Il bombardamento dovrebbe essere inserito nelle liste dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità: è un abominio, un orrore talmente orrendo che produce danni anche nel ricordo, quando, con enorme beffa della realtà storica, riesce a tramutarsi in qualcos’altro, magari in qualcosa di tollerabile o sopportabile [QUI]. Ma il bombardamento è semplicemente infamia e lo è sempre, ovunque e da chiunque venga praticato. Lo è sia quando è perpetuato dai nazisti in Polonia, sia quando è effettuato dagli alleati a Dresda. I misconosciuti bombardamenti angloamericani di Battipaglia, Ponticelli, Foggia e Cassino a cosa servirono? Le ecatombi di Hiroshima e Nagasaki sono passate addirittura come “un male necessario”. E, più recentemente, i bombardamenti della Nato a Falluja o sulle città del Kosovo, per di più con armi al fosforo e all’uranio impoverito, sono stati una forma di “esportazione della democrazia”.
E’ così che siamo arrivati a ieri, all’accerchiamento di Gaza con carri armati e navi da guerra, mentre piovevano bombe israeliane sulle case palestinesi. E tutto questo per “eliminare” un capo di Hamas, come con cinico trionfalismo ha raccontato la stessa IDF su Twitter.
La brutalità alimenta se stessa e quando supera un certo limite non ha più bisogno nemmeno di una ragione: esiste e basta, col rischio concreto di diventare ingovernabile e, in una certa misura, “autonoma”. Il male si impossessa degli uomini e non c’è più etica, né razionalità, nessuna norma, né pudore. Si attiva quella che Gunther Anders chiama «cecità dell’apocalisse» [QUI], ovvero quella condizione per cui il nostro potere di azione è infinitamente superiore alla nostra capacità di sentire e di immaginare [QUI]. Per fermare la guerra dovrebbero cambiare tante cose, ovviamente, ma innanzitutto dovrebbero cessare la paura (reciproca) e l’odio, cioè quella forma di male (un male spesso banale) di cui sono portatori certi governanti. Come scriveva Alexander Langer, abbiamo estrema necessità di «“traditori della compattezza etnica”, ma non “transfughi”» [QUI]: occorrono, cioè, «disertori del fronte etnico», persone che si chiamino fuori dalla compattezza degli schieramenti, che si rifiutino di partecipare alle iniziative belliche, che si estraniino dalle emozioni della guerra.
A mio avviso, nel caso specifico, questa strada è percorribile sostenendo prima di tutto i pacifisti israeliani, sempre più soli, sempre più marginalizzati dentro e fuori il loro Paese (abitualmente definiti “traditori“), ma anche unici portatori di un pensiero realmente alternativo. Sono loro i “disertori” di cui abbiamo bisogno, così da dare più forza agli altri “disertori” che si trovano sul fronte opposto, quotidianamente schiacciati dalla durezza interna del filonazismo di Hamas.
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L’accusa di compiere azioni “naziste” è molto frequente ed è riferita soprattutto ad Israele, che con la sua potenza militare compie spesso degli eccidi tremendi. Sono contro l’uso di quell’appellativo per due ragioni. Innanzitutto trovo che sia un errore strategico, perché svilisce e banalizza il significato di quel termine e fa il gioco dei guerrafondai (di tutti gli schieramenti contrapposti). In secondo luogo, ritengo che sia un insulto, e questo non perché Israele sia “intoccabile” o perché le sue origini affondino (anche) nella Shoah, ma per la sola ragione che si tratta di una falsità storica: dare del nazista ad Israele significa associare, equiparare, sovrapporre realtà, logiche e pratiche che non hanno nulla a che vedere tra loro.
Diverso, invece, è il discorso sull’ideologia filonazista riscontrabile in numerosi partiti politici di tutto il mondo, soprattutto quando è esplicitamente dichiarata, nonché perpetuata. Tra le organizzazioni che si rifanno a concetti e a scopi nazisti e che si esprimono in termini siffatti c’è Hamas, che per di più è un partito di governo (della Striscia di Gaza). Nel caso di Hamas, dimostrarne il filonazismo è semplice: basta leggere il suo statuto. E a questo proposito copio e incollo un articolo di qualche tempo fa:
“Corriere della Sera”, 30 gennaio 2006, QUI
«IL NEMICO SI ESPANDE IN BASE AI PROTOCOLLI»
di Alessandra Coppola
Se si dovesse prendere alla lettera lo Statuto, non ci sarebbero molti margini di trattativa con Hamas. «Il Movimento di Resistenza islamico si sforza di innalzare la bandiera di Allah su ogni metro quadrato della terra di Palestina» (art.6). «Nessuno ha il diritto di disporre o di cedere anche un singolo pezzo di essa» (art. 11). Non c’è spazio per conferenze di pace, tavoli di trattativa, ipotesi di compromesso: «L’unica soluzione è la jihad», la guerra santa (art.13). Elaborato nel 1988, a pochi mesi dalla nascita del movimento a Gaza e in Cisgiordania, lo Statuto di Hamas è un concentrato di islam radicale e fede antisionista. La liberazione della Palestina come causa non solo nazionalista, ma soprattutto religiosa; la solidarietà musulmana; il rispetto per l’Olp («comprende i nostri padri, fratelli, amici…») nel totale rifiuto, però, dell’«ideologia laica». In più un frullato delle peggiori leggende antisemite. Articolo 22: «Il nemico ha programmato per lungo tempo quanto poi è riuscito a compiere. Ha accumulato un’enorme ricchezza materiale, con cui ha preso il controllo dei mezzi di comunicazione del mondo…». Di più: «Ha fatto scoppiare rivoluzioni», dalla Francia alla Russia. Addirittura ha organizzato Prima e Seconda Guerra mondiale. «Con il denaro ha formato organizzazioni segrete: la massoneria, il Rotary Club, i Lions…»; «sostiene il traffico di droga e di alcol» (art.28). E non intende fermarsi. Articolo 32: «Lo schema sionista cercherà di espandersi dal Nilo all’Eufrate. Questo è il piano delineato nei Protocolli degli Anziani di Sion» , il clamoroso falso che ha sostenuto l’antisemitismo nazista.
La necessità di “talpe” evocata da Spinelli mi fa tornare in mente il bisogno di «“traditori della compattezza etnica”, ma non “transfughi”» di cui parlava Alex Langer. Se per superare le guerre “civili” (o il razzismo serpeggiante) occorrono «disertori del fronte etnico», persone che si chiamino fuori dalla compattezza degli schieramenti, così credo che lo stesso meccanismo sia necessario per costruire, da un lato, una vera indipendenza europea e, dall’altro, un rapporto più equilibrato con gli «altri» (l’Europa è ancora intollerabilmente arrogante con gli «altri», come dimostra il dirottamento/sequestro del presidente boliviano Morales).
Barbara Spinelli, “Salvate i soldati della libertà“, «Repubblica», 3 luglio 2013, QUI:
«Alcuni li chiamano talpe, o peggio spie. Altri evocano le gole profonde che negli anni ’70 permisero ai giornali di scoperchiare il Watergate. Sono i tecnici dei servizi segreti o i soldati o gli impiegati che rivelano, sui giornali, le illegalità commesse dalle proprie strutture di comando, dunque dallo Stato. […] Chiamiamoli […] con il nome che Snowden e Manning danno a se stessi: whistleblower, cioè coloro che lavorando per un servizio o una ditta non smettono di sentirsi cittadini democratici e soffiano il fischietto, come l’arbitro in una partita, se in casa scorgono misfatti. La costituzione è per loro più importante delle leggi d’appartenenza al gruppo. Sono i cani da guardia delle democrazie, e somigliano ai rivoluzionari d’un tempo. Vogliono trasformare il mondo, rischiano tutto. […] L’era dell’informazione sveglia il mondo libero, e non libero. Grazie a Snowden, e a giornalisti come Greenwald, l’Europa s’accorge di essere terra di conquista per l’America, trattata come Mosca trattava i paesi satelliti. […] È su se stessa che l’Europa deve gettare uno sguardo indagatore, trasformatore, se vuol svegliarsi dal sonno che l’imprigiona in un atlantismo degenerato in dogma, e che la condanna a restare sempre minorenne. […]».
Ieri, 3 luglio 2013, anniversario della morte di Alex Langer, Radio Tre ha trasmesso una trasmissione di 30′ a lui dedicata: AUDIO.
Ieri il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha citato Alexander Langer in un suo discorso alla Camera dei Deputati. E’ una buona cosa, non era mai successo che un Premier si riferisse a Langer. Però, avverte Marina Terragni, «si fa presto a dire Langer. Dire Langer e portarlo nella propria politica comporta l’impegno a un cambio radicale di paradigma: è questo l’essenziale della sua luminosa profezia. Ma può anche essere che siamo finalmente pronti ad assumerla e a darle corpo: lui per primo ci avrebbe invitati ad avere fiducia».