ricevuto uno schiaffo da Dambruoso (Sc): VIDEO e FOTO.
«[…] Con gli insulti, è sempre così. Lasciano di stucco, almeno in un primo momento. È per questo che i filosofi del linguaggio ne parlano come di una forma di hate speech, discorso dell’odio. Quando si insulta una persona, non si cerca né di dialogare, né di manifestare il proprio disaccordo. Quando la si insulta, si cerca solo di farla tacere. Che cosa si può mai rispondere quando qualcuno ci insulta d’altronde? Che non si è d’accordo? Che chi ci insulta sta sbagliando? Che non è affatto vero che le donne del Pd sono “brave solo a fare pompini”?
Chi insulta lo sa. Ed esulta dell’umiliazione che provoca, proprio come uno schiaffo in pieno viso che continua a far male anche dopo molto tempo. Allora sì, l’altra sera anche io sono rimasta ammutolita. Silenziosa e impotente di fronte agli insulti di De Rosa, nonostante questa storia dell’hate speech la insegni da anni ai miei studenti per spiegare come nel momento in cui si insulta un interlocutore non è più una questione di diversità di idee o di opinioni, ma sempre e solo un gesto di violenza. Quando ci si trova di fronte alla violenza, tutto è più complicato. Molto più complicato delle teorie. Ecco perché, con le altre colleghe, ci abbiamo messo un po’ prima di reagire, prima di fare comunicati e dichiarazioni, prima di andare al commissariato e sporgere querela […]».
Michela Marzano, “Noi, insultate a Montecitorio“, “Repubblica”; 31 gennaio 2014.
Metilparaben ha presentato su fb il suo ultimo post con queste parole: “Ho un tubo da 6 pollici che aspetta Il suo kulo….“ Ecco una sfilza di commenti NON al post di cui oggi parlano i giornali, ma a tutti gli altri post. La pagina Facebook di Grillo, se ci si sofferma un po’, è tutta così. Tutta. Beppe, davvero non sei nemmeno un pochino a disagio?
“Libernazione”, 1 febbraio 2014, QUI
BEPPE, NON SEI A DISAGIO?
di Alessandro Capriccioli (Metilparaben)
“Boldrini sei una GRAN PUTTANA!”, “Perché non la chiamate Baldraca”, “Brutta troia, lesbica vacci a succhiare il pisello a la checca del tuo padrone vecchia zozzona”, “Gli metterei in mano il battacchio..altro che la campanella. quello lo sa usare bene”, “Manganello e olio di ricino?”, “Propio una grandissima zoccola”, “E’ da prenderla a calci in faccia questa quà !!!”, “Zoccola!!!!”, “Ma questa sarebbe la presidente della camera? Questa deve stare nella camera a gas”, “Che faccia di puttana”, “Boldrini più ti guardo e ti ascolto e più mi rendo conto che sei una vera maiala”, “Basterebbe guardarla in ogni minimo dettaglio, questa non lo riceve da un po’”, “Che brutta faccia. due calci in bocca aggiustano tutto”, “Direi metodo boldracca e non mi scuso per il turpiloquio”, “Io spedirei lei, la kyenge, coucky, letta e tutto il pd in africa assieme ai loro amici rom, clandestini,e gay e costringerli a vivere la”, “Ho appena finito di mangiare e mi fate vedere sta zoccola! Ora vomito tutto!”, “Vacca di merda”, “Troia..scommetto ti piace prenderlo solo nel culo puttANA”, “Una gran troia….se vuoi denunciami. Merdaccia del caxxo”, “Questa e una povera depressa lesbica”, “Giuro che non so piu come offenderti…..baldraccha da marciapiede”, “Hai detto pompini?”, “Zoccola torna nella fogna da cui sei uscita”, “Che faccia di merda che è la bocchini… Ops la boldrini”, “Auguro a sta faccia di merda della boldracca morte lenta e lunga agonia”, “Non la voglio neanche sentire la troia”, “Ha proprio una faccia da pompinara!!!!”; “Faccia di merda…non pubblicate più certe foto il trauma è troppo grosso! troia troia troia”, “Sta vecchia zoccola manco é bona più a fa pompini, almeno il porco di Berlusca se le piglia sotto ai 25″, “Faccia da bocchinara”, “Con quella bocca può fare ben altro!!!!!!!!!!!!!!!”, “Fai schifo anche a fare pompini….zoccola!!!”, “Troia vienimelo a succhiare”, “Sei brutta come una ZINGARA nn ti si può guardare”, “Questa cozza l’ha vista mio nipote e si è spaventato! Mi ha detto: nonno se le donne sono così mi faccio prete”, “Ho un tubo da 6 pollici che aspetta Il suo kulo….“
Questi non sono i commenti al post Facebook sulla pagine di Grillo del quale oggi parlano tutti i giornali: sono una parte minima (ma minima, davvero) delle migliaia e migliaia di improperi contenuti nei commenti agli altri post. A tutti gli altri post.
Dalla pagina Facebook di Grillo (andatela a vedere per verificare) trabocca una sequela interminabile di insulti e ingiurie che spuntano praticamente dappertutto: roba che quelli del M5S si lamentano di come vengono trattati dai giornali mentre dovrebbero ringraziarli in ginocchio, perché di questo andazzo danno conto una volta ogni tanto, anche se ci sarebbe materiale in abbondanza per scriverne sei volte al giorno.
Al di là di questo, però, mi piacerebbe chiedere una cosa a Beppe Grillo: come ci si sente, ad avere una pagina Facebook nella quale la gente riversa tonnellate di questa roba? No, perché se succedesse a me, onestamente, mi sentirei di merda. Inviterei più e più volte i commentatori a esprimersi in modo diverso. Cancellerei tutte le frasi insultanti. Censurerei pubblicamente i loro autori. Li inviterei a non farlo più. Chiederei scusa, col capo cosparso di cenere, ai destinatari.
Tu, Beppe, non sei a disagio? Nemmeno un pochino? Cioè, su quella pagina c’è il tuo nome. Non so, ‘sta roba ti aggrada? Ti rende felice? Voglio dire, vai fiero di ospitarla? Credi che consista in questo, la “rivoluzione digitale” che dici di voler fare?
Insomma, dalle tue parti volano più insulti che congiunzioni e a te va bene così?
Evidentemente sì. D’altra parte ognuno ha i suoi gusti.
E, come si dice, raccoglie quello che semina.
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Il 1° febbraio 2014 la pagina “Io sto con Civati” ha pubblicato una selezione di commenti ad un post di Beppe Grillo contro Laura Boldrini. Se non è istigazione al sessismo, alla misoginia e, in definitiva, alla violenza e all’odio questa, allora cos’è?
Il giorno precedente, invece, ho segnalato alla redazione di fb un collage in cui Boldrini è ritratta in divisa nazista pubblicata dalla pagina “Cinque Stelle Capoterra” che, a mio modo di vedere, rappresenta un insulto e un’istigazione all’odio.
Mi è stato risposto che no, la foto non può essere rimossa perché “non viola i nostri Standard della comunità“.
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Intanto, l’istigazione di Grillo alla volgarità e alla violenza contro Boldrini è stata riportata da tutti i principali giornali nazionali: “Repubblica“, “Corriere della Sera“, “La Stampa“, “L’Unità“.
Blog “Maschile/Femminile”, in “Io Donna”, 2 febbraio 2014, QUI
CARO BEPPE, GIU’ LA MASCHERA
di Marina Terragni
Caro Beppe Grillo,
nel caso avessi il tempo e la pazienza di fare un giretto per questo blog, vedresti che ho sempre trattato i 5 Stelle con il rispetto, la considerazione e l’attenzione che si deve a uno schieramento politico sostenuto più o meno da un terzo dei miei concittadini. E non raramente mi sono trovata in sintonia con i suoi contenuti, esprimendo tuttavia l’auspicio che dal linguaggio urlato, feroce e di battaglia della fase aurorale, il M5S sapesse passare alla forza autentica di una lingua più mite e “gandhiana”: quando si sa di avere ragione, non c’è alcun motivo di strillare e insultare.
Mi era parso che certe apparizioni televisive, tipo quella di Alessandro Di Battista a “Le Invasioni Barbariche”, intendessero muoversi in questa direzione, quanto meno per temperare al volo l’orribile uscita dell’onorevole De Rosa contro le deputate piddine, totalmente impolitica e beluina. Ma se poche ore dopo, caro Beppe, tu posti questo bel filmatino, con la premessa “Cosa succederebbe se ti ritrovassi la Boldrini in macchina“, sono costretta a ricredermi.
Sei un comunicatore troppo abile per non sapere che quella domanda chiama risposte oscene e sessiste, che puntualmente sono arrivate: “La metto a 90 gradi e poi gli metto nel c…”. “La scaricherei subito sulla statale, magari fa un po’ di cassa extra”. “Mi farei fare una p…”. “La riempirei di botte”. “La tromberei”. “Impossibile, non vado a mignotte”. “La porti in un campo rom e la fai trombare con il capo del villaggio”. “Inchioderei facendole sbattere la testa sul cruscotto, dopo mi fermerei in autostrada e con un guinzaglio la lascerei attaccata al guardrail”. E così via.
Nessuno meglio di te ha il polso e la misura delle quantità impressionante di odio che circola sul web (la mattina, quando mi connetto, mi si contrae in automatico lo stomaco, perché do per certo che sarò investita dallo tsunami di hate-speeching, in crescita esponenziale).
Pubblicando quel filmato -e non solo- mi ha dato la precisa sensazione che tu intenda servirti di quell’odio, che tu faccia di tutto per eccitarlo e scatenarlo, con particolare riguardo a una misoginia e a un sessismo intollerabili: e continuo a meravigliarmi del fatto che le donne del M5S (ma anche le tue amiche, tua sorella se ne hai una, tua moglie) non ti pongano apertamente il problema.
Insomma, sembra che ti piaccia giocare facile: l’odio per le donne è una miniera inesauribile.
Laura Boldrini è criticabilissima, l’operazione “ghigliottina” non mi è piaciuta, non mi è piaciuto l’abbinamento delle questioni Imu e Bankitalia, né mi piacciono i decreti, soprattutto quelli “omnibus”, dove si imbarca di tutto un po’ (vedi il femminicidio per parlare di furti di rame e di militarizzazione della Val di Susa). Ma colpirla nel suo essere donna, “caricarla” in macchina, con tutto il simbolico annesso, è una cosa francamente disgustosa.
La rabbia è uno straordinario carburante, ti dà l’energia indispensabile per partire, e l’exploit del M5S è stato davvero straordinario: le ragioni non mancavano. Ma un’avventura politica che continua a nutrirsi di odio, di rabbia e di cattivi sentimenti, che insiste nel parlare alla pancia, che accompagna il suo legittimo percorso con manifestazioni di barbarie -la misoginia violenta è sempre un’indizio di arretratezza civile- non può che avere due esiti: la perdita di consensi e il fallimento dell’impresa; o, in alternativa, la deriva fascistica e antidemocratica.
Se proprio deve andare così, preferisco la prima soluzione.
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Su un piano più prettamente politico, Giuseppe Civati ribalta il post di Grillo e titola: “Cosa succederebbe se ti ritrovassi Beppe Grillo in macchina?”
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Medesima domanda se la pone Michele Di Salvo, che su fb scrive:
Cosa fareste in auto con Beppe Grillo?
Io niente, gli direi “scendiamo”… andiamo a farci un giro.
ti porto tra le persone comuni. Quelle che non urlano, non strillano, che tutti i giorni devono lavorare per mantenere una famiglia, pagare un mutuo, onorare i debiti, vestire i figli, mandarli a scuola. ti porto tra le persone che devono fare anche due o tre lavori, tra genitori che non si incontrano mai perché hanno i turni. ti porto da chi questo paese lo mantiene e cerca di farlo resistere e tenere unito.
ti chiedo in cambio di mostrarmi che sei capace di avere un’idea, di mostrare qualche parola di conforto, che ti rimbocchi le maniche e ti sporchi le mani anche tu, che scendi dall’auto e ti sporchi le scarpe a camminare nelle strade di tutti noi.
Mentre lo facciamo, insieme, a bassa voce, spegniamo i cellulari, i tablet, e ascoltiamo, guardiamo, parliamo. e questa passeggiata ce la facciamo senza streaming, senza giornalisti, senza stampa al seguito. unica regola: mai superare i 30 decibel. poi… mi dirai dove vuoi andare, e ti ci porto, senza aggiungere una parola.
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“Il Post”, 2 febbraio 2014, QUI
GRILLO ED I COMMENTI D’ODIO
di Massimo Mantellini
Credo anch’io, come altri, che l’odio in rete sia uno dei linguaggi comunicativi di Beppe Grillo. Credo che venga da lontano, da una delle molte idee sulla rete che Grillo si porta dietro e propone da anni. È la Internet raccontata dalla sintesi euforica e superficiale di Casaleggio, che esiste, da sempre, solo nella testa di Casaleggio e di pochi altri vecchi retori dell’anarchismo digitale californiano degli anni 90. I quali nel frattempo, con ogni probabilità, avranno cambiato idea.
Credo anch’io che una simile estrema tolleranza verso i commenti in rete sia stato un fattore di proselitismo importante e come tale non sia stato sottovalutato da Grillo e Casaleggio che lo hanno anzi cavalcato come una opportunità. I rumoristi dei commenti Internet, gli urlatori dal Caps Lock bloccato si facevano banda, si citavano uno con l’altro dietro quattro slogan sempre uguali e questo era doppiamente utile alla causa. Da un altro si raccattava in rete una varia umanità di differente scontento disposta a farsi grancassa, dall’altro si raccontava al mondo della comunicazione convenzionale la propria diversità. Noi non siamo come voi, dicevano non solo i post ma anche i commenti del blog di Grillo (e più recentemente del suo profilo Facebook), siamo diversi, più diretti, più autentici. Noi siamo il nuovo della comunicazione liberata, voi siete i vecchi professionali della parola collusi col potere.
È in fondo una delle molte semplificazioni che attraversano il movimento grillino e questa retorica sopravvive da tempo a tutte le evidenze di segno contrario, per esempio la assai meno libertaria tendenza dello staff di Grillo a cancellare o rendere meno rintracciabili i commenti troppo dissonanti con la linea del Capo.
Solo che a un certo punto questa sorta di urlata appartenenza si è spinta troppo avanti, i commenti, per distinguersi nel grande mare delle invettive tutte uguali si sono fatti più acri ed offensivi, sono aumentati di numero e intensità diffamatoria. Sono stati, soprattutto, utilizzati dall’avversario politico e dai media come clava contro il Movimento in modo non più solo strumentale, come spesso accaduto in passato, ma con riscontri oggi difficilmente discutibili, specie i recenti attacchi sessisti contro Laura Boldrini o certe sceneggiate di gente che brucia libri e mette le foto su Facebook.
Grillo si è spinto troppo avanti (con la complicazione dei suoi parlamentari che ne replicano le forme comunicative con assai minore efficacia) ed ora è complicato cambiare traiettoria. Farlo, del resto, avrebbe il sapore di una tardiva abiura, ammettere la caduta di un castello di carta ben più grande di quello dei commenti diffamatori su Internet e della evidente necessità di censurarli ma che comprende alla base l’essenza digital-populista di tutto il movimento, il suo affidarsi alla presunta intelligenza della rete, alla trasparenza di non si sa bene chi camuffata dietro i server di Casaleggio Associati, alle invettive in serie postate su Internet e riproposte dai media.
I commenti in rete di tanti sostenitori del M5S sono la rappresentazione di un progetto che, se fosse vero, semplicemente non potrebbe funzionare. Non c’è nessuna democrazia al mondo che si regge su proprie gambe interamente digitali, da nessuna parte nel pianeta e questo per una ragione banale: che la complessità della democrazia non è oggi riproducibile in formato digitale. Da nessuno tantomeno da Casaleggio coi suoi schemini elementari.
Ma poiché, come è del tutto evidente, il progetto di rinascimento digitale di Grillo vero non è e la sua rappresentazione che va in onda da qualche anno è solo la scenografia costruita ad arte per chi è disposto a crederci (e in un Paese come il nostro con pochissime persone che utilizzano compiutamente Internet il pubblico disposto a credere a Grillo è più vasto che altrove), qualche piccolo aggiustamento (magari un po’ più consistente di affermare come ha fatto Grillo per molto tempo che i commenti diffamatori sul suo blog li mettevano quelli del PD) sarà forse necessario per riparare lo strappo che troppo spesso ormai consente a tutti di osservare il vuoto dietro il tendone del palcoscenico. Non a caso oggi per la prima volta gli amministratori della pagina Facebook di Grillo hanno annunciato pubblicamente di aver cancellato una manciata di commenti ingiuriosi e diffamatori (in ogni caso fra blog e FB ne restano ancora molte decine e controllare se davvero lo si vorrà fare sarà un lavoro improbo).
Assai difficilmente Grillo accetterà l’evidenza banale che gli idioti in rete, che sono tanti e ben variegati, devono essere emarginati e non possono essere utilizzati come strumento di lotta politica. E che non è il caso di titillarli ogni giorno in ogni maniera possibile per ottenerne un ipotetico vantaggio comunicativo che ormai rischia di rivelarsi controproducente.
A forza di ripetere che la rete è democratica e metterà a posto tutto, che i giornalisti moriranno, che i partiti verranno distrutti, che quello è un ladro e l’altro ha una brutta faccia, una volta insomma cancellato tutto, resterà un sacco di spazio libero dentro il quale nessuna parola avrà più un senso, neanche la genovese ossessione grillina sui soldi che tanto affascina gli italiani, nemmeno il racconto fiabesco ed infantile della nuova frontiera elettronica di cui il Movimento è innamorato ed al quale è così difficile credere.
“La Repubblica”, 2 febbraio 2014, QUI
BOLDRINI: “SONO FERITA MA NON HO PAURA. QUESTO E’ UN ATTACCO ALLA DEMOCRAZIA”
La presidente della Camera: la gogna dei 5Stelle ormai colpisce tutti. “È in questione anche la libertà di stampa. Mi riferisco ai giornalisti messi nel mirino sul blog di Grillo”
di Alessandra Longo
“Siamo di fronte ad una vera emergenza democratica. Lo dico senza mezzi termini: è evidente la natura eversiva di quello che sta succedendo. Il Movimento Cinque Stelle attacca le istituzioni, il presidente della Repubblica, il capo del governo, e attacca me”. “Io, terza carica dello Stato, cui viene riservata, in quanto donna, una aggiuntiva e terrificante aggressione sessista. Lo ripeto: è in corso un attacco alla democrazia che riguarda anche la libertà di stampa. Mi riferisco ai giornalisti messi alla gogna sul blog di Grillo, al capogruppo Pd Roberto Speranza che si vede ostacolato l’accesso in sala stampa a Montecitorio. I cittadini l’hanno capito. Questo non è dissenso: questi sono atti violenti e intimidatori…”. Alle nove della sera, Laura Boldrini è nel suo studio di presidente alla Camera. Ferita, indignata, decisa a non darla vinta a chi la sta massacrando: “Le ho lette le cose che hanno scritto sul blog di Grillo. E’ semplicemente orribile. Non discutono del mio operato. Essendo donna, gli insulti all’istituzione si traducono in volgarità a sfondo sessuale. Ed è meschino, patetico, che mi si venga a dire che i messaggi sono arrivati di notte e non li hanno potuti controllare! Questa roba girava da un giorno e mezzo e ogni giorno su quel blog ci sono commenti di questo tenore fomentati da Grillo e mai nessuno li rimuove”.
Non c’è più il sorriso aperto, lo stupore e l’entusiasmo di quando, nel marzo 2013, Laura Boldrini venne eletta presidente della Camera. Sembrano lontane nel tempo, e peccare persino di ingenuità, le sue parole nel discorso di insediamento: “Facciamo di questa Camera la casa della buona politica”. Oggi ci sono le cicatrici del combattimento quotidiano, la pressione per un clima insopportabile, la preoccupazione per il Paese: “Vorrei che fosse chiaro a tutti il tentativo eversivo in corso. C’è chi parla di inesperienza, di reazioni violente dovute alla frustrazione di non incidere ma questa è un’altra cosa. Loro non sono in grado di usare gli strumenti democratici garantiti all’opposizione”. Loro, dice. Non riesce quasi a pronunciare il nome di chi le vomita contro cose irripetibili: “Loro hanno dimostrato l’incapacità di accettare il metodo democratico. Il Parlamento non è lo sfogatoio della rabbia ma un luogo di confronto, di scambio dove si vota e si decide”. Sì, ha deciso di usare la “tagliola”, di garantire la votazione di quel decreto su Imu/Bankitalia: “Sarebbe stato più comodo scegliere di non usarla, la tagliola, peraltro adottata al Senato in altre occasioni. Alcuni di quelli che mi hanno eletto la pensavano così, era meglio non farlo. Ma io sono una figura di garanzia e mi sono assunta le responsabilità mie e anche quelle di altri”. Un frontale inevitabile. Con i Cinque Stelle paralizzati: “Loro non sono riusciti a far modificare il decreto e io ho risposto anche della rigidità dell’esecutivo”. Adesso arrivano gli insulti, le volgarità: “Cosa faresti in macchina con Laura?”. Legge, si fa male, ma non si pente: “Credo di aver fatto la cosa giusta. Se non fossimo arrivati alla votazione del decreto, gli italiani avrebbero pagato la seconda rata dell’Imu. Non solo: sarebbe stato come ammettere che la Camera, per la protesta di una minoranza, non era più in grado di garantire il voto finale”.
Il ruolo comporta sacrifici, responsabilità, sovraesposizione. Ma certo nulla può giustificare il profluvio di oscenità che le è stato riservato, “lo stupro simbolico”, come lo chiama Vendola, colui che l’ha portata – merito o generosa trappola – in Parlamento. Con i suoi collaboratori la presidente si sfoga: “Quello che succede mi addolora moltissimo, sto svolgendo un servizio pagando un alto prezzo personale. Sono cose che ti fanno assorbire negatività… “. Ciò nonostante la signora è di carattere. Ieri sera era al suo posto, occhiali inforcati, a leggere gli insulti, le minacce di stupro, e valutare querele. E a ricevere centinaia di telefonate di sostegno: “Ringrazio tutti quelli che fanno quadrato, le parlamentari e i parlamentari di tanti partiti, le associazioni, le persone, un fronte di alleanza democratica contro quello che è un tentativo eversivo”. Uno si chiede se non ne ha abbastanza, se la pressione è troppa: “Ne ho abbastanza delle insolenze ma questo mi carica ancora di più. C’è ancora più bisogno di tenere il punto, di fare fronte democratico. Non mi fermeranno, non cederò di un millimetro. Io vado avanti, tenendo fede all’impegno che mi sono presa di rafforzare e rendere più trasparenti le istituzioni”. Il suo motto? “Continua a essere lo stesso: “Facciamo della Camera la casa della buona politica””.
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Il direttore di “Repubblica”, Ezio Mauro, alla notizia del post in cui Grillo invitava all’insulto contro Boldrini, ha twittato varie frasi, a cominciare da questa:

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Il 2 febbraio 2014, il Presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini, è stata ospite della trasmissione “Che tempo che fa” di Fabio Fazio:
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Dopo l’intervista di Boldrini a Fazio, Claudio Messora, responsabile della comunicazione M5S al Senato (nominato direttamente da Grillo e Casaleggio), ha twittato questa frase:

Con tutta evidenza, per questo cittadino ci sono donne stuprabili.
PS: pare che Messora abbia poi cancellato il tweet; complimenti ancora.
Pietro Minto su “Rivista Studio” (3 febbraio 2014) ha scritto un articolo intitolato “Vabbè, dai, si fa per ridere”, a proposito della “battuta” di Claudio Messora su Laura Boldrini (e poi cancellata da Twitter) che “è un’ottima occasione per parlare di “rape joke” e capire se, quando e come sia possibile ridere di uno stupro“.
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“La Stampa”, 3 febbraio 2014, QUI
Grillo, Messora e i passi indietro
STRATEGIA O INCOMPETENZA DIGITALE?
I post sulla Boldrini pubblicati e poi cancellati sono frutto di un piano studiato oppure sono soltanto incidenti di percorso? Per un deputato M5S è una tecnica
di Marco Bresolin
Una precisa strategia di comunicazione oppure una serie di incontrollati scivoloni? Un progetto ben chiaro o il prodotto dell’incompetenza? Da alcuni giorni il Movimento Cinque Stelle ha alzato il livello dello scontro politico. In Aula, certo. Ma non solo. Soprattutto in Rete, prima con quella provocatoria domanda di Grillo sulla Boldrini poi con il tweet di Claudio Messora sullo stesso argomento. Sono apparsi sul Web, hanno scatenato i peggiori istinti e le inevitabili polemiche e poi sono stati cancellati. Perché sono stati scritti? E perché sono stati cancellati?
L’incompetenza al potere
La prima lettura è la più semplice: gli autori non si erano resi conto delle possibili reazioni che avrebbero scatenato. In poche parole, Grillo (o chi in quel momento stava gestendo per suo conto l’account del leader) non ha valutato l’impatto della sua domanda provocatoria sul presidente della Camera. Tanto che, dopo 24 ore di reazioni indignate, lo «staff» del M5S (non Grillo, ma lo staff) ha ufficialmente «preso le distanze» da quei commenti, cancellandoli. Stesso discorso per Messora, responsabile della comunicazione del gruppo M5S al Senato, una delle voci ufficiale del Movimento. Ha risposto a uno scivolone della Boldrini (il tweet, poi rimosso, in cui dava dei «potenziali stupratori» agli utenti del blog), con una battutaccia di pessimo gusto. Si è lasciato scappare le dita sullo smartphone, senza rifletterci troppo (come dimostrerebbe, tra l’altro, l’uso errato della forma verbale nel suo tweet). Poi, dopo le proteste, resosi conto della gravità di quelle parole, ha cancellato tutto e, spinto da diverse sollecitazioni, ha anche chiesto scusa. Prima timidamente, poi in maniera un po’ più convinta. Una grave leggerezza, insomma. E questo vorrebbe dire una cosa: Messora, Grillo (o lo «staff» che gestisce il suo account, lo ribadiamo) hanno fallito clamorosamente sul piano della comunicazione: «epic fail». Anche perché, soltanto un paio di giorni prima, Grillo era sceso a Roma per dire ai suoi parlamentari di «abbassare i toni». Ma come: non era quello il movimento dei guru del web? Degli infallibili strateghi dei social media? L’unico «avanti», capace di parlare «al» e «nel» fantomatico «mondo della Rete»? Se così fosse, i diretti interessati dovrebbero assumersi le loro conseguenze. Perché chi sbaglia, paga. Soprattutto se a sbagliare è qualcuno che ha un ruolo pubblico.
Studiata a tavolino
C’è invece un’altra lettura dei fatti degli ultimi giorni. E cioè che tutto sia stato studiato a tavolino. Una strategia per alimentare il fuoco delle polemiche, conquistare visibilità mediatica in nome del «purché se ne parli» e portare avanti un preciso progetto distruttivo. Il deputato grillino Ivan Catalano sembra propendere per questa ipotesi, anche se pare non condividerla. Lo ha scritto chiaramente in un post su Facebook: «La rivalità della solidarietà, ottimo trucco Beppe. I consulenti di PNL stanno facendo un ottimo lavoro. Far dipendere la politica dalla comunicazione e dal marketing, la svuota dai contenuti. Direi che in meno di 10 mesi ci siamo adeguati alla comunicazione peggiore che potevamo fare. L’uso della rete come grande strumento infamatore di massa è la nuova frontiera. La rete dovevamo usarla per fare partecipare le persone alla politica, tramite strumenti di democrazia diretta. Casaleggio per quanto mi riguarda riprenditi i consulenti che ci hai mandato». In sintesi Catalano dice due cose: c’è una precisa strategia di PNL, programmazione neuro-linguistica, anche dietro agli ultimi post. Dietro la loro pubblicazione, ma anche dietro la loro cancellazione. Marketing puro, numeri: in barba a qualsiasi regola politico-morale. I rischi di questa strategia sono spiegati dallo stesso Catalano: un utilizzo della Rete come «strumento infamatore di massa», decisamente lontano dalla Rete come «strumento di democrazia diretta». Anzi, l’esatto opposto. Motivo per cui chiede a Casaleggio di riprendersi i consulenti mandati ai parlamentari. Molto importante: questo post è stato scritto prima del Tweet di Messora sullo «stupro selettivo».
Le conseguenze
A prescindere dai reali motivi che hanno portato a questi episodi, resta da capire quali saranno le conseguenze. Gli elettori del Movimento continueranno ad apprezzare questi atteggiamenti sfasciatutto? Un anno fa, quando i Vaffa venivano lanciati da un palco in piazza, potevano avere un significato. Quel «tutti a casa» poteva avere un significato. Oggi, quando vengono lanciati dall’interno delle istituzioni, ne hanno un altro. E il rischio è che agli occhi dell’italiano medio, quello che un anno fa aveva votato i Cinque Stelle come risposta indignata alla Casta del Palazzo, le urla e le proteste dei grillini in Aula appaiano identiche alla mortadella o al cappio sventolati da chi, qualche anno prima, li aveva preceduti disgustando gli elettori.
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Su un piano politico è, invece, il commento di Curzio Maltese (“Repubblica”, 3 febbraio 2014): “Il tradimento di Grillo“, da cui estrapolo i seguenti passaggi:
“Se fossi un militante del Movimento 5 Stelle oggi chiedereil’impeachment di Beppe Grillo per alto tradimento. È evidente che l’ex comico e Casaleggio stanno imbrogliando otto milioni di elettori. Dicono di voler andare al governo per cambiare l’Italia. Ma sono terrorizzati dall’idea e badano soltanto ai propri interessi aziendali. Non si spiegano altrimenti le mosse della Grillo&Casaleggio spa di questi giorni. Un vero e proprio tradimento dei valori e dei principi fondanti del M5S, anche di quelli positivi, che ci sono. […] I molti difensori d’ufficio del grillismo, che ama dipingersi come isolato dai media, insistono nel dire che i linguaggi e i gesti non contano. Quando si bruciano i libri, come quello di Corrado Augias, quando si stilano liste di proscrizione dei giornalisti, quando s’incita a insulti sessisti nei confronti di una delle poche donne che occupa una carica pubblica importante, Laura Boldrini, non si possono accampare alibi o giustificazioni. Il mezzo in questi casi è per intero il messaggio. E il messaggio, piaccia o non piaccia agli amici Dario Fo e a quelli de Il Fatto è uno solo chiaro, riconoscibile e in una parola: fascista. […]”.
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Il 3 febbraio 2014 le polemiche sono continuate con nuovi attacchi da parte del M5S a Boldrini, Augias e, new entry, Daria Bignardi (perché nuora di Adriano Sofri): “M5s contro Bignardi e Sofri: “Com’è aver sposato il figlio di un assassino?”. Critiche all’intervista ad Alessandro Di Battista, al quale la giornalista ha chiesto del passato fascista di suo padre. E sul blog anche Francesco Alberoni finisce nella black list del movimento. Letta: “Corsa alla barbarie”. Intanto Messora chiede scusa. Boldrini: “Pestaggio mediatico in atto contro giornalisti”. Catalano contro Casaleggio: “Inviati consulenti Pnl a Roma”“.
(Va registrato che alcuni parlamentari M5S hanno preso pubblicamente le distanze dalla strategia comunicativa del loro movimento. Qualcuno ha anche parlato dell’uso, dall’alto, della “Programmazione Neuro-Linguistica“).
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Il giorno dopo, Adriano Sofri ha risposto con queste parole:

“Piccola posta”, in “Il Foglio”, 4 febbraio 2014, QUI
di Adriano Sofri
Un esponente dei 5 stelle ha chiesto a Daria Bignardi – che aveva dato al deputato Di Battista l’occasione di ben figurare nel suo programma televisivo – che cosa si provi a essere la moglie del figlio di un assassino. Ha trascurato, come molti, un dettaglio: che io non sono né assassino né, soprattutto, mandante di assassinio. Però lui e molti possono dirlo, se fa loro piacere, perché una sentenza li autorizza. Posso riferire a quel giovane uomo così umanamente interessato ai sentimenti altrui come sia essere il suocero della moglie del figlio di un assassino: molto bello.
“Barbablog”, in “Vanity Fair”, 11 febbraio 2014, QUI
PERCHE’ HO TACIUTO PER DIECI GIORNI E ORA VI PARLO DI QUELLA (BUONA) INTERVISTA
di Daria Bignardi
La scorsa settimana sono stata mio malgrado al centro dell’attenzione per via di un’intervista delle Invasioni Barbariche. Al centro dell’attenzione è un eufemismo per dire che ho ricevuto da simpatizzanti del Movimento 5 Stelle – e continuo a ricevere – una dose massiccia di insulti, sessisti e no, in Rete, e attacchi da alcuni giornali. In prima pagina su tre quotidiani diversi per tre giorni di seguito, un record per me: neanche quando feci lo scherzo del cane al presidente del Consiglio Monti o diedi dell’antipatico all’allora ministro Brunetta.
Dopo le prime centinaia di parolacce ho smesso di guardare Twitter e Facebook per una settimana, e degli articoli del Fatto, Libero e il Giornale ho letto solo i titoli e qualche passaggio. Non lo faccio per senso di superiorità o per freddezza, meglio specificarlo, ma solo per proteggermi. Ovviamente rimango male a leggere cose piene di pregiudizi e livore, spesso false, anche se ne capisco i meccanismi e so che non parlano di me, ma di chi li scrive: cerco di difendermi non leggendo e non rispondendo, aspettando che passi. So bene che rispondendo darei (e darò anche con questo articolo) nuova benzina al fuoco eccitato di quelli che hanno pagine da riempire e nemici – secondo loro – da combattere. Ancora non ho ben capito perché da anni questi giornali – sempre gli stessi – mi attacchino a ogni occasione, ma avranno i loro motivi. Penso che non ce l’abbiano veramente con me, a parte un paio di personaggi un po’ fissati, ma con quello che ai loro occhi, non conoscendomi, rappresento. Solite tristi faccende tribali, all’italiana.
Non posso negare che quel che è accaduto mi abbia fatto dispiacere. Non fa piacere a nessuno venire insultati e travisati, e non ho mai condiviso la filosofia del «purché se ne parli». Di solito non rispondo pubblicamente a critiche, attacchi e censure, e ne ho ricevute. Ci sono però alcune cose che vorrei dire ai lettori non prevenuti o partigiani. Certe cose vanno spiegate, per non farle passare per vere, anche se so benissimo che è una lotta contro i mulini a vento. Molto spesso le notizie, già nate distorte, passano di media in media senza che nessuno si dia la briga di andare a verificarle, e a volte arrivano al lettore o all’ascoltatore totalmente distorte, come in un telefono senza fili impazzito.
In questo caso, basterebbe guardare l’intervista all’onorevole Di Battista del M5S per capire che era una buona intervista, dove tra l’altro lui aveva fatto una buona figura, e che i responsabili della sua comunicazione avrebbero dovuto esserne contenti.
Per me in una buona intervista lo spettatore conosce un po’ più a fondo la persona con cui parlo, attraverso le sue idee ma anche dettagli della sua vita, e ne intuisce la personalità e il profilo. Non sempre ci riesco, ma provo sempre a far emergere un lato meno conosciuto di chi intervisto, magari discutendo di cose di famiglia con un politico o di politica con un’attrice, oppure attraverso la distonia, l’uscita dai binari. Parlano tante cose, in un’intervista televisiva: gli sguardi, i gesti, il tono della voce.
Subito prima dell’inizio del programma mi avevano portato un’agenzia che riferiva di una vecchia intervista, appena rimandata in onda alla trasmissione di Giuseppe Cruciani su Radio 24, nella quale il padre di Di Battista diceva di essere orgoglioso di essere fascista, di sentirsi un camerata e di sfilare in camicia nera. Subito mi sono chiesta: «Chissà che cosa pensa l’onorevole Di Battista delle idee di suo padre, chissà come le vive». Ho deciso quindi che verso la fine del nostro incontro gli avrei chiesto se quell’intervista radiofonica lo avesse messo in imbarazzo.
Di Battista ha risposto, molto bene, che era comunque orgoglioso di suo padre. È sembrato più turbato quando gli ho domandato del suo passato di catechista, e il suo turbamento ha avuto un effetto comico che lo ha reso ancora più umano che all’inizio dell’incontro, quando tendeva a ripetere slogan o argomenti già sentiti altrove. Penso spassionatamente che Di Battista abbia fatto una buona figura nel mio programma. Non giudico le sue idee e i suoi modi: a me interessa raccontare le persone. Le persone sono storie.
Non ho mai pensato di essere scorretta ponendo quella domanda sul padre proprio a ragione del fatto che anche io, come ho scritto nel mio primo libro Non vi lascerò orfani, un libro letto da molte persone, ho raccontato di aver avuto un padre fascista che amavo moltissimo. Un padre morto trent’anni fa, quando ero una ragazza. Io sono molto più grande dell’onorevole Di Battista e mio padre quest’anno compirebbe cento anni, era del 1914: quindi era stato fascista come quasi tutti quelli della sua generazione, e conservava bei ricordi della sua giovinezza.
Confesso di non aver rivisto l’intervista all’onorevole Di Battista: non sopporto di rivedermi e non lo faccio mai, quindi non ricordo le parole esatte che gli ho detto ma ne conosco bene le intenzioni, che erano il sapere se quell’intervista lo avesse messo in difficoltà, e se le idee di suo padre gli avessero mai creato problemi.
Alla malafede di quelli che hanno voluto vedere in quella domanda un attacco – gli stessi che poi rimproverano ai giornalisti di non fare le domande – non c’è rimedio, se non la buonafede. La mia è totale. Anche il fatto che l’intervistato successivo fosse Corrado Augias è stato un caso, la sua intervista era fissata da mesi, vivendo lui a Parigi, mentre quella al politico era stata decisa pochi giorni prima. Mica potevo mettere qualcuno tra Augias e il politico nel timore che il primo criticasse il secondo: questa sì sarebbe censura. E poi confesso di non averci nemmeno pensato, anche perché avevo invitato Augias per parlare del suo libro sulla Madonna.
Ma sia la mia domanda sia la vicinanza all’intervista di Corrado Augias – che ha detto quel che gli pareva, e ci mancherebbe che non potesse farlo – sono state viste dai dietrologi come un complotto contro il politico (una settimana dopo è successa la stessa cosa e Severgnini ha detto cose molto più severe su Casini che lo aveva preceduto: ma naturalmente nessuno ha detto che non avrebbe dovuto).
Quanto alle cose che ha scritto sul blog di Beppe Grillo Rocco Casalino, confesso che mi hanno fatto provare dispiacere per lui perché, oltre a non avere capito che l’intervista che aveva organizzato aveva funzionato, ha dimostrato di non sapere nulla della vicenda che citava, come tanti italiani del resto.
Non mi ferisce leggere che mio suocero sarebbe un assassino perché non lo è. Sono orgogliosa di avere come nonno dei miei figli un uomo che ha ingiustamente subito una condanna a 22 anni di carcere per qualcosa che non ha commesso, e che è sempre rimasto – nonostante le ingiustizie e tutto quel che di terribile ha subito – la persona straordinaria che è. Questo è quel che è successo, che ho pensato e che provo, per chi è interessato a saperlo.
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AGGIORNAMENTO
Il giorno dopo, 12 febbraio 2014, Sabina Ambrogi ha commentato il post di Daria Bignardi, sollevando parecchi critiche, che si concludono così: “è esattamente questo senso di onnipotenza nei media di “famiglie”, appunto “tribù”, che hanno pensato di essere intoccabili per anni, ad aver inventato i grillini“.
“La Repubblica”, 2 febbraio 2014, QUI
LE NUOVE TENEBRE
di Corrado Augias
“Che succederebbe se ti trovassi con la Boldrini in macchina?”. Il comico Beppe Grillo voleva far divertire i ragazzi lanciando sul blog la sua provocazione a metà tra stupidità e infamia. Mossa calcolata a freddo, sapeva che cosa sarebbe successo. Infatti è successo. Ometto le risposte, fantasie di uomini repressi, oscenità correnti, postribolo. Poi perfino lui dev’essersi reso conto d’aver esagerato e ha fatto sparire la sequela di (banali) oscenità. Battute di quel tipo le sentivamo nei film degli anni Cinquanta, uomini in calore che si sussurravano “Quella bottana è”. Lì era satira di costume, qui è in gioco la terza carica dello Stato. Anche il fascismo demoliva gli avversari col ridicolo. Li si imbottiva d’olio di ricino, poi tutti a ridere nel vedere il disgraziato torcersi. Ogni giorno il grillismo scende un po’ più giù, l’attacco alla Boldrini non è certo il livello più basso. Gente di quella risma quando tocca il fondo non ci pensa due volte: comincia a scavare.
Davvero non c’è in quelle file di soldatini obbedienti qualcuno che conservi di sé un’opinione un po’ meno umiliante? Quelle faccette pulite, quelle barbette ben curate, quella ragazzette in tailleur, basta davvero così poco a trascinarle a questo livello? Ne ho fatto le spese anch’io. Venerdì ero ospite del programma di Daria Bignardi su La7, Le invasioni barbariche. Ho espresso alcune critiche sul M5S, su ciò che ha combinato in questi giorni alla Camera. Apriti cielo! Twitter e mail inondate di contumelie, Grillo mi inserisce nella sua gogna. Uno dei commenti più gentili mi definisce: “Scrittore della Kasta”. Un altro, più rude: “Penso che lei sia un po’ rincoglionito. Comunque meglio così che servo del potere”. C’è un banale “emerito imbecille” e un estremo: “Sei un morto che cammina”. Per fortuna c’è anche uno che mi vuole solo querelare. Anche Daria Bignardi è stata inondata di insulti, declinati ovviamente nelle usuali varianti femminili.
La pioggia di improperi e la loro qualità non hanno comunque molta importanza. Si tratta di rifiuti di tipo meccanico che eludono la sostanza della questione usando l’invettiva come scudo. Lo psicologo Nicola Artico mi aveva scritto giorni fa per darmi la sua interpretazione dei recenti comportamenti: “Ho visto giovani deputati fronteggiare con il proprio viso quello di un altro come lupi di rango superiore, ho letto insulti di un sessismo arcaico nutrito da pulsioni mai sopite, ho riconosciuto un noto cluster diagnostico: il narcisismo. Non voglio fare una diagnosi a distanza, ma il tema del narcisismo, clinicamente, evoca un mix coordinato come un senso grandioso di importanza, credere di essere speciali, e dunque di poter essere capiti solo da persone (o istituzioni) altrettanto speciali; avere la sensazione che tutto ci sia dovuto, esibire comportamenti arroganti. Più in generale manifestare incapacità di controllare gli impulsi. Ogni volta che si passa all’agito (violento), si è incapaci di dare parola a un’emozione, e costruire simboli, dunque cultura. Si passa all’atto con la negazione anche semantica del concetto di “parlamento”. Questa dimensione colpisce in giovani parlamentari che, in gran parte, s’erano proposti come il nuovo”.
Non credo di esagerare definendo questi comportamenti fascismo inconsapevole in senso tecnico e storico. Nemmeno il fascismo movimento degli inizi tollerava obiezioni, anche loro preferivano l’azione, il grido, l’odore della polvere, a tacere d’altro. Un fascista vero come Francesco Storace diceva (con humour) “Il cazzotto sottolinea l’idea”. Questi, che humour non hanno, usano l’ingiuria, che l’idea si limita a scansarla.
Prima di me, dalla Bignardi, aveva parlato il giovane deputato grillino Alessandro Di Battista. È un uomo d’aspetto gradevole, molto consapevole, molto compiaciuto, parla con calma, lanciando, soavemente, insulti terribili: quello è un falsone, quello è un condannato, quello è un pollo da batteria e via di questo passo. La sua calma mi è sembrata spaventosa; traspare la sicurezza di chi ritiene di possedere la verità. Dal punto di vista psicologico gli si addice l’immagine del “lupo di rango superiore” descritta da Artico. Ridurre i problemi a slogan orecchiabili per meglio padroneggiarli e che nessun dubbio incrini le certezze, dividere il mondo in due con un taglio senza sfumature.
Questi grillini, che rifiutano il bipolarismo elettorale perché non gli conviene, politicamente hanno adottato la visione rigidamente dualista dei manichei: la Luce e le Tenebre. C’è chi la proclama urlando, chi l’accompagna con gesti osceni, chi come Di Battista la dichiara soavemente. Immagino che con uguale soavità mi farebbe accompagnare al rogo, se potesse. Confesso: se fanatismo è, preferisco il fanatismo da energumeno del suo capo che sempre più spesso ci mostra di che cosa sia fatto il suo movimento, di che pasta siano molti suoi seguaci.
A quei seguaci, Grillo ha dato in pasto la presidente della Camera esponendola a una violenza senza precedenti nel mondo civilizzato che non diventa meno grave per essersi consumata solo sulla Rete.
“Corriere della Sera”, 3 febbraio 2014, QUI
AUGIAS, I 5 STELLE E L’ETERNO SPETTRO DEL ROGO DEI LIBRI
Là dove si bruciano i libri, si finisce per bruciare le persone
di Luca Mastrantonio
Là dove si bruciano i libri, si finisce per bruciare le persone. Una massima, quella di Heinrich Heine, poeta tedesco dell’800, che ha trovato nella storia troppe conferme per venire ignorata. Anche se si tratta di un gruppetto di Forconi che in libreria, a Savona a fine 2013, urla di bruciare i libri; o di un periferico militante grillino che butta un libro nel camino, come ha fatto Francesco Neri, fondatore del circolo di Zagarolo (Lazio). Venerdì scorso ha bruciato un libro di Corrado Augias, reo di aver giudicato il Movimento 5 Stelle a rischio «fascismo», alle Invasioni barbariche su La7.
Pubblicato sul web, il rogo domestico ha scatenato sdegno e soddisfazione, dentro e fuori il Movimento: un gesto da nazista, controproducente; no è coraggioso: bene, bravo, bis. Ieri, su Facebook, Neri ha provato a spegnere l’incendio mediatico. Ma è come Montag, il pompiere che in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury ha del cherosene negli idranti. Il gesto l’ha rivendicato così: ho bruciato il libro «comprato direttamente» da Augias, «autografato» persino; perché Neri ama i libri, «me ne circondo» e ama Augias, «persona lucida, di grande cultura»; ma dopo le critiche al grillismo, lo considera un «fascista», uno che con le sue «menzogne» attacca «la Resistenza, e gli unici che la fanno, in questo momento». Sembra Annie, la protagonista di Misery non deve morire, romanzo di Stephen King: è una lettrice paranoica che dopo aver scoperto che lo scrittore vuole far morire il suo personaggio del cuore, prova a fargli bruciare il manoscritto, e poi tenta di ammazzarlo. Neri rivendica una missione morale: «In quel camino – scrive su FB – ho bruciato l’ipocrisia. Il nostro male più grande».
L’ipocrisia: è il male assoluto combattuto con tenerezza dal protagonista del Giovane Holden di Salinger, e con efferatezza da un suo lettore psicolabile, Mark Chapman, l’assassino di John Lennon, ucciso poco dopo avergli chiesto un autografo. In un post successivo, Neri mette la foto di un uomo-torcia, che si è dato fuoco – spiega – per debiti. Bisogna «fermare chi li provoca, chi li copre, e anche chi li ignora». Come? Intanto, continua l’infame rubrica «Giornalista del giorno», dove Grillo attacca i giornalisti non graditi. Ieri è toccato a Philippe Daverio, che a Otto e mezzo ha criticato Gianroberto Casaleggio. Qualcuno, per favore, trovi un estintore. Senza cherosene.
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Su questo episodio, il commento di Pierpaolo Pinhas Punturello è tra i più condivisibili che abbia letto: “Il militante grillino Francesco Neri ha bruciato, con evidente orgoglio e fierezza mostrata via Facebook, un libro di Corrado Augias reo di aver criticato durante una intervista televisiva il Movimento 5Stelle. A fianco trovate una foto del 10 Maggio del 1933, quando a Berlino i militanti del movimento neonazista bruciavano, con altrettanta fierezza, i libri inacettabili per quella che sarebbe diventata la dittatura neonazista. Posso comprendere il voto di protesta e di disagio verso le istituzioni, non posso accettare il fuoco come mezzo di azione politica democratica. Italia mia, che fai?“.
“Corriere della Sera”, 3 febbraio 2014, QUI
Disprezzo delle forme nel Paese in declino
IL LINGUAGGIO DELL’INCIVILTA’
di Ernesto Galli Della Loggia
Abito a Roma nei pressi di una scuola (medie e liceo), e all’inizio e alla fine delle lezioni la mia via si riempie di ragazzi. Mi capita così di ascoltare assai spesso le loro chiacchiere, gli scambi di battute. Ebbene, quello che mi arriva alle orecchie è una continua raffica di parolacce e di bestemmie, un oceano di turpiloquio. Praticamente, qualunque sia l’argomento, in una sorta di coazione irrefrenabile dalle loro bocche viene fuori ogni tre parole un’oscenità o una parola blasfema. Le ragazze – parlo anche di quattordicenni, di quindicenni – appaiono le più corrive e quasi le più compiaciute nel praticare un linguaggio scurrile e violento che un tempo sarebbe stato di casa solo nelle caserme o nelle bettole più malfamate.
A dispetto dunque di quanto vorrebbero far credere molti dei suoi scandalizzati censori, il lessico indecente e la volgarità aggressiva mostrati da Grillo e dai suoi parlamentari nei giorni scorsi non sono affatto un’eccezione nell’Italia di oggi. Sono più o meno la regola. Sostanzialmente, in tutti gli ambienti il linguaggio colloquiale è ormai infarcito di parolacce e di volgarità, come testimoniano quei brandelli di parlato spontaneo che si ascoltano ogni tanto in qualche fuori onda televisivo o tra i concorrenti del Grande Fratello. Siamo, a mia conoscenza, l’unico Paese in cui i quotidiani non esitano, all’occasione, a usare termini osceni nei propri titoli.
Non dico tutto questo come un’attenuante, tanto meno come una giustificazione. Lo dico solo come richiamo a un dato di fatto. È l’ennesimo sintomo dell’abbandono delle forme, della trasandatezza espressiva, della durezza nelle relazioni personali e tra i sessi, di un certo clima spicciativo fino alla brutalità che sempre più caratterizzano il nostro tessuto sociale. In una parola di un sottile ma progressivo imbarbarimento.
Il declino italiano è anche questo. Il degrado dei comportamenti, dei modi e del linguaggio ha molte origini, ma un suo fulcro è di certo il grave indebolimento che da noi hanno conosciuto tutte quelle istituzioni come la famiglia, la scuola, la Chiesa, i partiti, i sindacati, a cui fino a due-tre decenni fa erano affidati la strutturazione culturale e al tempo stesso il disciplinamento sociale degli individui. Era in quegli ambiti, infatti, che non solo si sviluppava e insieme si misurava con la realtà esterna e le sue asperità il carattere, ma veniva altresì modellata la disposizione a stare nella sfera pubblica e il come starci. Tutto ciò che per l’appunto è stato battuto in breccia in nome di ciò che è «spontaneo», «autentico», «disinibito», secondo una concezione della modernità declinata troppo spesso nelle forme del più sgangherato individualismo.
La modernità italiana ha voluto dire anche questo generale e cieco rifiuto del passato. Rifiuto di consolidate regole pubbliche e private, di un sentire civico antico, di giusti riguardi e cautele espressive, di paesaggi culturali e naturali tramandati. Di molte cose che da un certo punto in poi la Repubblica ha rinunciato ad alimentare e a trasmettere. Un filo rosso lega la rovina del sistema scolastico da un lato e dall’altro il turpiloquio sessista dei parlamentari grillini di oggi e dei guitti di sinistra di ieri contro le rispettive avversarie politiche, la dissennata edificazione del territorio da un lato e i tricolori sugli edifici pubblici ridotti a luridi stracci dall’altro, le condizioni della Reggia di Caserta e il nostro primato nelle frodi comunitarie. Ma quel filo rosso non ci piace vederlo: ed è così che la società civile italiana (a cominciare dai suoi deputati) è diventata per tanta parte un coacervo d’inciviltà.
L’editoriale di Giovanni De Mauro al numero di “Internazionale” del 7 febbraio 2014 si intitola “Eterna” ed è la citazione di una “Cartolina” (programma tv) che Andrea Barbato indirizzò a Beppe Grillo il 25 febbraio 1992:
“Caro Beppe Grillo,
avevo pensato dapprima di formare il numero del suo telefonino e di collegarmi con lei, come lei stesso invita a fare, durante lo spettacolo. Poi ho preferito che ciascuno resti a casa propria, lei sul palcoscenico davanti a platee entusiaste, io nello studio tv.
Lei è bravissimo, esilarante, inarrivabile. Devo spendere subito gli aggettivi più lusinghieri di cui dispongo per due motivi. Il primo è che lei li merita davvero, con una comicità mai inutile, sempre in sintonia con quello che accade. Il secondo motivo è difensivo: spero di evitare la telefonata corale, che lei dedica a qualche personaggio della tv o della cronaca, e durante la quale la platea in coro, magistralmente diretta dal suo gesto, rivolge all’ignaro che ha risposto un invito molto esplicito e brusco. Una parola, un imperativo, che nella tv di oggi suona persino blanda, se si ascolta quello che viene detto da mattina a sera, ma che chi le parla, per quell’ipocrisia borghese che un tempo si chiamava ‘buona educazione’, non vuole ripetere. Rischiando di entrare nell’elenco di coloro che riceveranno questo messaggio corale, vorrei azzardarmi a muovere a un uomo libero e intelligente come lei, caro Grillo, qualche obiezione. Forse, se non altro, degna d’essere discussa.
La prima è questa: come fa lei a somigliare ogni sera alle sue platee, pur nel cambio di pubblico e di città? Ci riesce centrando dei bersagli molto ovvi e inutili. Una specie di minimo comun denominatore delle antipatie, peraltro finte, degli italiani. Seconda obiezione. Non nego il valore comico, liberatorio, di una bella imprecazione lanciata all’indirizzo giusto. Ma lei crede davvero che la sacrosanta rabbia, la furia contro i poteri, le corruzioni, le meschinità, le inefficienze, le arroganze, vengano soddisfatte, sanate, da una trasgressione verbale? Da un grido insultante da curva calcistica? A scopi terapeutici, dice un giornale, ma io ne dubito. Che terapia è questa? È la strada maestra dell’illusione qualunquistica, dello sberleffo fine a se stesso, della vendetta anonima pronunciata da una poltrona in penombra: l’unico che si espone, che fa il suo mestiere, è lei. (…)
Caro Grillo, le platee hanno di buono che cambiano ogni giorno, ma l’Italia è sempre lì, eterna nei suoi errori, e a prova di insulto.
Un saluto da Andrea Barbato”.
Sempre il 7 febbraio 2014, su “Internazionale” è stato pubblicato un editoriale di Lee Marshall, “Solo chiacchiere da bar“, in cui pone attenzione al linguaggio dei membri e dei sostenitori del M5S.
In un post scritto quasi un anno fa, qualche giorno dopo le elezioni del 24-25 febbraio, ero possibilista rispetto alla novità democratica rappresentata dal Movimento 5 stelle, pur essendo molto scettico sul leadership di Beppe Grillo. Abbandonando per un attimo il mio sano cinismo inglese, mi sono perfino lasciato andare a un “potrebbe anche essere l’inizio di una nuova forma di politica nazionale”.
Allora, vediamo dov’è arrivata questa nuova forma di politica nazionale. Mi soffermerò su un episodio, non tanto per ironizzare su quanto questi paladini della democrazia partecipativa sono caduti in basso, quanto per cercare di capire cos’è, nell’M5s, che fa di un progetto potenzialmente grande e rivoluzionario una realtà piuttosto deludente.
Sette donne parlamentari del Pd hanno presentato querela per ingiuria all’ispettorato di pubblica sicurezza alla camera, denunciando che, il 29 gennaio scorso, durante una seduta della commissione giustizia a Montecitorio, il deputato dell’M5s Massimo De Rosa avrebbe rivolto loro le seguenti parole: “Voi donne del Pd siete qui perché siete brave a fare pompini”.
De Rosa si è difeso dicendo: “Ho detto che qua dentro sono entrati solo perché conoscevano qualcuno di importante o avevano fatto qualche favore sessuale. Mi riferivo a tutti: uomini e donne. Non mi riferivo a nessuno in particolare, neanche alla Moretti”. Tutto chiaro, dunque: De Rosa lanciava fulmini contro un Partito democratico in cui, secondo lui, si arriva in commissione solo previa raccomandazione (cioè, dei pompini metaforici) oppure scambiando favori sessuali, in una specie di orgia democratica (ma in questo caso, sarei interessato a sapere come si stabilisce chi deve dei favori a chi. Forse con le preferenze?).
Qualche giorno fa, De Rosa ha dichiarato all’Ansa: “Non mi nasconderò dietro l’immunità parlamentare perché sono un cittadino e da cittadino mi difenderò dalle false accuse del Pd”. La sua decisione è stata annunciata in diretta dal collega di partito Luigi Di Maio sulla sua pagina Facebook, in questi termini: “Massimo De Rosa (deputato accusato di aver rivolto frasi ingiuriose alle deputate Pd, ma prima accerchiato, provocato e apostrofato come ‘fascista’) ha appena rinunciato alla sua immunità parlamentare. Noi del Movimento 5 stelle facciamo così. Nessun privilegio o trattamento speciale. E chi sbaglia (e si scusa) si assume comunque le responsabilità di quello che ha fatto. Noi come gruppo gli staremo vicino per questo. Perché si è comportato da normale cittadino”. Gli ha fatto eco Beppe Grillo, che ha twittato: “De Rosa del #M5S accusato di aver rivolto frasi ingiuriose alle deputate Pd rinuncia all’immunità parlamentare. Grazie Massimo per l’esempio”.
Ho cominciato a leggere i commenti su Facebook seguiti all’annuncio fatto da Di Maio. Ho finito per leggerli tutti. Per chi volesse capire l’M5s e i suoi sostenitori, a quasi un anno della loro entrata trionfale in parlamento, consiglio di dedicarci qualche minuto: non sarà scientifico, ma non è male come spunto per una lettura degli umori, le preoccupazioni, le ossessioni di quel 20-25 per cento degli italiani che sostiene il movimento.
La prima cosa che mi colpisce è che quasi nessuno dei sostenitori che intervengono mette in dubbio la versione delle sette deputate Pd, cioè quelle che lo stesso De Rosa definisce “false accuse”. Ecco qualche esempio: “Mah! Scusarsi perché? … Si sa che molte donne arrivano al potere con favori sessuali e di solito sono proprio quelle che si offendono” (a scrivere è una donna). Oppure: “Tutto bene, ma personalmente non mi scuserei per aver dato un calcio a chi se l’è cercato”. Un altro attivista scrive: “Io avrei detto di peggio nn penso abbia esagerato”. Un altro, che sfodera quella che si potrebbe definire la “difesa dell’emetico”, dice: “Che bello quando hai qualcosa sullo stomaco e lo vomiti fuori, dopo ti senti un altro ti senti meglio e bene”. Un altro, che invece ricorre alla “difesa del minimo comune denominatore”, opina: “Ha detto in pubblico quello che più o meno tutti noi diciamo al bar”.
Ogni tanto tra i commenti spunta qualche critica più dura – per la presunta frase, non per la rinuncia all’immunità – ma sono relativamente pochi: “Non credo ci sia giustificazione per degli insulti sessisti… e lo dico da vostra elettrice orgogliosa di esserlo”; oppure: “Ottimo, ma in futuro cercate di non fare più uscite del genere. Se ve la giocate sui contenuti senza dare adito a critiche su frasi imbarazzanti vincete voi”. Un altro commento fuori dal coro che mi piace molto: “Programmazione neuro linguistica. Massimo De Rosa è ACCUSATO di aver rivolto frasi ingiuriose, ma CERTAMENTE è stato apostrofato come fascista. Luigi, visto che sei napoletano e mi capisci, ‘facit’v accattà a chi nun ve sap…’”. Un’altra amica di Facebook chiede, perplessa, “quando avrebbe chiesto scusa” Di Maio.
Da politologo-patologo (a dire il vero non sono né l’uno né l’altro, ma perché lasciare queste mansioni nelle mani di una casta?), direi che le tre sindromi che emergono dai commenti dei sostenitori dell’M5s sono:
1) La convinzione di essere l’unico movimento politico pulito e onesto, l’unico in grado di redimere la dignità calpestata di un paese che è stato troppo a lungo nelle mani di una classe politica corrotta. Cito solo alcuni commenti sul gesto “eroico” di De Rosa: “Grandissssimo Massimo lezione di etica ai provocatori del Pd”; “già, provate a imitarci. Nessuno lo fa, è troppo costoso, sia in termini monetari sia di onestà intellettuale”; “coerenza e riconoscimento degli errori…..grandi….così li mandiamo a casa”. A volte la convinzione di essere i detentori della verità assume dei toni da veri e propri seguaci di una setta, come in questo commento: “Siete unici orgoglio italiano mai come ora farò continuamente la mia parte per dirlo a chi è meno fortunato e ancora intrappolato”.
2) La convinzione di essere trascurati e perfino perseguitati dai mezzi d’informazione, a volte in sintonia con altre forze politiche o un “loro” non meglio definito. “Purtroppo i media amplificano e deformano… Sono capaci di dire che siete bombaroli per una scoreggia”; “bene Luigi, peccato che giornali ed i telegiornali delle tv corrotte non parlino mai in questi i termini del M5s, continuando a confondere le menti di chi non possiede altri mezzi per informarsi”; “delle accuse di De Rosa non ci sono video e nelle TV non si parla d’altro! Lo schiaffo alla Lupo si è VISTO in tutte le TV e nessuno ne parla” (a dire il vero, il primo articolo che ho letto sulla vicenda, sul Corriere della Sera, parlava prima del presunto schiaffo di Stefano Dambruoso (Scelta civica) a Loredana Lupo (M5s), e solo dopo dei pompini di De Rosa). Questa sindrome può sfociare anche nella teoria del complotto: “Da notare che gli attacchi all’M5s sono partiti appena l’M5s al senato ha fatto approvare il ddl che modifica l’art.416 ter c.p. (Traffico di influenze illecite politico-mafiose). Non solo, gli attacchi sono continuati perché Di Maio ha pubblicato i documenti desecretati delle indagini sulla Terra dei fuochi, documenti pieni zeppi di nomi e cognomi”.
3) Proclamazione di un dibattito democratico che in realtà segue delle linee guida mandate dall’alto. L’80 per cento dei commenti non fa altro che echeggiare la lettura fatta da Di Maio, prendendo per buona perfino la sua affermazione che De Rosa è stato “apostrofato come fascista” (ricordiamo che si tratta di una frase riferita da De Rosa stesso. Ricordiamo anche che dire che l’interruzione forzata del lavoro di un parlamento democratico era una tattica usata dal fascismo non può essere considerato un insulto, perché è un fatto storico).
Non ci vuole una grande memoria storica per rammentare un altro movimento politico nato negli anni novanta che condivideva queste stesse tre fissazioni che ho elencato sopra. Certo, in Forza Italia la prima ossessione aveva una variante: per Silvio Berlusconi non contava tanto l’essere pulito quanto l’essere in grado di pulire le cose che lui riteneva essere sporche. Certo, a differenza di Forza Italia, l’M5s è un movimento politicamente trasversale. Certo, i deputati di Forza Italia non si sono mai autoridotti la loro indennità e la diaria, né uno di loro ha mai rinunciato all’immunità parlamentare o i loro sostenitori hanno mai scritto e revisionato tutti insieme sul web una proposta di legge.
Ma il mio paragone è di natura psico-nazionale. Visto in modo spassionato, da storico del presente, il Movimento 5 stelle ha fatto sua una rabbia contro il sistema e un senso di persecuzione da sempre presente in Italia e rifiorente a più riprese, in forme diverse, in vari momenti storici, anche prima dell’Unità.
A volte, addirittura, a leggere certi commenti dei sostenitori del M5s, ti addentri in uno strano presente da fantapolitica, in cui Forza Italia e Italia dei valori si sono fuse in una bizzarra alleanza: “Tutti i porconi criminali del governo”, scrive un sostenitore sulla pagina Facebook di Di Maio, “sono protetti da una parte della magistratura altrettanto criminale…!!!”.
È la democrazia versione 2.0, o la dittatura di “quello che tutti noi diciamo al bar”? Non lo so, ma so che quando un movimento che fonda una parte importante della sua identità sull’essere incompreso, sulla sua detenzione dell’unica verità, sull’eroicizzazione di gesti banali e sul fatto che, davanti a quello che considera un complotto, deve a malavoglia ricorrere alle maniere forti, beh, se fosse un ragazzo quindicenne in una scuola statunitense, gli psicanalisti (di quelli che ci sono nelle scuole americane) lo metterebbero sotto osservazione. Per non rischiare di sentire al tg il solito vicino di casa che, dopo il fattaccio, dice che “sembrava un ragazzo così normale”.
Un ultima considerazione: ma che razza di bar frequentano questi qua?
Il 9 febbraio 2014 la deputata del PD Alessandra Moretti ha scritto una lettera al “Corriere della Sera” annunciando una legge contro l’hatespeech (l’odiosa pratica in rete di prendere di mira qualcuno e insultarlo): QUI.
Le ha risposto Marta Serafini, sollevando qualche perplessità: Moretti e gli insulti sul web: perché una legge non deve partire da casi personali. Se un testo parte da casi personali, accaduti a parlamentari e figure istituzionali, perde di efficacia, perché acquista l’odore di legge ad personam: QUI.
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“La Repubblica”, 11 febbraio 2014, QUI (o in pdf)
IL DEGRADO DEL LINGUAGGIO
La politica italiana è precipitata in un vuoto dove ha perduto capacità di comprendere la società, dando spazio alla sfiducia dei cittadini e alla conversione della politica in protesta
di Stefano Rodotà
“Il governo del denaro organizzato è pericoloso esattamente come quello del crimine organizzato”. Sfogo irrazionale di un esagitato? No, parole pronunciate nel 1936 da Franklin Delano Roosevelt a conclusione della sua campagna elettorale. Parole nette, come si conviene ad una politica consapevole del modo in cui devono essere affrontate le grandi questioni. Sottraendosi alla subordinazione all’economia e ritenendo fondamentale il rispetto della legalità. Forse dalla politica italiana doveva venire un segnale altrettanto forte dopo il rapporto della Commissione europea che ci attribuisce il 50% della corruzione nei paesi dell’Unione. E invece si è gridato al complotto, si è fatta qualche variazione sui criteri che hanno portato a quella conclusione, mentre era una buona occasione per riflettere sul fatto che la corruzione italiana non è misurabile solo in termini quantitativi, ma deve esserlo soprattutto in termini qualitativi. Se nell’Ottocento si denunciava il “mostruoso connubio” tra politica e amministrazione, oggi i connubi si sono moltiplicati – tra politica e affari, tra politica e criminalità, tra affari e criminalità – e questo dovrebbe essere tema prioritario.
Questo non avviene perché la politica italiana è precipitata in un vuoto dove ha perduto capacità di comprendere la società, dando spazio alla sfiducia dei cittadini e alla conversione della politica in protesta. Una vera sconfitta, della quale abbiamo potuto misurare l’ampiezza in occasione della conversione del decreto su Imu e Banca d’Italia, quando è divenuta evidente l’incapacità di gestire situazioni difficili, ma non certo drammatiche. Si alzavano i toni, si abbassava la capacità di comprensione e di azione razionale. Né il Governo, né la maggioranza parlamentare e i partiti hanno voluto prendere atto di un elementare dato di realtà: si era di fronte ad un decreto del tutto disomogeneo, al di fuori del binario costituzionale. E, invece di spegnere una così pericolosa miccia, ci si è abbandonati a dissennate prove muscolari, alimentando un indegno spettacolo mediatico. Così la conversione di un decreto legge è divenuta obbligo costituzionale; l’ostruzionismo sempre legittimo in democrazia si è trasformato in blocco fisico del lavoro della Camera e inammissibili aggressioni verbali; l’analisi della situazione è stata affidata a parole gridate, violente contro le donne, con improbabili accostamenti all’eversione e ai colpi di Stato. Si è andati oltre la politica dell’insulto, verso l’estrema degradazione del linguaggio, spia terribile dello stato reale d’una società. Sono comparse liste di proscrizione di chi, magari per un momento appena, aveva sfiorato con un dito l’impuro Grillo.
Si parlava un tempo d’una funzione “teatrale” del Parlamento, perché lì la vicenda politica diveniva palese davanti all’opinione pubblica. Ma oggi questa funzione assomiglia piuttosto a quella delle curve degli stadi, dove gli ultrà organizzano cori e portano striscioni, esibiscono magliette e indicano nemici. Si ha l’impressione che troppi, andando in aula, si preoccupino più di preparare coreografie che argomenti per la discussione. Una sconfitta per la politica.
Nessuno è innocente. E da qui deve partire la stessa valutazione dell’atteggiamento tenuto dai parlamentari del Movimento 5 Stelle, che mostra la difficoltà di abitare le istituzioni anche in modo duramente conflittuale, ma senza confondere un’aula parlamentare con la piazza del Vaffaday. È insensato imputare ad una forza di opposizione i suoi no (anche se l’essere saliti in luglio sul tetto di Montecitorio ha consentito un rinvio della discussione dell’orrido disegno di legge che distorceva la revisione costituzionale, ponendo la premessa per il suo abbandono). È giusto denunciare ogni forma di violenza, verbale o fisica che sia, e non fare alcuno sconto in questa materia. Quando, però, si vuol dare un giudizio più generale, è necessaria una analisi di tutta la prima fase di questa legislatura, sottolineando certamente i limiti delle opposizioni, ma dedicando altrettanta attenzione al sostanziale fallimento delle formule di governo. Di questa sconfitta vogliamo parlare o usiamo la cronaca d’una giornata per esonerarci da questo obbligo?
Il vuoto della politica diventa clamoroso proprio quando si affrontano i problemi della Rete, tema divenuto centrale e che ha rivelato abissi d’ignoranza. Sono anni che si discute dell'”hate speech“, del linguaggio dell’odio che infesta la Rete, sono stati appena pubblicati dalla rivista “Quaderni costituzionali” saggi che discutono il rapporto tra libertà di manifestazione del pensiero e rispetto della dignità delle persone. Di questo non v’è traccia nel dibattito di questi giorni, e diventa addirittura imbarazzante constatare il rifugiarsi in banalità da parte di appartenenti al Movimento 5Stelle, che della Rete hanno fatto il proprio vangelo. Un numero sempre più largo di persone coglie ogni occasione per vivere aggressivamente in pubblico, restituendoci una versione miserabile del quarto d’ora di notorietà che Andy Wharol diceva dovesse venir garantito a tutti. Non è facile reagire a questo stato di cose, ma un comune punto d’avvio dovrebbe essere costituito dal riconoscimento della necessità di non rendere “accoglienti” per il linguaggio degradato i luoghi della nuova comunicazione. Non sto parlando di censura preventiva. Mi riferisco all’immediata e pubblica condanna di messaggi oltraggiosi. Le incertezze e le furbizie generano equivoci, ma la Rete è implacabile nel far emergere le responsabilità, non si può gettare il sasso e poi nascondere la mano. È emerso un fondo limaccioso, un misto di aggressività, violenza, risentimenti, fine d’ogni rispetto per l’altro, che ci rivela che cosa sia divenuta la società italiana. Tutto questo esige una riflessione sul modo in cui si è consumato in Italia un divorzio tra civiltà, cultura e politica.
La lista delle sconfitte della politica continua con un aspetto sottovalutato della legge elettorale, che riguarda la rappresentanza. Siamo di fronte ad una “Serrata del Maggior Consiglio”, simile a quella che si ebbe nel 1297 a Venezia, quando si riservò ai soli membri delle vecchie famiglie l’elezione del Doge. Con l’argomento della lotta ai partitini, si cuce una legge elettorale su misura dei partiti esistenti, con qualche mancia per i possibili alleati (norma salva Lega, candidature multiple per Alfano, vantaggi al “miglior perdente” delle coalizioni). Alle ultime elezioni i votanti furono trentaquattro milioni. Poiché si prevede una soglia dell’8%, rimarrebbero fuori dal Parlamento anche partiti votati da più di due milioni di persone. Le dinamiche politiche sarebbero bloccate e la rappresentatività del Parlamento pregiudicata.
Ma la questione della rappresentanza ha ormai una portata generale, come dimostra il conflitto che si è aperto nella Cgil intorno all’accordo tra sindacati e Confindustria del gennaio di quest’anno. Siamo anche qui di fronte ad una sorta di serrata, che limita non solo il dissenso all’interno del sindacato, ma incide proprio sul diritto dei lavoratori ad essere rappresentati, tanto che si parla di una libertà sindacale “sequestrata”, in evidente contrasto con quanto ha stabilito la Corte costituzionale accogliendo un ricorso della Fiom. Questa vicenda importantissima ci dice che ormai il tema della rappresentanza e la politica costituzionale fanno tutt’uno.
La voce della politica è tornata con la giusta critica di Napolitano alle logica dell’austerità. Ma, per riprendere la via dell’Europa, non basta “ridemocratizzare” le sue istituzioni, come chiede Habermas. È indispensabile “rilegittimare” l’Unione attraverso un recupero della fiducia dei cittadini che passa attraverso il riconoscimento dei diritti negati in questi ultimi anni.
“Cafè Babel”, 17 gennaio 2014, QUI
UN DITO PER INSULTARLI TUTTI
di Àlex Martinez Ortis (tradotto da silvia Tomasin)
Ci sono momenti in cui le parole non bastano. Sono istanti in cui il raziocinio, o i limiti che quest’ultimo impone, svanisce completamente per lasciare spazio a un linguaggio non verbale. Ed è in quei casi che alzare un dito può far scoppiare la bomba, non importa in che lingua.
Lo abbiamo visto agitare in aria numerose volte provocando la tifoseria rivale o zittendo i più critici. Lo abbiamo visto alzato, accompagnato da una chitarra nella mano opposta, come segno di trasgressione. Lo abbiamo visto mostrare abbinato a un sorriso finto, immobile, per rispondere in modo cinico alle critiche di una folla infuriata. Altri lo hanno utilizzato semplicemente per essere ricordati attraverso un’immagine che senza tale gesto non avrebbe avuto alcuna importanza. È facile quanto chiudere il pugno o stendere il braccio. Un gesto semplice per catturare la luce dei riflettori e offrirsi come bocconcino al giudizio della sempre affamata opinione pubblica.
Gli spagnoli lo chiamano “peineta”. Ma l’abitudine risale a molto tempo fa, a un’epoca in ben anteriore a quella del binomio celebrità – droghe. Il primo riferimento al dito medio, alzato in segno di disprezzo, lo incontriamo ne Le nuvole, una commedia di Aristofane del 423 a.C. . I romani, un po’ più tardi, lo battezzarono come “digitus impudicus” (“dito impudente”), nome che si diffuse a partire dal I secolo nelle culture del Mediterraneo. Sebbene per quest’ultimi il gesto non rappresentasse altro che il metodo in voga per allontanare il malocchio. Un utilizzo decisamente diverso da quello attuale.
Qualsiasi sia la storia, è sicuro che il termine latino risulti poco pratico nell’uso contemporaneo. È probabile anzie, che chi venga rimproverato per aver utilizzato in modo inappropriato il proprio “digitus impudicus”, provi lo stesso senso di colpevolezza di chi venga chiamato “maiale” in aramaico. Per questo motivo può essere interessante sapere come viene denominato questo gesto nei diversi paesi d’Europa. Informazione a dir poco utile e necessaria.
I francesi, puntando sul loro acuto senso ironico, denominano il dito medio “doigt d’honneur” (“dito d’onore”). I vicini tedeschi, invece, sono attirati dall’escatologia e si addentrano nel mondo della materia fecale denominandolo “stinkefinger”, ovvero “dito puzzolente”. In Italia optiamo per una forma totalmente descrittiva, così come in Polonia: lo “środkowy palec” polacco non ha altra traduzione che “dito medi”. Gli inglesi, invece, utilizzano la metonimia. Per loro, questo gesto e tutto ciò che implica si può riassumere semplicemente con: “the finger”. Diverse forme per nominare un dito. Un dito per insultare tutti.
Marina Terragni commenta la misoginia di Enrico Lucci (il solito pseudogiornalismo de “Le Iene”) contro il ministro Maria Elena Boschi: QUI (blog di “Io donna”, 1 marzo 2014).
PS: si notino i commenti all’articolo da parte dei maschi.
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“Corriere della Sera”, 18 maggio 2014, QUI.
GRILLO HA VARCATO CON FREDDEZZA UN’ALTRA SOGLIA
di Pierluigi Battista
Ieri, nel suo comizio a Torino, Beppe Grillo ha fatto qualcosa di più che insultare, attività che peraltro non gli è nuova. Ha invece officiato il rito dell’insulto assoluto, dell’aggressività senza limiti e senza risparmio. Le campagne elettorali spesso sono il teatro della virulenza polemica, e forse non può essere diversamente. Ma la differenza è che Grillo non vuole vincere le elezioni incendiando i toni nei comizi, come si fa di solito, ma annichilire il nemico con un lessico deliberatamente oltraggioso, davanti a una folla plaudente e sempre più numerosa. Non conquistare più voti, ma mandare un messaggio ultimativo a chi si oppone alla sua marcia trionfale. Non un lessico rivoluzionario, ma una fraseologia insurrezionale, minacciosa. Fisicamente minacciosa, quando ha invitato la Polizia a non proteggere più i politici: «Alla Digos sono già con noi, alla Dia sono già con noi, ai Carabinieri sono già con noi: non date più la scorta a questa gente». Lasciateli soli e inermi di fronte alla folla inferocita. La strategia della paura, altro che toni troppo elevati.
A Torino Grillo ha oltrepassato una soglia. Ha premuto tutti i tasti del linguaggio cruento. Ha saggiato l’umore della sua gente, che ama queste performances così teatralmente prive di autocontrollo. Dopo aver provato nei giorni precedenti incursioni insensate sulla Shoah, ieri ha insistito sull’ingiuria dal sapore storico, per cui Martin Schulz, se non «ci fosse stato Stalin, oggi sarebbe con una croce uncinata al braccio». Per poi passare, tra gli sghignazzi dei seguaci, all’oscenità esplicita, appena appesantita da una goliardia senile, accusando Renzi di essere andato a «dare due linguate a quel c…one tedesco della Merkel». Per poi andare agli improperi minacciosi contro l’inno di Mameli, in cui i fratelli d’Italia sono solo «i piduisti, i massoni, la camorra» e perciò meritevole di essere fischiato negli stadi di Genny ‘a carogna. Per finire con la promessa solenne che in futuro verranno celebrati processi sommari («processo pubblico», popolare) contro i «giornalisti, i politici, gli imprenditori che hanno rovinato questo Paese». Per ora, per carità, solo un «verdetto virtuale»: «uno sputo». Virtuale, certo. Come se fosse diverso il messaggio, l’ingiunzione a «sputare» sui nemici in una gogna che, nei casi migliori, mima una condanna esemplare da offrire in pasto al popolo in collera, nei casi peggiori anticipa condanne più corpose e meno virtuali.
Nel linguaggio della campagna elettorale, le parole torinesi di Grillo segnano un salto, inaugurano qualcosa di decisamente più brutale e feroce di tutti gli insulti più consueti e che oramai hanno creato uno stato di quasi assuefazione. È una promessa di purificazione, da attuare attraverso un uso politico della rabbia in cui i bersagli vengono indicati al pubblico ludibrio, «processati» come responsabili e addirittura venduti allo straniero, criminalizzati in blocco e dunque additati come obiettivo da colpire. Senza scorta, perché chi tra le forze dell’ordine dovrebbe tutelarne l’integrità si sarebbe già schierato con i rivoltosi. Un linguaggio da insurrezione, non un linguaggio da campagna elettorale. Un linguaggio in cui non si vince una normale competizione, ma si combatte in un Armageddon finale che non può non risolversi con la disfatta, anche fisica, di chi soccombe e viene sottoposto alla giustizia spietata dei vincitori. Qualcosa che va al di là delle intemperanze verbali che abbiamo conosciuto (e di cui, per esempio, la Lega è stata in passato campione assoluto). Una dismisura ricercata e perseguita con freddezza. Una sintonia con un’opinione pubblica esasperata e che accoglie, come si vede nei comizi sempre più affollati di questi giorni, le sparate di Grillo con entusiasmo e parossismo. In una spirale che andrà sicuramente oltre il 25 maggio, in cui le elezioni sono solo una tappa di una guerra senza fine.
“Vita”, 26 agosto 2013, QUI
RECALCATI: ANALISI PSICOPATOLOGICA DEL GRILLISMO
Pubblichiamo un interessante estratto da Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana di Massimo Recalcati, libro-intervista curato da Christian Raimo, edito da Minimum Fax.
di Massimo Recalcati
Cosa ne pensi del fenomeno Grillo? Che analisi psicopatologica ne faresti?
In un vecchio film di Woody Allen intitolato Il dittatore dello stato libero di Bananas, si raccontano con sferzante ironia le vicende rocambolesche di un rivoluzionario che combatte l’ingiustizia della dittatura in nome della libertà e che finisce per indossare i panni di un dittatore spietato identico a quello che aveva combattuto. Ogni rivoluzione, ripeteva Lacan agli studenti del ’68, tende a ritornare al punto di partenza e la storia ce ne ha dato continue e drammatiche conferme. Anche Grillo si caratterizza per essere animato da quel fantasma di purezza che accompagna tutti i rivoluzionari più fondamentalisti. Egli proclama a gran voce la sua diversità assoluta dagli impuri: si colloca con forza fuori dal sistema, fuori dalle istituzioni, fuori dai circuiti mediatici, fuori da ogni gestione partitocratica del potere, dichiara che la sua persona e il suo movimento non hanno nulla da spartire con gli altri rappresentanti del popolo italiano che siedono in Parlamento, invoca una democrazia diretta resa possibile dalla potenza orizzontale della rete che renderebbe superflua ogni altra mediazione, ritiene che l’Italia debba uscire dall’Europa e dall’euro, giudica l’esistenza dei partiti un obbrobrio, proclama la trasparenza e la collegialità assoluta di ogni scelta politica del suo movimento, adotta l’insulto al posto del dialogo, pensa che dedicare la propria vita alla politica sia di per sé un fatto anomalo e sospetto che bisogna impedire, teorizza una permutazione rigida di tutti gli incarichi di rappresentanza; il suo giudizio sulle classi dirigenti del nostro paese fa di tutta l’erba un fascio ritenendo che sia da mandare in toto al macero, alimenta sdegnosamente l’odio verso la politica accusata di affarismo mercenario.
Tutti questi giudizi – senza entrare nel merito del loro contenuto, che si può anche in parte condividere – sono ispirati da un fantasma di purezza che troviamo al centro della vita psicologica degli adolescenti. Si riguardi la diretta della consultazione di Bersani con i rappresentanti del Movimento 5 Stelle al tempo del suo tentativo di costituzione del governo. Cosa vediamo? È il dialogo tra un padre in difficoltà e i suoi due figli adolescenti in piena rivendicazione protestataria. Mi è subito venuto alla mente Pastorale americana di Philip Roth, dove si racconta la storia tormentata del rapporto tra un padre – il mitico «svedese» – e una figlia ribelle, balbuziente, prima aderente a una banda di terroristi e poi a una setta religiosa che obbliga a portare una mascherina sul viso per non uccidere i microrganismi che popolano l’aria. Il dialogo tra loro è impossibile.
Il padre cerca di capire dove ha sbagliato e cosa può fare per cambiare la situazione, la figlia risponde a colpi di machete: sei tu che mi hai messa al mondo, non io; sei tu che hai creato questa situazione, non io; sei tu che vi devi porre rimedio, non io. Così agisce infatti la critica sterile dell’adolescente rivoltoso. Il mondo degli adulti è falso e impuro e merita solo di essere insultato. Ma quale mondo è possibile in alternativa? E, soprattutto, come costruirlo? Qui il fondamentalismo adolescenziale si ritira. La sua critica risulta impotente perché non è in grado di generare davvero un mondo diverso. Può solo chiamarsi fuori dalle responsabilità che scarica integralmente sull’Altro ribadendo la sua innocenza incontaminata… Ma di qui a dare vita a un autentico cambiamento ce ne passa, perché non c’è cambiamento autentico se non attraverso il rispetto delle generazioni che ci hanno preceduto, se non attraverso una soggettivazione, una riconquista dell’eredità che viene dall’Altro.
Questo fantasma di purezza che ha origine in una fissazione adolescenziale della vita si trova anche a fondamento di tutte le leadership totalitarie (non di quella berlusconiana, che gioca invece sul potere di attrazione della trasgressione perversa della Legge). E sappiamo bene dove esso conduce. Ne abbiamo avuti esempi atroci nel Novecento. Lo psicoanalista, per vizio professionale, guarda sempre con sospetto chi si ritiene portatore di istanze di purificazione della società, chi agisce in nome del bene. Lo psicoanalista sa che chi si ritiene puro non ha tolleranza verso la diversità. La purga staliniana era la metafora fisiologica radicale di questa intolleranza. Lo stato mentale di un movimento o di un partito si misura sempre dal modo in cui sa accogliere la dissidenza interna. Sa tenerne conto, valorizzarla, integrarla o agisce solo tramite meccanismi espulsivi? Sa garantire il diritto di parola, di obiezione, di opinione personale oppure procede eliminando l’anomalia, estromettendola con la forza dal suo corpo?
Grillo non ha esitazioni da questo punto di vista. Egli applica il regolamento escludendo l’eccezione, secondo il più puro spirito collettivistico. Salvo ribadire la propria posizione di eccezione. Le sue enunciazioni sono singolari, non vengono discusse prima, mentre quelle dei suoi adepti devono essere vagliate scrupolosamente dalla democrazia assoluta della rete. Si proibisce che ciascuno parli e pensi con la propria testa, si esige una sorveglianza su ogni rappresentante eletto perché non si stacchi dalle decisioni condivise. Ma l’aggressione al manifesto con il quale alcuni intellettuali si rivolgevano con speranza al Movimento 5 Stelle chiedendo che dialogasse con il centrosinistra o la minaccia di revocare l’articolo 67 della Costituzione sulla libertà di pensiero dei nostri nuovi rappresentanti parlamentari sono state prese di posizione discusse democraticamente? Come può essere credibile in fatto di democrazia un movimento che attribuisce al suo leader la posizione di incarnare una eccezione assoluta? In questo senso profondo il Movimento 5 Stelle è antipolitico. Il culto demagogico della trasparenza assoluta nasconde questa presenza antidemocratica di una leadership incondizionata. Se l’azione politica è la pazienza della traduzione, se non ammette tempi brevi, non contempla l’agire di Uno solo, il nuovo leader inneggia all’antipolitica come possibilità di avere una sola lingua – la sua – che non è necessario tradurre, ma solo applicare. Come non vedere che c’è un paradosso evidente tra l’esigenza che nessuno parli a partire dalla sua testa e le consultazioni collettive che dovrebbero rendere trasparente ogni atto e condivisa ogni presa di posizione?
Il leader anarchico e sovrano resta esterno al movimento che ha fondato. È la sua eccezione assoluta; egli è nella posizione del padre dell’orda di cui parla Freud in Totem e tabù. Il culto del collettivo è un culto stalinista. Il soggetto è sacrificato, abolito, negato nella sua singolarità. Una volta avveniva nel nome della Causa della storia, oggi avviene per narcisismo egoico. L’amplificazione megalomaniaca dell’Io è propria di ogni dittatore. Ma anche la trasformazione dei soggetti in un «organo» anonimo non è una caratteristica propria di ogni regime autoritario? L’impossibilità di poter parlare a titolo personale? La cancellazione dei nomi propri? La psicoanalisi insegna che il diritto alla libertà della propria parola è insostituibile. È la ragione per la quale non ha mai avuto grande diffusione nei paesi senza lunghe tradizioni democratiche. Un leader degno di questo nome lavora alla sua successione dal momento dell’insediamento, mantenendo il movimento che rappresenta il più autonomo possibile dalla sua figura. Prepara cioè le condizioni di una trasmissione simbolica. Tutto ciò diventa di difficile soluzione quando un movimento non ha storia, non ha padri, ma un genitore vivo e vegeto che rivendica il diritto di proprietà sulla sua creatura. «Io ti ho fatta e io ti disfo», ammoniva una madre psicotica una mia paziente terrorizzata. Una leadership democratica deve sempre rispondere al criterio paterno di una responsabilità senza diritto di proprietà. Si pensi invece alla reazione di Casaleggio all’indomani delle elezioni, quando disse che se il movimento non avesse adottato certe sue indicazioni di comportamento dei neoeletti non avrebbe preteso nulla e se ne sarebbe andato. Ecco la minaccia più narcisistica possibile che un fondatore può fare: io starò con te finché tu mi assomiglierai, finché mi riprodurrai; se tu assumerai un tuo volto, una tua originalità, io non ne vorrò più sapere di te e me ne andrò.
Il pluralismo è temuto da Grillo come da tutti i leader autoritari. Il sogno di un consenso al cento per cento è un sintomo eloquente. Come abbiamo visto era il sogno degli uomini di Babele mentre sferravano il loro attacco delirante al cielo, la loro sfida a Dio: un solo popolo, una sola lingua. No, le cose umane non vanno così. Il Signore sparpaglia sulla faccia della terra quella moltitudine esaltata obbligandola alla differenza, al pluralismo delle lingue, esigendo la pazienza della traduzione. Esistono in democrazia più lingue e ciascuna ha diritto di manifestarsi e di essere ascoltata. Guai se il fantasma di purezza si realizzasse al cento per cento. Lo ricorda giustamente Roberto Esposito: una democrazia che si realizzasse compiutamente sarebbe morta, annullerebbe tutte le differenze delle lingue nel corpo compatto della «volontà generale», darebbe luogo a una tirannide.
La Costituzione all’art. 22 sancisce che “nessuno può essere privato, per motivi politici, del nome“. I nomignoli per gli avversari politici e il pubblico ludibrio sono “una forma primitiva del giustizialismo“. Come spiega Giacomo Papi, storpiare i nomi è un manganello linguistico, un modo per sminuire l’altro come essere umano: Il pubblico ludibrio (“Il Post”, 22 maggio 2014). Nel caso specifico italiano attuale, tuttavia, “la novità politica non è l’insulto in sé, ma la metodica ridicolizzazione dell’avversario, il ricorso allo sfottò come arma di propaganda, il connubio tra insulto e risata“.
IL PUBBLICO LUDIBRIO
di Giacomo Papi
Quando ho letto che Grillo voleva vivisezionare Dudù, d’istinto mi è venuto da ridere. Ma poi ho sentito il fragore di milioni di risate che rimbalzavano di monitor in monitor per milioni di case, ho avvertito la soddisfazione di una moltitudine che si coagulava ridendo intorno a una battuta violenta, e il sapore della risata è diventato sgradevole.
La prima associazione è stata con un’antica popolazione della Sardegna che aveva l’usanza (si dice) di uccidere a bastonate i vecchi ridendo. L’espressione «risata sardonica» deriverebbe da qui.
In epoca fenicia nel Mediterraneo occidentale (Baleari, Cartagine, Sardegna e Sicilia) si diffondono maschere ghignanti legate probabilmente al rituale del riso sardonico
Si discute molto in questi giorni dell’aggressività della politica. Michele Serra, per esempio, si chiede se la violenza verbale prepari o contenga quella fisica. Elenca gli insulti – «assassino, nazista, nano, ebete, morto, pazzo, ladro, servo» – omettendo elegantemente di specificare chi li abbia pronunciati.
Il punto, però, è un altro: ancora nessuno, mi sembra, ha precisato che la novità politica non è l’insulto in sé, ma la metodica ridicolizzazione dell’avversario, il ricorso allo sfottò come arma di propaganda, il connubio tra insulto e risata.
Additare qualcuno al pubblico ludibrio è da sempre un’arma efficace di propaganda politica. Ma le pernacchie e le caricature sono sempre state strumenti a disposizione di chi non ha rappresentanza, non la pratica fondante di una forza politica che aspira a diventare maggioranza. Se diventa di massa lo scherno non è più un’arma contro il potere, diventa un’arma del potere.
A essere inedito è il ricorso massivo allo scherno, la sua propagazione istantanea e digitale, è il fatto che la presa in giro sia diventata la cifra politica di un movimento votato da quasi 10 milioni di persone e guidato da un leader che in quest’arte è maestro.
È qui la differenza. Per restare a Michele Serra, tra il titolo di Cuore «Hanno la faccia come il culo» e il Vaffa Day di Beppe Grillo passa la stessa differenza che c’è tra satira e politica, tra critica e proposta, tra buffone e sovrano.
Il fatto nuovo oggi in Italia è che un buffone (nel senso di comico) voglia farsi re senza rinunciare a fare il buffone, attraverso il ricorso alla derisione sistematica dell’avversario politico.
Perfino quando nel 1988 diceva all’extraterrestre nella pubblicità dello Yomo, «te ne dò un cucchiaino se mi dici dove hai la bocca», Grillo sfotteva. I suoi monologhi (Grillo ha fatto sempre e solo monologhi) funzionano grazie a un dispositivo comico che è rimasto identico da allora: compattare il pubblico contro un bersaglio facendolo ridere. Creare seguaci e consenso attraverso il sarcasmo.
Nessuno sfotte in solitudine. Ha bisogno di un pubblico che assiste, ride, si dà di gomito e a volte si eccita al punto da cercare l’amore del capo sparando spiritosaggini ancora più violente delle sue, come ha fatto il povero Vito Crimi twittando sul prolasso. La risata di scherno ha il potere di formare il gruppo, di creare una comunità politica, perché addita un nemico comune, un capro espiatorio, un colpevole assoluto, e nel ridicolizzarlo lo fa apparire vulnerabile e disumanizzato.
Il ricorso ai nomignoli è la tecnica base. Si inventano soprannomi o si storpiano i nomi veri. È un manganello linguistico utilizzato regolarmente dai giornali di destra degli anni Cinquanta tipo il Candido e il Borghese, e da opinionisti come Emilio Fede e Marco Travaglio. Ma è la prima volta che lo fa un leader politico contro altri leader politici. All’apparenza la tecnica è innocua, perfino simpatica. In realtà non riconoscere all’altro neppure il suo nome è un modo per rifiutare la sua esistenza, per sminuirlo come essere umano.
Prendiamo i soprannomi usati da Grillo:
Psico-Nano
Rigor Montis
Frignero, principessa sul pisello
Brunettolo
Gargamella
Capitan Findus
Pinocchio
Renzie
Ebetino
Big Jim
Pupazzo
Apparentemente si tratta di appellativi scelti a caso per la loro forza comica In realtà hanno un tratto comune: sono tutti personaggi immaginari, usciti dalle favole o dalla pubblicità, dai telefilm o dai cartoni animati. Sono appellativi che trasformano gli avversari, appunto, in pupazzi. Li trasformano in bambole voodoo da infilzare con gli spilloni in modo da esorcizzare il male del mondo. Negano il loro carattere umano. Li trattano come cose inanimate.
Non so se la violenza verbale prepari o sia un surrogato dell’aggressione fisica, come si chiede Michele Serra. So che negare l’umanità dell’avversario non ha mai portato a niente di buono.
Prendiamo gli epiteti collettivi:
Zombie
Mummie
Fossili
Larve ben pagate
Salme
Morti
Walking dead
Quando dall’individuale si passa al generale, l’intenzione si fa palese. Gli avversari da pupazzi si trasformano in mostri, non sono più esseri umani, e soprattutto sono già morti, il che significa che simbolicamente sono già stati uccisi.
Non sto dicendo che Grillo inciti all’omicidio politico. Non lo fa. Sostengo che la sua comunicazione è già di per sé un rituale di assassinio politico, per fortuna simbolico. L’antico slogan degli anni settanta «una risata vi seppellirà» con Grillo smarrisce il suo carattere libertario, e viene coniugata al presente: «Questa risata vi ha già seppellito».
Che il riso possa scaturire da un istinto di morte è già stato detto. Sul fatto che possa scaturire da un sentimento di superiorità l’accordo è generale.
Aristotele: «La commedia è imitazione di persone moralmente inferiori».
Erodoto: «La risata connota un senso arrogante di superiorità».
Thomas Hobbes: «La passione di chi ride è l’improvvisa stima di sé che deriva dalla debolezza altrui».
Charles Baudelaire: «Il riso è satanico, dunque profondamente umano».
Henri Bergson: la risata provoca «qualcosa come un’anestesia momentanea del cuore».
Potrei continuare. E secondo Konrad Lorenz la risata è un’evoluzione rituale della minaccia.
Ma esiste anche un altro tipo di risata che non nasce da un sentimento di superiorità, ma scaturisce dal riconoscimento di una natura umana comune. Una risata che non esclude, ma include. Non è indispensabile che si rida di qualcun altro, della sua umiliazione o perché scivola su una buccia di banana. Si può ridere perché si riconoscono negli altri debolezze comuni. Non si ride di Stanlio e Ollio o di Charlot. Si ride perché le loro imperfezioni assomigliano a quelle di tutti.
In questi giorni si parla molto dell’energia del Movimento5Stelle, è una specie di coro pre-elettorale che si propaga. Gipi sul Post ha scritto che dopo avere visto lo spot dei Cinque stelle ha pensato che avevano già vinto: “Avevano vinto perché erano perfettamente assolutamente contemporanei, fatti di una pasta e dotati di un gusto che mi risulta incomprensibile e forse per questo tanto mi disturba”.
Non so se questa percezione di energia sia esagerata, so che non ha nulla di contemporaneo e che questa vitalità contiene in sè un nucleo di morte. Non bisogna scambiarla per il presente, tanto meno per il futuro, perché esprime il passato, la resa a istinti ancestrali , ai meccanismi della tribù.
È un istinto primitivo che torna a galla. La rinuncia a chiedere risposte complesse.
Non è un caso che le maschere ghignanti sardoniche siano identiche a quelle di Anonymous.
La maschera di Guy Fawkes, il membro più noto della Congiura delle polveri che il 5 novembre 1605 cercò di fare saltare in aria la Camera dei Lord a Londra. Resa celebre dal fumetto “V for Vendetta” di Alan Moore e David Lloyd e, nel 2005, dal film di James McTeigue, è diventata il simbolo del network di attivisti e hacker noti come Anonymous
Il pubblico ludibrio è la forma primitiva del giustizialismo.
Quando Grillo ha detto che bisognava vivisezionare Dudù, ho ascoltato la mia risata rimbalzare di casa in casa, di gola in gola, sulle labbra di milioni di antenati ghignanti davanti al computer“.
“La Stampa”, 11 febbraio 2015, p. 24
DA GARIBALDI A GRILLO: ONOREVOLI INSULTI
Un libro ripercorre la Storia dell’insolenza nella politica italiana dopo l’Unità. Nell’austero Parlamento subalpino risuonavano offese verbali simili a quelle dei giorni nostri
di Marcello Sorgi
Chi l’avrebbe mai detto che nell’austero Parlamento subalpino di piazza Carignano a Torino, il primo dell’Italia unita, dovessero risuonare insulti simili a quelli che in quasi due secoli di vita parlamentare è diventato abituale, purtroppo, ascoltare nell’aula di Montecitorio, e in tempi di Prima, Seconda e Terza Repubblica? E invece basta leggere “Storia dell’insolenza”, un prezioso saggio di Antonello Capurso (ed. Il settimo libro, pp. 172, € 16) per scoprirlo.
Urla, rumori, minacce, che il pudico servizio piemontese di resoconti parlamentari dell’epoca faticava ad annotare, nascondendoli dietro frasi di circostanza, come «segni d’impazienza», «disapprovazione», «bisbiglio per ilarità». Ma cosa appunto potesse provocare quelle reazioni, allargate spesso al pubblico delle tribune continuamente ammonito, si cercava di tacere. Come ad esempio lo scontro epico che si svolse il 18 aprile 1861 tra Cavour e Garibaldi,uno spettacolo così lontano dal contegno formale e dal linguaggio della cautela che la giovane nazione si era assegnata, da spingere Vittorio Emanuele a confidare a Urbano Rattazzi che se non fosse stato re, ma soltanto duca, avrebbe sfidato Garibaldi a duello: «Ma come re non posso chiedere certe soddisfazioni».
L’Eroe dei Due Mondi contro Cavour
Dell’inquietudine di Garibaldi per il mancato riconoscimento, che imputava a Cavour, dei meriti dei suoi Mille e dell’esercito meridionale che aveva consegnato il Sud del Paese alla monarchia sabauda, il governo torinese era avvertito, ma non aveva dato troppa importanza alle voci che attribuivano all’Eroe dei Due Mondi una valutazione molto negativa della situazione. Il 30 marzo, ricevendo in Sardegna una delegazione operaia, Garibaldi aveva parlato di una «turba di lacchè» attorno a Cavour. Aggiungendo che Vittorio Emanuele era «circondato da un’atmosfera corrotta», ciò che aveva fatto infuriare il re.
Non ricevendo alcun segno d’attenzione da parte del governo, l’Eroe aveva deciso di andare a dire le stesse cose in Parlamento. Così, deciso allo scontro, il 18 aprile era piombato nell’aula di Palazzo Carignano, vestito «in costume stranissimo», com’era stato notato, poncho grigio e camicia rossa, ed era stato accolto con applausi scroscianti dalle tribune.Di lì a poco aveva accusato il governo di voler provocare «una guerra fratricida» tra militari del Nord e del Sud per il diverso trattamento riconosciuto ai primi a scapito dei secondi.Offese, proteste, sospensione della seduta, durissima replica da parte del conte Camillo Benso. Il Parlamento in cui si sarebbe dovuto adoperare il francese, la lingua della diplomazia, per dare maggiore solennità alle decisioni formali, in questo modo perdeva la sua verginità.
Né si trattava di una caduta di stile occasionale. Pochi mesi dopo, infatti, morto Cavour e salito al suo posto Bettino Ricasoli, lo ieratico leader della Destra storica che era solito indossare sempre guanti neri, era toccato a lui fronteggiare di nuovo l’irruenza di Garibaldi. Una scena sconfortante che aveva spinto il deputato Angelo Brofferio a commentare: «L’Italia è da compiangere perché ha due capi, Garibaldi e Ricasoli, l’uno senza testa, l’altro senza testicoli».
Una statistica sconfortante
Un anno dopo, nel 1862, nel suo libro I moribondi di Palazzo Carignano, una specie di trattatelo di antipolitica ante litteram, Ferdinando Petrucci della Gattina pubblicava una disarmante statistica sulla composizione del Parlamento: «Su 438 deputati vi sono 2 principi, 3 duchi, 29 conti, 23 marchesi, 26 baroni, 50 commendatori o gran croci, 117 cavalieri di cui 3 della Legion d’onore…», e così via fino a concludere «non si dirà giammai per certo che il nostro è un Parlamento democratico! Vi è di tutto, il popolo eccetto». Al libello di Petrucci seguirà poco dopo un altrettanto famoso pamphlet del cattolico Felice Borri, difensore del potere temporale dei Papi, dall’eloquente titolo “Storia dei ladri del Regno d’Italia”.
Con Mussolini il salto di qualità
Se queste erano le premesse della vita politica e dei comportamenti parlamentari nella neonata Italia riunificata sotto i Savoia, non c’è da meravigliarsi del livello di degrado toccato in quella repubblicana, prima e dopo l’avvento dell’epoca degli insulti via etere, nella stagione in cui la vita politica s’è trasferita in tv e nei talk-show e deputati e senatori non distinguono più quando si trovano davanti alle telecamere oppure no. Un salto di qualità decisivo verrà ovviamente con il fascismo e con Mussolini, che per prendere le distanze dal sistema politico che vuole abbattere parlerà di «gruppo di uomini sifilizzati di parlamentarismo», riferendosi alla «malfamata tribù giolittiana».
Andando avanti, negli Anni 60 Moro si lascia scivolare addosso ogni genere di insulto. Almirante lo definisce «ipocrita, fariseo e amante dei cimiteri». Pajetta apostrofa i democristiani «cornutacci e forchettoni». Il monarchico Covelli accusa di essere «un vile»LaMalfa, che replica: «Io la disprezzo». Nel 1984 succede di tutto durante la discussione sulla legge sulla violenza sessuale, volano parole come «puttane», «pederasti», la presidente Iotti è costretta a espellere deputati che fanno gesti osceni.Nel 1996 l’Udc D’Onofrio accuserà Dini di aver formato un «governo transessuale»; e poco dopo Sgarbi, il più creativo di ogni tempo in fatto di insulti, descriverà Mario Segni come un «amante ideale, perché cambia sempre posizione».
L’escalation del Picconatore
Dire chi ha battuto il record della storia dell’insolenza è impossibile. Ma certo, nell’escalation che mai si ferma, due pietre miliari spettano al «picconatore» Cossiga e a Beppe Grillo. Per il Presidente che demolì la Prima Repubblica, De Mita era «un bugiardo e un gradasso», Cirino Pomicino «un analfabeta», Zolla «un analfabeta di ritorno» e Leoluca Orlando «uno sbandato mal consigliato da un prete fanatico che crede di vivere nel Paraguay del Seicento». Per il fondatore del Movimento 5 Stelle, che cucì addosso a Berlusconi il soprannome di «psiconano», non basterebbe un intero libro. «Anno nuovo vita nuova», sintetizza Altan, in una delle sue caustiche vignette, il problema dell’educazione da ritrovare. «Rispetto per quei delinquenti degli avversari e quegli stronzi degli alleati».
“Corriere della Sera”, 1 marzo 2015, QUI
IL TURPILOQUIO COME ARMA POLITICA
di Aldo Cazzullo
Pare un imitatore di Grillo: per il turpiloquio, ancora più fastidioso, e i continui vaffa; per il collaudato schema «noi» contro «loro», basso contro alto, piccoli contro grandi, artigiani contro banchieri; per la commistione destra-sinistra, CasaPound-don Milani. E per lo splendido isolamento, «non abbiamo bisogno di alleati, i nostri alleati sono sessanta milioni di italiani»; ma allora come conta Salvini di vincere le elezioni e realizzare il Paese meraviglioso in cui tutti pagano il 15% di tasse e sono gli svizzeri a portare i soldi?
Il turpiloquio è ancora più fastidioso proprio perché Salvini non è Grillo, cioè un comico. Il suo tono, anche quando vorrebbe essere ironico, è greve, bieco, vagamente minaccioso. Il linguaggio è a volte tecnicamente neofascista, come quando parla di «zecche» e «infami», a volte tecnicamente neogrillino: «Questo sfortunato Paese…», «ci stanno rubando il futuro…». Sugli immigrati i due leader la pensano quasi allo stesso modo, di suo il leghista aggiunge una facile invettiva contro i rom, invitati sotto la minaccia delle ruspe ad «andare a fare i rom da un’altra parte», suscitando il frenetico entusiasmo delle camicie nere romane nella piazza che fu di Giorgio Almirante (il quale per i rom aveva simpatia: Zingari si intitolava un film romantico diretto dal padre Mario Almirante, protagonista la cugina Italia Almirante).
Il mondo di Salvini è diviso nelle due parti già individuate da Grillo a San Giovanni. Di là, l’Europa e il suo servo sciocco Renzi, le grandi banche, Il Sole 24 Ore, Marchionne, i grandi giornali, la Rai, Equitalia, i falsi invalidi, la grande finanza, l’Agenzia delle Entrate, «quelli che hanno la villa a Cortina, mandano i figli alla scuola privata, hanno il portafoglio pieno a sinistra», e «quelli che hanno letto un sacco di libri ma non li hanno capiti»; di qua, «quelli che lavorano sedici ore al giorno», «quelli che si alzano alle quattro del mattino», «quelli che tirano su la saracinesca all’alba e la tirano giù la sera» – categorie che esistono ma a cui non appartiene Salvini -, «i derubati dallo Stato», i veri invalidi, le banche popolari «che Renzi si vuole fottere», quelli che sparano ai rapinatori «perché se entri in casa mia in piedi devi sapere che puoi uscirne steso», e «noi che di libri ne abbiamo letti solo due, ma li abbiamo capiti». Le categorie amiche avranno protezione sociale; agli altri, «calci in culo», «un mazzo così» e analoghi simpatici destini.
La confusione ideologica è massima. «Chi non salta è comunista», «i professori di sinistra hanno insegnato tutto dei fenici e nulla delle foibe»; però al pantheon leghista sono annessi don Milani, Mauro Corona, Marco Paolini (Salvini chiama Mauro pure lui) e Oriana Fallaci, «non solo la Fallaci de La rabbia e l’orgoglio ma pure quella del libro più bello che abbia mai letto, Un uomo, sulla storia di Alekos Panagulis»; poco importa che Panagulis fosse un oppositore di sinistra (sia pure non comunista) ai colonnelli greci graditi a CasaPound, e che la Fallaci definisse Bossi «il becero con la camicia verde e la cravatta verde che non sa nemmeno quali siano i colori della bandiera italiana». Salvini invece ha il polsino tricolore e indossa una felpa per chiedere la liberazione dei marò, ma si rifiuta di dire «Italia», meglio «le Italie»: veneti e sardi, lombardi e salentini devono avere «libera determinazione», insomma possono andarsene in qualsiasi momento, non si sa bene dove. Invece del «Va’ pensiero», musica da kolossal hollywoodiano; il posto d’onore a fianco del capo non è per Bossi, salito sul palco verso la fine a fare pateticamente le corna a Maroni nelle foto, ma per Buonanno, ex missino come Borghezio.
Intendiamoci: in piazza del Popolo sono rappresentate paure e inquietudini autentiche. E in qualche passaggio è difficile dissentire da Salvini, ad esempio quando ricorda che la natalità è crollata alla quota del 1861, e «un popolo che non fa figli muore». Ma subito il livello di demagogia risale oltre il sopportabile, quando sono messi in mezzo prima i fanti della Grande Guerra caduti per proteggere i confini oggi indifesi, poi il Papa: «Cosa gliene frega al Vaticano se le prostitute esercitano per strada o in casa?». Chiusa in linea con il nuovo corso nazionale e antieuropeo: «grazie Roma», «smonteremo Bruxelles».
Di strategia politica si è parlato poco; e non solo perché la priorità era scaldare la piazza. A Salvini interessa presidiare la destra, non tessere alleanze; far saltare il sistema, non governarlo. Ieri ha confermato che la Lega è in salute; ma non ha dissipato l’impressione che, se l’opposizione è questa, l’odiato Renzi resterà «sulla sua comoda poltrona» ancora a lungo.
“Corriere delle Migrazioni”, 8 marzo 2015, QUI
DEL PARLAR MALE, ANCHE A SINISTRA
di Annamaria Rivera
Per ciò che riguarda migrazioni e diritti dei migranti, razzismo e antirazzismo, il discorso pubblico italiano, anche nelle sue varianti non-razziste, spesso sembra atteggiarsi come se ogni volta fosse la prima volta: gli antefatti e lo sviluppo di questo o quell’accadimento, questo o quel problema, questa o quella rivendicazione, questo o quel concetto sono semplicemente rimossi.
Una tale smemoratezza non riguarda solo le retoriche pubbliche maggioritarie, ma talvolta influenza l’atteggiamento e il discorso delle minoranze attive, riflettendosi anche nel linguaggio e nel lessico, influenzati dalla vulgata mediatica e perfino dal gergo del senso comune.
Mentre li credevamo archiviati grazie a un lungo lavoro critico, tornano in auge formule e vocaboli legati a schemi interpretativi, anche spontanei, del tutto infondati. Non potendo farne l’intero catalogo, ci soffermiamo solo su alcuni.
Razza-razziale
Il razzismo è anzitutto un’ideologia, quindi una semantica: è costituito da parole, nozioni, concetti. Sicché l’analisi critica, la decostruzione e la denuncia del sistema-razzismo hanno obbligatoriamente un versante lessicale e semantico. Così se tu parli di discriminazione razziale, invece che razzista, puoi finire inconsapevolmente per legittimare la nozione e il paradigma della razza, suggerendo l’idea che a essere discriminate siano persone differenti per ‘razza’.
A incorrere in sbavature lessicali di tal genere possono essere anche locutori antirazzisti, per di più colti; perfino istituzioni e associazioni deputate a contrastare il razzismo o addirittura a promuovere il rispetto di codici deontologici nel campo dell’informazione. Questo appare oggi tanto più paradossale se si pensa che pure in Italia, per iniziativa di un gruppo di antropologi-biologi, poi anche di antropologi culturali, è in corso una campagna per la cancellazione di ‘razza’ dalla Costituzione e dai codici .
Etnia-etnico
Frequente, anche in ambienti antirazzisti, è l’abuso di locuzioni quali ‘società multietnica’, ‘quartiere multietnico’, ‘corteo multietnico’… Sebbene qui usate in senso intenzionalmente positivo, formule di tal genere rinviano pur sempre a ‘etnia’: una nozione assai controversa, poiché basata sull’idea che esistano gruppi umani fondati su qualche principio ancestrale, su qualche identità originaria (Cfr R. Gallissot, M. Kilani, A. Rivera, L’imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari 2012).
Nei contesti discorsivi mainstream, ‘etnici’ sono sempre gli altri, i gruppi considerati particolari e differenti dalla società maggioritaria, ritenuta normale, generale, universale. Non è raro che ‘etnia’ sia adoperata, in riferimento alle minoranze, ai rom, alle popolazioni di origine immigrata, come sostituto eufemistico di ‘razza’. Tanto che perfino nella cronaca della migliore stampa italiana è possibile imbattersi in locuzioni paradossali quali individui di etnia latinoamericana o addirittura di etnia cinese; mentre mai ci è capitato di leggere di etnia europea o di etnia nordamericana.
In ogni caso, che sia per pregiudizio o intento discriminatorio, per incompetenza o sciatteria, quando si tratta di qualificare cittadine/i di origine immigrata o appartenenti a minoranze sembra non valere il criterio neutro, o almeno simmetrico, della nazionalità.
Guerra tra poveri
E’ una delle retoriche più abusate, anche a sinistra, perfino in quella che si pretende colta. Di solito la si adopera in riferimento a due categorie di presunti belligeranti, immaginati come simmetrici, una delle quali è costituita da qualche collettività di migranti o di rom.
L’abuso di questa formula è indizio di un tabù o di una rimozione: si ha difficoltà ad ammettere che il razzismo possa allignare tra le classi subalterne, così da scatenare guerre contro i più poveri. Guerre asimmetriche, non solo perché di solito gli aggressori sono i nazionali, ma anche perché essi, per quanto disagiati possano essere, godono pur sempre del piccolo privilegio della cittadinanza italiana, che conferisce loro qualche diritto in più.
Un tale razzismo – che nella letteratura sociologica è detto “ordinario” o “dei piccoli bianchi” – spesso attecchisce tra coloro che patiscono qualche forma di disagio sociale e/o di marginalità anche spaziale. Favorito da dissennate politiche abitative, urbanistiche, più in generale sociali, spesso è anche fomentato ad arte dagli imprenditori politici del razzismo.
A volte, la formula passe-partout di ‘guerra tra poveri’ non ha la minima base che ne giustifichi l’utilizzo, come nel caso dei ripetuti assalti armati al Centro per rifugiati di Viale Morandi, nel sobborgo romano di Tor Sapienza, a novembre del 2014. Il tentato pogrom contro adolescenti fuggiti da guerre e altre catastrofi fu spacciato come espressione spontanea della rabbia dei residenti esasperati dal ‘degrado’, quindi come un episodio della ‘guerra tra poveri’ . In realtà, a dirigere gli assalti, cui partecipò un numero di residenti limitato, fu una squadraccia di ‘fascisti del Terzo Millennio’, a loro volta probabili esecutori, di mandanti legati a Mafia Capitale.
Poco tempo prima, di ‘guerra tra poveri’ si era parlato, anche a sinistra, a proposito di un crimine particolarmente odioso, accaduto il 18 settembre 2014 alla Marranella, quartiere romano del Pigneto-Tor Pignattara: il massacro a calci e pugni di Muhammad Shahzad Khan, un pakistano di ventotto anni, mite e sventurato, per mano di un bullo di quartiere, un diciassettenne romano, istigato dal padre fascista.
Numerosi sono i precedenti di questo pigro schema interpretativo. Che di volta in volta è stato applicato ai pogrom contro i rom di Scampia (2000) e di Ponticelli (2008), istigati dalla camorra e da interessi speculativi; alla strage di camorra di Castelvolturno (2008); ai gravi fatti di Rosarno (2010), anch’essi fomentati da interessi mafioso-padronali.
Tutto ciò è indizio di un’avversione crescente per le interpretazioni complesse, favorita dal chiacchiericcio socialmediale, che a sua volta contribuisce al crescente conformismo che caratterizza il dibattito pubblico. Il razzismo, si sa, poggia su una montagna costituita anche da cattive parole. Decostruirle e abbandonarle non è fare esercizio astratto di ‘politicamente corretto’ (sebbene quest’ultimo non sia affatto disprezzabile), bensì intaccarne il sistema ideologico e semantico.