Si, sono un conservatore

«Siamo all’inizio di un’era le cui costruzioni ci fanno molta più paura delle rovine» (Rebecca Solnit, *)

Leggo “Contro l’architettura”, l’ultimo acuto libro di Franco La Cecla e mi ritrovo a studiarlo. Sottolineo frasi, incrocio pagine diverse, mi soffermo su determinati concetti. Procedo di poche pagine alla volta perché ad ogni capoverso scorrono davanti ai miei occhi angoli di città, quartieri che ho osservato, spazi che ho percorso. In qualche punto mi sembra di riascoltare alcune voci incontrate durante quelle visite, in altri rimango in silenzio a raffigurarmi il vuoto di certi progetti che mi capita di sfogliare.
Evidenzio: «Le città sono soprattutto inconscio», e subito vedo Napoli nel suo caos vitale fatto di allegria e nervosismo. Il suo impulso è mutevole, coniuga confusione e ritmo in un movimento che dal marciapiede esonda in strada. Napoli ha la personalità capricciosa di chi è in pieno fermento onirico, un’immaginazione che di volta in volta assume sfumature da sogno o da incubo, da abbraccio o da stritolamento.
Trascrivo: «non c’è distinzione tra le descrizioni di paesaggi, le geografie urbane e non e le storie vissute», e visualizzo degli scorci intorno a casa mia in cui ho incontrato anziane contadine coi pesi in equilibrio sulla testa. Nel loro dialetto liquido mi hanno trasmesso la fierezza della vecchia processione del santo, e mentre mi raccontavano le acrobazie per portar la statua tra le ripide rampe dei poderi aggrappati alla collina, iniziavo a capire che questo territorio celebrato da secoli per la sua armonia e bellezza è tale perché sono (state) caparbie e coerenti le persone che finora l’hanno abitato.
Mi attardo su: «che ne sa lui di tutte queste città, che ne sa di come la gente ci vive e dà significato ai propri spazi?», e m’immagino la casa del progettista dei “Carrarmati” del rione Toiano di Pozzuoli. Ricordo una lezione di Amalia Signorelli sull’incontro-scontro tra la visione dell’architetto e la cultura di chi è costretto ad abitare in periferia. Quel giorno il termine “degrado” mi suonò intollerabilmente etnocentrico e, d’un tratto, tutte le superfetazioni, le verande abusive, le tende multicolore di quei terribili palazzoni mi apparvero come una forma di legittimo appaesamento, di resistenza all’anonimato imposto.
La lettura di questo libro mi induce a continui flash esperienziali, ma rigo dopo rigo sento emergere un nuovo pensiero; ad ogni capoverso si delinea più chiaramente e alla fine prende le parole dello stesso La Cecla: «Sarebbe bello […] se gli architetti avessero voglia di essere una classe di cultori della bellezza delle città e dell’abitarvi, se fossero gli intellettuali che si sdegnano per la mediocrità, la vetrinizzazione, la plastificazione della vita quotidiana».
Tre anni fa, dopo aver letto il nuovo PUC della mia città, mi domandavo: «Sorrento sarà sempre Sorrento?». Oggi il quesito che mi pongo è: «La Penisola Sorrentina sarà sempre la Penisola Sorrentina?».
Attualmente, nella cosiddetta Contrada delle Sirene, sono in corso tali e tante trasformazioni che è possibile fare un parallelo con quanto accadde nei decenni centrali dell’Ottocento, quando alcune profonde azioni modificarono radicalmente la percezione del territorio da parte degli abitanti locali.
Oggi è in atto una colata di parcheggi interrati che sta riducendo ad un gruviera il sottosuolo della Penisola (e ogni volta che si incappa in un reperto archeologico si può immaginare la direzione degli improperi) [*]. Ancora una sola sottile parete di roccia ostruisce la megagalleria sotto il monte Faito che tra qualche mese faciliterà il collegamento con Castellammare di Stabia (ma ho forti dubbi che qualcuno abbia pensato a come gestire l’aumento di traffico che ne deriverà) [*]. Col pretesto della messa in sicurezza, ogni caletta lungo la costa sta diventando un porto, e – soffermandomi su uno di tali programmi – mi chiedo la ragione di una “piscina water front”, di un parcheggio interrato di tre piani, di una torre di controllo in stile aeroporto nel pieno centro di un borgo che per secoli è stato di pescatori [*].
Come ho scritto qualche giorno fa sul Forum di VirtualSorrento, mi sento come su una mongolfiera, sorvolo la mia Penisola e mi sembra moribonda. Noto che l’incuria verso gli agrumeti continua baldanzosa, nella mancanza assoluta di una qualsiasi strategia che li difenda dalla definitiva cancellazione (eppure proposte non ne mancano: qui). Chissà, forse saremo costretti a veder delocalizzare in Cina anche la produzione di limoncello, ma di certo il patrimonio del «più bel museo di provincia d’Italia», il Museo Correale di Terranova, tra due mesi rischia di essere trasferito altrove perché la struttura è in dissesto economico e l’amministrazione comunale sorrentina ha tagliato il suo già irrisorio contributo annuo [*+*]. Nel contempo i ruderi archeologici di straordinarie ville d’età imperiale sono da anni lasciate all’incuria e al vandalismo, mentre agli annunci di piani di tutela (e mi piacerebbe conoscerne i dettagli) non hanno ancora fatto seguito le relative azioni concrete [*].
Quel che non manca sono gli eventi, gli spettacoli. Se ne organizzano in gran quantità, ma nessuno ha lo sguardo lungo del progetto duraturo, del bene che va sedimentandosi. Ne deriva un’immagine del territorio brandizzata, illusoria, effimera. E anche in questo caso il riscontro è nelle trasformazioni paesaggistiche: si affida ad un’archistar il progetto d’un “Centro Fieristico Polifunzionale internazionale”, ad un altro lo studio sul colore e sull’illuminazione artistica del centro storico e, infine, ad una società appartenente ad un gruppo automobilistico il piano per “Sorrento Città Pedonale” [*].
La ciliegina è data dal progetto di una funivia che colleghi Sorrento con le colline retrostanti, un’opera che non si è mancato di paragonare ad «una meravigliosa ruota panoramica con vista su uno degli scenari più belli del mondo» [*], ma di cui io non riesco a comprendere l’utilità, oltre che l’estetica.
Oggi mi domando quale idea di Penisola avessero due secoli fa gli amministratori locali che decisero l’apertura di strade, lo sventramento di insulae, l’abbattimento di monumenti, la colmatura di valloni… Certamente il loro modello di modernizzazione era contestuale al clima culturale del tempo e non li si può giudicare col metro dell’ecoconsapevolezza odierna, ma adesso – con le tonnellate di libri sul concetto di “sviluppo” – gli eredi di quegli amministratori, quale immagine hanno della Penisola Sorrentina? Cosa vedono intorno a loro tra 5 anni, tra 10, tra 20? Decine di piloni tra gli uliveti terrazzati delle colline sorrentine sono un progresso? Non muovere un dito per salvare un museo è agire per allungare la stagione turistica? Realizzare strade a scorrimento veloce e consentire decine di parcheggi multipiano è un modo per pedonalizzare la città? E gli architetti a cui vengono affidati tali incarichi sentono fino in fondo il peso e la responsabilità dei loro disegni in autocad? Proprio chi gode di un nome che è anche una firma di tendenza, avverte che certe scelte sono pura messa in scena, enormi cartelloni pubblicitari, marketing per lo spettacolo di un’identità trasformata in t-shirt?

«Per me […] la scrittura è la forma più onesta nei confronti della città e dello spazio, perché la scrittura non uccide la magmaticità del presente, non presume di inventarlo, non pretende di esaurirlo» (Franco La Cecla)

– – –

«Le posizioni “di buon senso” tendono ad essere perdenti nel dibattito pubblico – perché, esattamente come Marge, sono noiose».
Alberto Mingardi, ispirandosi ad una celebre puntata dei Simpson, scrive dell’interesse pubblico e delle cinque lezioni che ha tratto da quel cartone animato: Homer, la monorotaia e l’interesse pubblico (“Il Post”, 13 agosto 2013, QUI).

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Studio il rapporto tra gli esseri umani e i loro luoghi, soprattutto quando si tratta di luoghi "a rischio"
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4 risposte a Si, sono un conservatore

  1. Eccardo ha detto:

    conservatore vs. “consumatore”?

  2. stratosfera ha detto:

    Il tono incalzante di La Cecla è persistente e si impone come una di quelle occasioni rare in cui le idee ci sono, argomentate con esempi e confronti. L’ esempio di Barcellona fa riflettere: «Se trasformi la tua città in un logo, prima o poi è meglio che vai a vivere altrove». Mah io mi chiedo,se per adesso l’unico altrove che mi posso permettere è questo taccuino,va bene uguale?

  3. ggugg ha detto:

    “La Repubblica – Napoli”, giovedì 20 novembre 2008

    LA PENISOLA SORRENTINA DEVASTATA A NORMA DI LEGGE
    di Giuseppe Guida

    Ogni volta che ritorno in Penisola Sorrentina, o mi ritrovo a studiarne ambiti storici o parti di paesaggio per ricerca o per lavoro, mi imbatto per forza di cose nella meschinità di alcune normative urbanistiche che ne stanno consentendo il sacco in uno strano, connivente e molto probabilmente opportunista silenzio generale, anche delle associazioni ambientaliste.
    Più volte, su questo giornale, ho ricordato quello che sta succedendo. In una notte del 2001 alcuni consiglieri regionali infilarono un articolo nella legge 19 che ne estendeva alcune norme alla Penisola, spiegando che esse andavano in deroga alle norme del Put, il piano paesistico vigente dal 1987. Nella sostanza, quelle deroghe consentivano, in particolare, a chiunque di costruire parcheggi interrati dovunque e di qualsiasi dimensione e, ingenerale, affidavano ai tecnici dei privati la certificazione della regolarità di tutto ciò che riguarda l’edilizia, senza prevedere strumenti e azioni di controllo adeguati, né prima, né dopo la fine dei lavori. L’incredibile risultato è stata la sublimazione di buona parte dell’abusivismo in atto regolamentare, tanto che oggi in Penisola gli abusi integrali sono pochi essendo’stati tutti assorbiti in leggi, varianti, delibere, controlli mal fatti, facili chiusure di occhio, amicizie e pacche sulla spalla.
    Nei mesi successivi a quella legge, da un lato scoppiarono le polemiche che però si andarono stancamente spegnendo, dall’altro furono presentate centinaia di richieste, evidentemente in buona parte già pronte, per costruzioni e deroghe di ogni tipo, ma soprattutto per enormi parcheggi interrati, alcuni dei quali delle dimensioni pari a quelle del Pincio a Roma, sul quale persino il sindaco Alemanno ha avuto dei dubbi.
    In questi sette anni sono stati distrutti irreversibilmente ettari di agrumeti, uliveti, ampie aree dei caratteristici centri storici, giardini di antichi palazzi e ogni altra area appetibile sulla quale costruttori, politici amici, membri di commissioni edilizie e impresari di diverso conio hanno messo gli occhi prima e le mani dopo. Negli stessi sette anni, tutti gli assessori regionali all’urbanistica e lo stesso presidente Bassolino, che più volte ha visitato la Penisola assicurandone a chiacchiere la tutela, si sono resi conto dello scempio in corso, ma nessuno, per avidità, per poca capacità amministrativa o semplicemente per poco polso nel contrastare interessi privati per milioni di euro; ha posto fine a uno stato di cose talmente esasperato che gli ultimi segnali indicano una difficoltà da parte del mercato ad assorbire i migliaia di box già costruiti e in costruzione.
    Oltre alla Regione, poi, ci sono i Comuni che, assetati di danaro e di ritorni spiccioli in termini elettorali, stanno usando le già lassive norme regionali come un grimaldello, confezionandone di proprie per ampliare le maglie dei piani regolatori. Quando, ad esempio, su questo giornale, mi sono preso la briga di affrontare un’aspra polemica su una micidiale variante al piano regolatore di Meta di Sorrento, gli stessi amministratori hanno dovuto prendere atto di quelle normative che si accingevano a deliberare contro il territorio, sospendendone l’approvazione. Magro risultato, rispetto a quanto sta capitando in questo e negli altri Comuni dove, grazie alle sole comode leggi regionali, l’edilizia, in un’area tra le più vincolate d’Italia (almeno sulla carta), ha il più alto giro d’affari dopo il turismo.
    A questo magistrale e ben organizzato danno al territorio, si aggiungono una serie di piccole beffe fatte di siparietti messi in piedi per esporre una tutela di facciata che fanno oggettivamente sorridere.
    Tutta la controversia sull’auditorium di Ravello, tanto per fare un esempio, è ruotata attorno all’interpretazione delle norme dell’ormai famigerato Put e ai conseguenti ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, operati dalla Regione, dal Comune e dalle associazioni ambientaliste; le stesse norme, insomma, cassate in un sol colpo, per la questione parcheggi, dalla Regione. L’ultima finzione, in ordine di tempo, è l’intesa istituzionale tra il ministero per i Beni e le attività culturali e la stessa Regione riguardante la “Tutela dei beni paesaggistici in Campania”, firmata a Firenze pochi giorni fa. In essa si legge che, in linea con quanto previsto dalla Convenzione europea sul paesaggio, la Regione si impegna a «perseguire gli obiettivi della salvaguardia e della reintegrazione dei valori del paesaggio nelle politiche di pianificazione del territorio, urbanistiche e in quelle a carattere culturale, ambientale, agricolo, sociale ed economico, nonché nelle altre politiche che possono avere un’incidenza diretta o indiretta sul paesaggio».
    E possibile sapere dove la Regione intende applicare queste buone intenzioni, se non lo fa nell’area di maggior pregio del proprio territorio? Sono i grossi interessi dei privati o il bene collettivo rappresentato dal paesaggio a richiedere attenzione, impegno e, forse, anche un po’ di rischio e impopolarità? Il modello di sviluppo che la Regione sta offrendo ai Comuni-traino del turismo campano è sostenibile o insopportabilmente famelico?

  4. giogg ha detto:

    Le posizioni “di buon senso” tendono ad essere perdenti nel dibattito pubblico – perché, esattamente come Marge, sono noiose“.
    Alberto Mingardi, ispirandosi ad una celebre puntata dei Simpson, scrive dell’interesse pubblico e delle cinque lezioni che ha tratto da quel cartone animato.

    “Il Post”, 13 agosto 2013, QUI

    HOMER, LA MONOROTAIA E L’INTERESSE PUBBLICO
    di Alberto Mingardi

    In un suo tweet, Art Carden ha suggerito che «ogni corso di politiche pubbliche per dottorandi andrebbe sostituito con la visione quotidiana dell’episodio della monorotaia dei Simpsons». Un po’ esagerato, ma neanche troppo.
    Rivedere «Marge vs the Monorail», episodio della quarta stagione fra i migliori di sempre dei Simpsons, è effettivamente molto istruttivo. I personaggi di Matt Groening forniscono una bella illustrazione di come la categoria dell’“interesse pubblico” possa essere facilmente distorta a vantaggio di interessi particolari.
    Dal momento che il Signor Burns è stato costretto a pagare una grossa multa, la città di Springfield si trova inaspettatamente a disporre di 3 milioni di dollari. Viene convocata una riunione per decidere come impiegare il denaro: è giusto che la cittadinanza si pronunci. La proposta di Marge, dettata dal buon senso, è usare quei quattrini per ristrutturare Main Street, che è piena di buche. Ma raramente il proposito di limitarsi alla buona manutenzione dell’esistente conquista il favore delle masse. Essa sottenderebbe un’idea parca e rigorosamente limitata dei doveri dello Stato (della Regione, del Comune…), un catalogo ben definito al quale è prudente e opportuno attenersi.
    Ben più suggestiva è la prospettiva di un intervento straordinario. E perché mai rifiutarne uno che rivoluzionerebbe il volto di Springfield, una grande infrastruttura che lancerebbe gloriosamente la città nel futuro?
    Per esempio una monorotaia. Questo arriva a proporre Lyle Lanley, un simpatico imbonitore che fuga i dubbi degli abitanti di Springfield con la sua parlantina e una canzoncina accattivante («Monorotaia! Monorotaia!»). A nulla valgono le perplessità di Marge, che sottolinea come Main Street resti in pessime condizioni («But Main Street’s still all cracked and broken»/ «Sorry, Mom, the mob has spoken»). Ovviamente tutta la costruzione della monorotaia, per quanto si guadagni l’entusiasmo della città, si rivelerà nient’altro che un piano fraudolento (com’è evidente quando Homer riesce a diventare il pilota del mezzo con un corso di appena tre settimane).
    Quale formidabile insegnamento se ne può trarre?
    Primo, le posizioni “di buon senso” tendono ad essere perdenti nel dibattito pubblico – perché, esattamente come Marge, sono noiose. L’idea che le istituzioni pubbliche debbano limitarsi a fare bene ciò che già fanno, senza avventurarsi su sentieri inesplorati, non fa battere i cuori: sottende una visione del mondo che rifiuta di immaginare che legislatori e amministratori dispongano di una bacchetta magica, e invece lascia loro solo il tedio di gestire l’esistente. Se ci pensate, la storia dell’ultimo secolo è costellata di occasioni nelle quali le istituzioni hanno scelto di costruire una monorotaia, anziché sistemare le buche su Main Street.
    Secondo, proprio perché la stragrande maggioranza di noi, come elettori, tende a pensare che non sta scritto da nessuna parte che l’attività dello Stato debba essere limitata, e pertanto che esso possa intraprendere legittimamente i progetti i più diversi, se ne svilupperà una “offerta”. Non è detto che debba essere per forza apertamente fraudolenta, come la monorotaia di Springfield. Ma ad ogni modo sottende una redistribuzione di quattrini dal portafoglio di tutti, a quello di chi effettivamente realizzerà un certo progetto.
    Terzo, il decisore politico (dal sindaco Quimby in poi) tenderà a patrocinare iniziative che piacciano agli elettori: quindi piani e idee “nuove”. Ma perché scaldino davvero i cuori, e perché possano essere immediatamente associabili al suo nome, vale la pena siano il più grandiosi possibile. Il sindaco di un piccolo comune si fa notare cambiando la viabilità e trasformando semafori in rotonde. Il presidente di una grande regione cerca di tagliare nastri di ospedali sempre più grandi. Le piramidi non si costruiscono tutti i giorni: ma al politico piace l’idea di restare nella storia, agli elettori l’idea di aver votato per chi resterà nella storia.
    Quarto, proprio per questa ragione, chi si offre di realizzare, non certo gratis et amore, quelle opere ha tutto l’incentivo a che ci si orienti sui progetti più ampi e costosi. A Lyle Lanley basta fischiettare una canzoncina. Nel mondo reale, questo può significare provare a influenzare il dibattito pubblico, sia rispetto alla percezione della specifica utilità di una certa iniziativa, sia rispetto alla percezione dell’utilità di tutte “le grandi infrastrutture” (per esempio), in generale.
    Quinto, che il genere di “opera” che sortisce da un processo politico siffatto sia “nell’interesse pubblico” è tutto da vedere. Non tutte le grandi infrastrutture sono inutili, ma già nella prevalenza delle grandi sulle piccole, nell’impermeabilità del dibattito pubblico rispetto alle ragioni della buona amministrazione banale e tristanzuola, sta un campanello d’allarme. Non è che ciò che è “grande” è anche “buono” – epperò questo è il punto di vista che tende a imporsi, regolarmente, nella discussione. Vi sono, è vero, tecniche di valutazione dei costi e dei benefici: ma analisi di sapore ragionieristico nulla possono, rispetto alla potenza del sogno che i Lyle Lanley di questo mondo riescono ad evocare.
    Anche senza parlare della Torino-Lione e di simili “grandi progetti” periodicamente riproposti come la chiave di volta dello sviluppo del Paese, se pensiamo semplicemente ai Comuni nei quali viviamo ci accorgiamo presto che tutti abbiamo la nostra monorotaia di Springfield. Il dramma è che invece pochissime sono le Marge, e il più delle volte non resta loro che la magra soddisfazione di poterci dire: te l’avevo detto, io.
    PS: A proposito di monorotaie, andate a vedere i The Ten Most Ambitious Failed Utopian Mass Transit Systems

    – – –

    Ho letto quest’articolo grazie alla segnalazione di un amico su fb.

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