“Tintin in Congo” non è razzista

«Dato il contesto dell’epoca, Hergé non poteva essere motivato da un desiderio razzista». Lo ha stabilito la Corte di Appello della magistratura belga (“HuffPost.it”, 5 dic. 2012: QUI).
Ma il razzismo non è sinonimo di cattiveria o di malvagità, il razzismo è qualcosa di più semplice: è il pensare che esistano le razze umane. Il corollario di tale ideologia, com’è noto, è che gli esseri umani e le società si trovino su una scala gerarchica di tipo evolutivo. Entrambe le convinzioni (l’esistenza delle razze e l’evoluzionismo sociale) sono grossolani errori storici e antropologici, oltre che una vergogna politica, ma nonostante la totale smentita di qualsiasi presupposto scientifico del razzismo, la sua presenza e la sua influenza nel contesto socio-politico attuale sono ancora cospicue. Evidentemente,  questo ci impone di affrontare e risolvere una questione urgente: seppure all’epoca della prima edizione del fumetto (1930/31) l’autore, l’editore, i lettori e così via non ne avessero avuto consapevolezza (davvero? mah…), oggi che facciamo? Continuiamo a commercializzare – dunque a reiterare – rappresentazioni razziste dell’Altro? Perché si, tecnicamente sono razziste.

Insomma, ecco un’altra sentenza di cui attendere le motivazioni per discuterne in modo appropriato.

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Studio il rapporto tra gli esseri umani e i loro luoghi, soprattutto quando si tratta di luoghi "a rischio"
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Una risposta a “Tintin in Congo” non è razzista

  1. giogg ha detto:

    Tramite Scribd è possibile consultare almeno due versioni online del fumetto incriminato:
    1) in francese (a colori)
    2) in inglese (in bianco/nero)
    Ad un altro indirizzo, però, è presente una copia in pdf che è possibile scaricare (versione in inglese, bianco/nero): QUI (cliccate “download”, poi inserite il “captcha”, cliccate ancora “download”)
    – – –
    Sul legame tra “razza” e “razzismo” c’è un’ampia letteratura antropologica, ma per brevità consiglio questo articolo di Adriano Favole: La razza? Un prodotto del razzismo (“Corriere della Sera”, 1 aprile 2012): QUI (html) o QUI (pdf).

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