Lo sguardo iniziatico

Una mattina di febbraio del 1935 Claude e Dina Lévi-Strauss salparono da Marsiglia col battello “Capitain-Paul-Lemerle”. Li aspettava l’oceano Atlantico e poi il Brasile: lui, appena 27enne, stava andando a prendere servizio all’ateneo di São Paulo come professore di sociologia; lei, Dina Dreyfus, filosofa, da tre anni era sua moglie.

Claude, laureato anch’egli in filosofia, era piuttosto restio alle teorie fumose e ai concetti astratti dell’università francese di quel tempo: lui, al contrario, era alla ricerca di concretezza, di realtà empirica. In questo senso l’incontro con l’etnologia gli fu “fatale”: come una rivelazione, si accorse che solo l’osservazione di paesi esotici e l’esperienza diretta di popolazioni lontane potevano suggerirgli riflessioni nuove sull’uomo. E fu così che alla fine di quell’anno accademico sudamericano, tra la fine del ’35 e l’inizio del ’36, partì per una breve missione etnografica nel Mato Grosso presso i Bororo e i Caduveo.

Si trattò di un’esperienza che, al pari di un’iniziazione mistica, gli cambiò letteralmente la vita, soprattutto dal punto di vista interiore: è solo il contatto col terreno – avrebbe scritto vent’anni dopo – che realizza «quell’intima rivoluzione che farà [del candidato alla professione antropologica], davvero, un uomo nuovo» (Antropologia Strutturale, 1958).

In quell’occasione Lévi-Strauss ebbe la felice intuizione di portare con sé una cinepresa e di filmare rituali e scene di vita quotidiana nei villaggi in cui si recava. Non fu nulla di particolarmente innovativo (per convenzione il 1922 – con “Nanook of the North” di Robert Flaherty – è ritenuto l’anno di nascita del documentario etnografico) né si può dire che lui avesse grandi esperienze di cineasta, tuttavia vennero fuori sei piccoli documentari, di cui fino a poco tempo fa non si sapeva molto e, soprattutto, si ignorava che fossero così tanti.

Non so come e dove Enrico Ghezzi ne avesse individuato qualche frammento e come poi avesse scoperto che in un archivio brasiliano ci fosse il resto della collezione, ma so che per molto tempo aveva tentato di restaurarli e di farli vedere in giro, riuscendoci però solo quest’anno: domenica scorsa a Procida, nell’ambito de “Il vento del cinema”, il festival che dirige da diverse edizioni sulla meravigliosa isola del golfo di Napoli.

Naturalmente non ho perso l’occasione e sono andato (col mio amico Renato) a godermi quest’anteprima mondiale che Ghezzi ha presentato con le seguenti parole: «quei filmati muti e in bianco e nero di Lévi-Strauss sembrano più antichi dei Lumière».

In effetti molte inquadrature, il tremolio delle immagini, alcune sfocature e certi movimenti di macchina troppo veloci rimandano ad un dilettantismo cinematografico primordiale: «non c’è distacco tra l’operatore e l’oggetto filmato», ha detto ancora Ghezzi, ma paradossalmente forse il fascino di quelle riprese e l’emozione che suscitano è proprio nella sensazione di essere per qualche minuto nello sguardo di un giovane antropologo stupito, curioso e a volte spaesato: nel bel mezzo, cioè, di quel processo di trasformazione nell’animo che – come ha ripetuto più volte lo stesso Lévi-Strauss – porta a mettere in gioco la propria posizione nel mondo.

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PS:

1. Qualche dettaglio in più su Claude Lévi-Strauss è qui, ma per avvicinarsi alla sua opera consiglio almeno “Introduzione a Lévi-Strauss” di Enrico Comba (ed. Laterza, 2000).

2. Su Wikipedia ci sono maggiori informazioni sia su “Nanook of the North” (en) che su Robert J. Flaherty, ma per un quadro più completo sulla storia dell’antropologia visiva rimando ad un articolo di Cybercultura.it. In Italia il dvd del documentario di Flaherty è distribuito da Ermitage Cinema col titolo “Nanuk l’eschimese”, che però è possibile vedere anche gratis su Google Video (78’, en) oppure (ma è solo un brano di 8’, en) su YouTube.

3. Nel dettaglio, i sei documentari di Lévi-Strauss (ristampati da Il vento del cinema e il Centro Cultural São Paulo in collaborazione con Prefeitura da Cidade de São Paulo e Cinemateca Brasileira) sono: [1] Cerimonie funebri degli indios bororo(Cerimônias Funerais entre os Índios Bororo, Brasile, 1935, 16mm, 7’, b/n), [2] La vita in un villaggio bororo(A Vida de uma Aldeia Bororo, Brasile, 1935, 16mm, 8’, b/n), [3] La cura del bestiame nella stalla di una fazenda del Mato Grosso del Sud(Os Trabalhos do Gado no Curral de uma Fazenda do Sul de Mato Grosso, Brasile, 1935, 16mm, 3’, b/n), [4] Il villaggio di Nalike I (Aldeia de Nalike I, Brasile, 1935-36, 16mm, 10’, b/n), [5]Il villaggio di Nalike II (Aldeia de Nalike II, Brasile, 1935-36, 16mm, 6’, b/n), [6] Festa del Divino Spirito Santo (Festa do Divino Espírito Santo, Brasile, 1936, 16mm, 7’, b/n).

4. Domenica pomeriggio (24 settembre 2006) quelle suggestive immagini mute sono state commentate dalla voce di Anna Bonaiuto, che ha letto alcuni brani di Tristi Tropici (1955) selezionati da Marino Niola.

5. Che fanno i Bororo oggi? Sono “tristemente” scomparsi come aveva previsto Lévi-Strauss? Massimo Canevacci in un interessante articolo (“Etnofiction”, in “Culture Visive”, numero monografico di «AM – Antropologia Museale», n.14, anno 4, 2006 [*]) sottolinea che oggi i Bororo «sono in crescita demografica e culturale, come molte culture indigene nel Brasile», e a conferma di ciò racconta la visione del mondo di Kleber, un video-maker locale che testardamente porta avanti un’idea molto semplice: «Filmando i nostri rituali, uso la videocamera come uno strumento di lotta politica. E sono io, cioè io come bororo, a dover esprimere quello che penso e vedo. Non loro [missionari, antropologi o comunque elementi esterni alla sua cultura]».

Informazioni su giogg

Studio il rapporto tra gli esseri umani e i loro luoghi, soprattutto quando si tratta di luoghi "a rischio"
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