Il dovere di chiedere scusa ai Rom

«Gli stereotipi sono irritanti. Lo sono per chi li usa: nessuno vuole ammettere di ragionare per stereotipi e tanto meno vuole che glielo si dica. A maggior ragione per chi ne è oggetto, gli stereotipi sono irritanti: anche se il contenuto non è negativo, nessuno è contento di vedersi ridotto ad una o due caratteristiche della propria identità e fissato per sempre ad esse» (Amalia Signorelli)

Martedì 25 ottobre 2005, Firenze: «Due nomadi hanno tentato di rapire il figlioletto di 5 mesi ad una coppia di turisti sanremesi tentando di prelevarlo dal passeggino». L’avete sentita tutti questa notizia, vero?
[La Padania]
Giovedì 27 ottobre 2005, Firenze: «La polizia municipale ha fornito una versione diversa rispetto a quanto affermato dalla signora sanremese: le due nomadi non volevano il bimbo, ma il suo braccialetto». E questa, l’avete sentita? Probabilmente no, perché in pratica non se n’è parlato.
[Corriere della Sera]

Per quanto mi riguarda, certi particolari non solo sono superflui, ma addirittura colpevoli. Ancora non riesco a comprendere perché un giornalista senta l’esigenza di specificare l’appartenenza etnica o nazionale (e talvolta addirittura regionale) di chi commette un reato. Sono convinto che la notizia debba occuparsi dei fatti, ovvero del crimine, del suo livello di gravità e delle sue conseguenze, non dell’etnia (che, al limite, è un’informazione utile agli investigatori). Quel dettaglio, trasmesso senza commento, non aggiunge nulla alla ricostruzione giornalistica del caso in oggetto, ma al contrario cosparge sospetti e finisce per avere un effetto deleterio su coloro che ne sono totalmente estranei. Infatti, nell’episodio fiorentino, l’equazione è semplice e intuitiva: una “nomade” prova a rubare un bambino, per cui tutti gli “zingari” sono rapitori di innocenti. A mio avviso questo è il giornalismo peggiore: quello che non (si) interroga, ma fa da megafono agli umori e alle paure della massa. L’altro giorno in pochi minuti sono piombate le telecamere che hanno zoomato sugli occhi pieni di lacrime della madre, i microfoni ne raccoglievano la drammatica testimonianza e a seguire si vedeva la colpevole in manette tra due poliziotti (mancava solo la folla urlante con pietre e forconi). Perché coloro che avrebbero dovuto informare, dopo essere stati sul luogo del misfatto non sono andati anche in un campo (ghetto) a fare domande? Potevano farne anche di impertinenti, ad esempio: “Perché voi zingari rapite i bambini?”. Quelli avrebbero risposto: “Ma che dice, come si permette! Sono le solite voci!”. Al ché il reporter avrebbe dovuto insistere con “Allora perché intorno a voi c’è sempre un’aura di sospetto?”. Ma a questo punto sarebbe stato davvero difficile per l’eventuale intervistato rispondere alla domanda, dunque il giornalista onesto si sarebbe messo al telefono e avrebbe contattato il professor Santino Spinelli [biografia e intervista] dell’Università di Trieste, dove insegna “Lingua e cultura romaní” (ah, chiaramente qui l’equazione di prima non funziona). Oppure, il nostro giornalista avrebbe potuto contattare il mio amico Nando Sigona, antropologo a Londra e corrispondente di “Diario”, che da anni si occupa proprio degli “zingari” e delle loro condizioni di vita nei campi di tutta Europa.
Quel poco che so su quest’universo così affascinante e sconosciuto lo devo proprio a Nando: durante alcuni suoi seminari ho imparato che la parola “zingaro” è una eterodenominazione, cioè è un nome che viene loro attribuito dall’esterno, ma che non viene usato all’interno della comunità. Quel termine deriva dal nome di una setta: “aziganòi” (“intoccabile“, nel senso che “è da non toccare“) e nell’Europa tardomedievale cristiana fu affibbiato allo straniero per antonomasia: il nomade. Per questo motivo gli “zingari” sono sempre stati perseguitati, fino all’incommensurabile Porrajàmos (“il grande divoratore”, in lingua romanés), ovvero lo sterminio che hanno dovuto subire dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. [Moni Ovadia ne ha tratto un’opera lacerante e appassionata: “La bottiglia vuota”, in cui è accompagnato dal fisarmonicista zingaro Albert Florian Mihai]
La storia degli zingari è millenaria, ed è divisa fra una miriade di gruppi e sottogruppi ognuno con peculiarità specifiche, ma che a grandi linee possono essere ricondotte a tre comunità principali: i Rom, i Sinti e i Kalé (gitani della penisola iberica). «Essi hanno un’origine comune, l’India del nord e una lingua comune, il romanés o romanì diviso in svariati dialetti. L’opinione pubblica, che dei Rom e Sinti conosce poco o niente, tende a massificare e a confondere i diversi gruppi zingari, soprattutto tende a condannare e ad emarginare senza capire» (S. Spinelli, “Il mondo dei Rom”). [Altre notizie storiche: qui]
Secondo l’antropologo Abdelmalek Sayad le categorie attraverso le quali osserviamo e interpretiamo gli stranieri derivano da quello che lui chiama «pensiero di Stato», per cui l’immigrazione metterebbe in moto una sorta di «fenomeno-specchio». In questo senso, dal tardomedioevo gli “zingari” rappresentano il paradigma dell’immigrato, cioè la personificazione dell’Altro, il quale (dice Zygmunt Bauman) è sia “nemico” («qualcuno che non può intervenire nel processo di formazione della sua immagine») che “straniero” (ovvero «l’alieno, colui che dentro la relazione ci mostra i nostri limiti»). (Alessandro Dal Lago sostiene, inoltre, che lo straniero è «il nemico pubblico ideale»).
Quindi sarebbe per queste categorie (pregiudiziali) insite nel pensiero della maggioranza che gli zingari (nemici e stranieri allo stesso tempo) vengono continuamente e costantemente espulsi e/o ghettizzati, e imparano a vivere sul confine, al limite: lo zingaro (e l’immigrato in genere) è dunque un «delinquente ontologico» (A. Sayad), perché nel caso in cui venga colto in fase di reato c’è la conferma del pregiudizio di “criminale”: un’etichetta che resta anche quando quella notizia (il caso di Firenze insegna) è dubbia o palesemente falsa. E ciò perché quando un gruppo sociale è reputato “criminale”, allora lo è in maniera assoluta: i suoi esponenti vengono accusati (a torto o a ragione, questa è un’altra questione) di compiere ogni tipo di violenza sulla parte più indifesa della società (la più pura, la più innocente, la più ricca di speranza), cioè sui bambini (per cui li rubano, li mangiano, li usano per riti magico-religiosi, ecc.).
A questo proposito, una lettura molto interessante è il capitolo VI de “L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi” di Gian Antonio Stella, s’intitola “Troppi orchi nel Paese della mamma. Il traffico di bambini, un secolo di lacrime e di orrori“: è la ricostruzione storica di quando noi italiani (nella veste di reclutatori, mediatori, contrabbandieri e guardie di confine corrotte) compivamo una vera e propria “tratta dei fanciulli” verso Francia, Svizzera, Brasile e così via.
Direste, dunque, che tutti gli italiani sono dei mostri?

«Lo stereotipo […] funziona come un riduttore di complessità, come una mappa cognitiva che aiuta gli estranei a orientarsi e a comportarsi nel rapporto con il gruppo stereotipato. […] Per un verso sollecita la produzione di strumenti cognitivi che, semplificandola, la rendano più maneggevole; per l’altro ne mostra costantemente l’insufficienza, il limite rispetto alle esperienze concrete, provocando così un’ulteriore produzione di definizioni e di classificazioni semplificate e semplificanti» (Amalia Signorelli)

PS: le due citazioni di A. Signorelli sono tratte da “La cultura popolare napoletana: un secolo di vita di uno stereotipo e del suo referente”, in Id. (a cura di), “Cultura popolare a Napoli e in Campania nel Novecento”, Guida, Napoli 2002.

PPS (del 31 ottobre 2008): su MetaCaffè c’è una puntata di “Verba Volant” (RaiTre) dedicata alla parola “Zingaro”. 5 minuti di Alessandro Robecchi e Peter Freeman che consiglio di non perdere: qui.

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AGGIORNAMENTO del 28 novembre 2013:
Lo scorso 25 novembre Sergio Bontempelli ha scritto sul “Corriere delle Migrazioni” un lungo ed approfondito articolo che spiega il pregiudizio che vuole i rom e i sinti come ladri di bambini. Partendo da tre casi mediatici, il testo è diviso in varie sezioni: 1) I rom non rubano i bambini…, 2) Le origini della leggenda: un mito letterario, 3) Da opera letteraria a leggenda metropolitana, 4) Zingari, ebrei, mori, vagabondi, 5) Quando gli zingari eravamo noi.

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AGGIORNAMENTO del 23 maggio 2014:
Claudia Torrisi spiega “Perché gli italiani odiano così tanto i Rom” (“Vice”, 21 maggio 2014): “L’intolleranza diffusa è stata spesso cavalcata dai partiti politici, che hanno usato i rom come merce di scambio per vincere le elezioni“.

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AGGIORNAMENTO del 5 giugno 2014:
Durante un’udienza con i fedeli, Papa Francesco ha affermato che gli “zingari” sono spesso disprezzati e ritenuti pericolosi: “Spesso – ha detto Jorge Mario Bergogliogli zingari si trovano ai margini della società, e a volte sono visti con ostilità e sospetto; sono scarsamente coinvolti nelle dinamiche politiche, economiche e sociali del territorio. Io – ha aggiunto a braccio – ricordo tante volte, qui a Roma, quando salivano sul bus alcuni zingari, l’autista diceva ‘guardate i portafogli’: questo è disprezzo. Forse è vero, ma è disprezzo. Sappiamo – ha poi proseguito il Papa – che è una realtà complessa, ma certo anche il popolo zingaro è chiamato a contribuire al bene comune, e questo è possibile con adeguati itinerari di corresponsabilità, nell’osservanza dei doveri e nella promozione dei diritti di ciascuno”.
Ne ha scritto Iacopo Scaramuzzi su “La Stampa”: Il Papa: contro gli zingari ostilità e disprezzo, anche nei bus di Roma.

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AGGIORNAMENTO del 30 settembre 2014:
Un amico ha condiviso un articolo su fb (“Quanto ci costa discriminare i Rom“, di Alessandro Capriccioli: “Libernazione”, 30 settembre 2014, QUI) e ne è scaturita una discussione stimolante e deprimente allo stesso tempo: QUI. La cronaca ci riferisce anche di un (presunto) tentato rapimento di bambini nel torinese a cui molti hanno risposto con violenza: “Sul web c’era già chi voleva venire a bruciarci il campo” (“La Stampa”, 30 settembre 2014, QUI). Ma a Roma c’è anche chi si pone l’obiettivo di “Superare i campi nomadi” (“il manifesto”, 30 settembre 2014, QUIqui e qui).

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Studio il rapporto tra gli esseri umani e i loro luoghi, soprattutto quando si tratta di luoghi "a rischio"
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16 risposte a Il dovere di chiedere scusa ai Rom

  1. anonimo ha detto:

    La storia degli ‘zingari’ rapitori e’ paradossale, perché fondata/legittimata/provata sulla base di stereotipi. Siccome, si sa, i ‘nomadi’ rubano i bambini, se una donna rom romena si avvicina ad un bambino/a è per rapirlo/a. Siccome, si sa, i ‘nomadi’ rubano i bambini, vanno condannati anche se non ci sono prove e testimoni. Come dice l’ingegner Castelli, la giustizia va amministrata nel nome del popolo e, se il popolo pensa, che i ‘nomadi’ fanno queste cose, vanno condannati. E’ disgustoso. Poco da aggiungere. Giusto altre due cose:
    – per secoli sono stati i gage’ a rubare i bambini ai rom (come chiamare molti degli affidamenti comandati dagli assistenti sociali oggi?), tutte vicende documentate e documentabili. I rom dicono ai figli: stai attento al gagio che ti rapisce!
    – le elezioni si avvicinano, i rom non hanno parola, è facile mobilitare l’odio e la paura contro chi non può difendersi. L’hanno fatto in Gran Bretagna i conservatori alle scorse elezioni.
    ciao
    Nando

  2. anonimo ha detto:

    …e ricordate quando i “cristiani”, fino a molto tempo fa, rubavano i bambini ebrei per battezzarli? (il commento al post precedente non l’ho firmato per errore… è il secondo)
    p.s. gianni grazie per essere venuto a prato

  3. burundi ha detto:

    “Gagè” è il modo in cui i Rom chiamano i “non zingari”, giusto Nando? Ho preso questa informazione da un libro che mi regalasti qualche mese fa: “Il paese dei campi. La segregazione razziale dei Rom in Italia”, Carta ed. 2000.
    Ma grazie soprattutto per il tuo contributo qui sul “Taccuino”: un ulteriore lucina contro il buio della manipolazione cui tutti noi siamo soggetti.

  4. TYTTY_ ha detto:

    …le parole di padre Alex Zanotelli.

    “Il 4 novembre ho assistito alla demolizione di tre campi Rom, situati nel comune di Casoria, nella provincia di Napoli. In questi campi c’erano circa quattrocento persone.
    Alle 8.00 del mattino sono arrivate, scortate dalla Polizia, scavatrici, ruspe, cingolati per demolire il tutto.
    Sembrava un esercito in assetto di guerra che spianava tutto. Unica sorpresa: il campo era stato abbandonato dai Rom lungo la notte. Infatti la sera prima, un notevole contingente di Polizia aveva ammonito tutti ad andarsene. E se ne erano andati, scappando da tutte le parti: chi verso la stazione ferroviaria (Piazza Garibaldi), chi verso centri sociali ove poter passare la notte.

    Non si era mai visto a Napoli un’azione del genere: buttare fuori con la forza persone dal proprio habitat senza offrire loro prima un altro luogo ove andare. Mi ricordava certe scene viste nei regimi militari. Mi ricordava soprattutto le demolizioni che avevo visto delle baraccopoli di Nairobi. Mai mi sarei aspettato che avrei assistito a simili scene nella mia Italia.

    Era da alcuni mesi che accompagnavo, insieme al professore Marco Nieli, da vicino, l’avventura di questi Rom: gente buona, semplice, attiva, gente che non ha mai partecipato ad una guerra, gente che era scappata dalla Romania per trovare un po’ di dignità. Ero stato, con Marco, ospite dei Rom di Casoria: un’ospitalità calorosa e aperta.
    Con loro ho potuto vedere la realtà del campo. Devo confessare che non avevo mai visto in Italia, una situazione così degradata. Mi faceva venire in mente certi angoli di Korogocho, la baraccopoli di Nairobi, dove sono vissuto per 12 anni. Questo sia per la sua posizione, sia per le condizioni del campo. Infatti l’accampamento Rom di Casoria è posto sotto un immenso arco con piloni enormi della tangenziale di Napoli. Ma le condizioni igieniche e ambientali del campo non sono meno agghiaccianti. Baracche accatastate una sopra l’altra in piccolissimi spazi. Senza acqua potabile. Stretto tra due ferrovie (un ragazzo è morto qualche mese fa sotto un treno). Enormi topi che passeggiavano tranquillamente.

    La gente ci ha accolto con tanto calore e tanti caffè. Avevano invitato tutti a venire l’11 aprile davanti al Comune di Casoria per parlare con gli esponenti del Comune. Quel giorno buona parte della comunità venne in piazza a urlare, gridare, battere i tamburi, per chiedere l’acqua potabile nel campo, un bus per portare i bambini a scuola ed infine un luogo alternativo ove i Rom potessero costruire il loro campo.

    E’ incredibile che in Campania non ci sia ancora una legge quadro per i Rom. Furono solo promesse. Dopo tante insistenze arrivarono i poliziotti, le ruspe e via! Via tutti quelli che sporcano le nostre città. La cosa più incredibile fu che il comune di Casoria è stato commissariato per infiltrazioni mafiose! Come ultimo gesto il sindaco uscente aveva firmato l’ordinanza dello sgombero.

    Grave, molto grave che si dia effetto immediato ad un’ordinanza di un sindaco “scaduto”. Il prefetto l’ha immediatamente resa effettiva! E’ proprio vero che sono sempre i poveri a pagare. Ma ho visto un gruppo di fuggiaschi fuori dalla stazione Gianturco: donne incinte, bambini che piangevano. Ora vivono nella diaspora della quasi totale indifferenza delle istituzioni e dei cittadini. E’ questa l’Italia democratica? E’ così che trattiamo i Rom? Non è forse così che trattiamo anche gli immigrati chiudendoli nei CPT, veri lager? I poveri a Nord come a Sud, a Napoli come a Nairobi, non contano! Eppure sono volti!”
    Alex Zanotelli

  5. anonimo ha detto:

    da Repubblica.it
    resoconto annuale indica i nomadi e gli ex cittadini sovietici come le popolazioni più soggette a violenza ed emarginazione

    Razzismo, il rapporto della Ue: “I Rom sono i più discriminati”
    di CRISTINA NADOTTI

    ROMA – Sono i Rom la popolazione più discriminata in Europa, subito dietro a loro i cittadini dell’ex Unione Sovietica. Il rapporto annuale dell’European Monitoring Centre on Racism and Xenophobia, l’organismo dell’Unione Europea che ha il compito di fornire agli stati membri informazioni e dati sul razzismo, la xenofobia, l’islamofobia e l’antisemitismo, e di formulare piani di intervento per contrastarli, denuncia oggi che i Rom, che il rapporto indica come zingari, sono il gruppo etnico che deve affrontare maggiori discriminazioni nel lavoro, nell’alloggio e nell’istruzione. I Rom, scrive il rapporto, sono vittime di continue violenze razziste.

    Il rapporto sottolinea che “La storia particolare e le caratteristiche della popolazione degli stati membri dell’Unione” sono tra le cause di questa avversione nei confronti di questo popolo e degli ex cittadini sovietici. Il rapporto include una valutazione generale in cinque aree di ricerca: la legislazione, l’occupazione, l’accoglienza, l’istruzione, la violenza e i crimini razziali. “Ci sono – si legge nella relazione – alcuni esempi di “buone pratiche” sia degli stati nucleo della Ue che dei nuovi membri, ma è chiaro che molti stati rimangono molto indietro”.

    I bambini Rom esclusi dall’istruzione. Sono la Repubblica Ceca, la Spagna e l’Ungheria i paesi che discriminano maggiormente i Rom, che in questi stati hanno maggiori difficoltà a essere accolti. Ma in molti paesi, sottolinea il rapporto, nelle scuole i bambini Rom sono concentrati in classi speciali, con la tendenza a bollarli come non adatti alla scolarizzazione o con difficoltà di apprendimento”

    La nuova Ue e le etnie. Gli esperti europei sottolineano che con l’allargamento dell’Unione la composizione etnica dell’Europa è mutata, e con essa anche le vittime delle discriminazioni. Si fa distinzione tra i paesi occidentali, che hanno una lunga tradizione di migranti e di razzismo, xenofobia e discriminazione, e quelli orientali, dove c’è una maggiore omogeneità etnica. Questo spiega in parte il triste primato dei Rom, che hanno una lunga storia di migrazione ( e discriminazione) anche nei nuovi stati membri dell’Ue, quali la Repubblica Ceca, l’Ungheria e la Slovacchia.

    “E’ anche per questo che la maggior parte dei rapporti dei dieci nuovi stati dell’Ue si concentra principalmente o unicamente sulla questione dei Rom”, scrive il resoconto e bisogna tenere in considerazione che la Commissione Europea ha imposto ai nuovi membri di migliorare i diritti e l’accoglienza delle minoranze Rom come requisito per entrare nella Ue”.

    (23 novembre 2005)

    Tytty che non ha voglia di loggarsi a splinder 🙂

  6. ggugg ha detto:

    Venerdì scorso (8 aprile 2006) c’è stata la GIORNATA INTERNAZIONALE DEI ROM, che ricorda il primo incontro internazionale dei Rom, svoltosi vicino Londra (a Orpington) l’™8 aprile del 1971.

  7. ggugg ha detto:

    Considero questo blog davvero come un taccuino, ecco perché mi sembra giusto riprendere in mano (aggiornare, aggiungere, integrare… ovviamente nei commenti e non nel testo originale) anche un post di un anno e mezzo fa con i contributi che incontro (o incontrate!) col passar del tempo. L’altro giorno (giovedì 1 marzo 2007), particolarmente pregnante con questo mio vecchio scritto ho trovato l’articolo di Gad Lerner pubblicato su «la Repubblica»:

    GLI ZINGARI, GLI EBREI E LE LEGGENDE RAZZISTE
    di Gad Lerner

    Milioni di italiani, in perfetta buona fede, sono ancor oggi convinti che gli zingari rapiscono i bambini. E se incontrano qualche nomade per la strada, stringono forte la mano del figlio o del nipote. Allo stesso identico modo, fino a non molto tempo fa, tante persone perbene sono state convinte che gli ebrei necessitano del sangue di bambini cristiani per i loro riti pasquali. Il senso comune è intessuto di buoni sentimenti e paure ataviche, custodite nel fondo dell’anima. La storia ci insegna che periodicamente riaffiorano. Se c’è voluto lo sterminio di metà degli ebrei d’Europa per erigere un tabù nei confronti degli stereotipi antisemiti, dovrebbe inquietarci la facilità con cui analoghi pregiudizi si diffondono contro altre minoranze. L’anno scorso, nella trasmissione televisiva di una”rete ammiraglia”, l’intervistatrice si è rivolta alla studiosa di origine sinti Eva Rizzin con la raffica di domande che qui di seguito sintetizzo, dopo averle riascoltate: «È vero che gli zingari sono sporchi? È vero che sono imbroglioni? È vero che sono ladri? Perché, se viene offerto loro un lavoro, lo rifiutano? Perché non vogliono andare a scuola? Non crede che tra i rom sia diffuso un pregiudizio nei confronti dei non rom?». È mancata solo la domanda sul rapimento dei bambini: la giornalista che si è presa quella licenza oltraggiosa, magari giustificandola a fin di bene – meglio rendere espliciti i pregiudizi diffusi sugli zingari – fin lì non ha osato. Forse si è vergognata. So bene che va di moda demolire le regole del ”politically correct”, ma- mi sono detto – fortunatamente oggi nessun giornalista oserebbe proporre domande del genere a un ebreo: è vero che siete avidi, sleali, antipatriottici, ossessionati dal sesso, intriganti? Perché continuate a spalleggiarvi nelle banche e nei giornali? La cronaca recente conferma purtroppo come alla licenza verbale corrisponda l’imbarbarimento dei comportamenti sociali, la violazione dei più elementari codici di convivenza. Per un mese e mezzo alle porte di Milano il comitato dei cittadini di Opera ha stretto d’assedio un piccolo campo nomadi autorizzato ”77 cittadini rumeni di cui più della metà bambini, tutti muniti di permesso di soggiorno” prendendoli a male parole insieme ai volontari che li assistevano, e infine costringendoli ad andarsene impauriti. Dopo che già una spedizione punitiva aveva dato alle fiamme le loro tende. La fulminea metamorfosi delle persone perbene in difesa del proprio territorio, la solidarietà trasformata in furia dei tanti contro i pochi, dovrebbero sensibilizzarci a un pericolo che invece continuiamo a sottovalutare. Nel 1931 era un intellettuale prestigioso come Giovanni Papini a definire ”lerci e untuosi” gli ebrei che «hanno ritrovato una nuova patria nell’oro», e con lui tanti altri si sentirono autorizzati al disprezzo. Oggi un assessore della regione Lombardia può andare impunemente in tv a sostenere che la polizia sequestra chili di oro rubato ogni volta che irrompe nei campi rom, dove allignerebbero i germi di malattie contagiose. Non è molto diverso. Troppo comodo, allora, liquidare come esagerate e intolleranti ”magari sventolando la bandiera della libertà di ricerca” le reazioni ebraiche alla pubblicazione di ”Pasque di sangue”, il libro di Ariel Toaff in cui viene assegnata veridicità storica agli omicidi rituali. Attribuire fondamento storico all’”accusa del sangue” “per giunta indicando nella tradizione biblica le sue origini” è una responsabilità gravida di conseguenze velenose. Impressiona la disinvoltura con cui un docente di storia contemporanea, Sergio Luzzatto, ha esaltato sul ”Corriere della Sera” il gesto ”nientemeno” «di inaudito coraggio intellettuale”di Ariel Toaff. Nessuna precauzione nel lodare il «magnifico libro di storia» che finalmente, con «straordinaria perizia», ricostruisce i riti dei «fondamentalisti dell’ebraismo ashkenazita», anzi, «i più fanatici tra gli ebrei studiati da Toaff». Il gusto dissacratorio d’infrangere la barriera del”politically correct”prevale sulla valutazione accurata delle fonti storiche. Peggio, autorizza indebite generalizzazioni e quindi la reiterazione aggiornata del pregiudizio. Gli ebrei non hanno mai impastato la farina del pane azzimo col sangue di bambini cristiani, così come gli zingari non sono specializzati nel ratto degli infanti. È vero semmai che la libera propaganda diffamatoria può suscitare effetti perversi nella relazione fra le vittime e la società circostante che li minaccia. Perfino indurre taluni fra i perseguitati a mostrarsi per quel che non sono. Un processo in corso presso il tribunale di Lecco ci aiuta a comprendere questo intrico paradossale. Il 7 febbraio del 2005 una madre che passeggiava spingendo la carrozzina con la figlia di sette mesi, fu vittima di un approccio inquietante da parte di tre nomadi. Per estorcerle denaro, le tre avrebbero minacciato di prendere con sé la bambina, mettendole le mani addosso. La donna fuggì con la figlia in braccio e denunciò l’accaduto ai carabinieri. Le nomadi (fra cui una dodicenne) furono arrestate poco distante, sedute alla mensa della Caritas. L’accusa di tentato sequestro di persona, in sede di patteggiamento, venne derubricata: tentata sottrazione di minore (reato che di solito si registra nei conflitti fra coniugi separati). Così le zingare furono scarcerate, tra le clamorose proteste del ministro della Giustizia e del presidente della Camera dell’epoca. Adesso la Cassazione ha disposto che il processo è da rifare, perché la corte è tenuta a giudicare il reato proposto dal pm e convalidato dal gip, cioè tentato sequestro di persona. Non so come andrà a finire. Ma avendo motivo di credere alla testimonianza di quella madre terrorizzata, mi impressiona l’idea che le nomadi l’abbiano sul serio minacciata di portarle via la figlia, se non avesse tirato fuori il portafoglio. In altre parole: le mendicanti hanno fatto ricorso alla loro cattiva fama”cioè al radicamento di un pregiudizio secolare”per estorcere denaro con la paura. Un gesto odioso, da punire per minacce e accattonaggio molesto. Ma forse che Ariel Toaff e Sergio Luzzatto ne trarrebbero la riprova che gli zingari”o alcuni di essi”sono dediti al rapimento dei bambini? Gli studiosi medioevalisti hanno demolito l’uso distorto delle fonti giudiziarie nel libro”Pasque di sangue”. Ma se anche per assurdo emergesse dagli archivi”non è accaduto”la vicenda di un ebreo che minaccia un bambino gentile o che l’uccide, ciò sovvertirebbe la verità storica? Accrediterebbe l’”accusa del sangue”? La reazione veemente alla manipolazione storica operata in quel libro e alla sua presentazione scandalistica sul”Corriere”, è frutto di una preoccupazione molto concreta: la diffusione nel mondo islamico di leggende sugli omicidi rituali, e la memoria avvelenata che tali fandonie perpetuano nell’Europa centro-orientale. Né isteria né censura, ma al contrario senso di responsabilità. Molti storici hanno protestato”giustamente”contro l’eventualità (scongiurata) che Ariel Toaff subisca sanzioni giudiziarie in Israele per causa dei suoi errori. Turbamento ha suscitato anche la sua decisione di ritirare il libro e devolvere i compensi a un’associazione che l’ha criticato. Ma non si può eludere un’altra questione posta dalla divulgazione delle sue tesi che, avvalorando stereotipi di facile propagazione, risultano potenzialmente incendiarie. Purtroppo è facile prevedere l’uso che ne verrà fatto a man bassa da vecchi e nuovi antisemiti. Qui non regge il paragone con l’indegno linciaggio morale cui fu sottoposto”La banalità del male”, cioè il libro in cui nei primi anni Sessanta Hanna Arendt criticò il processo di Gerusalemme contro il criminale nazista Adolf Eichmann. La Arendt si guardava bene dal negare o minimizzare il genocidio degli ebrei d’Europa. Tanto meno accreditava di un qualche fondamento storico o teologico la teoria del complotto ebraico, zeppa di falsità, che mosse la macchina omicida della soluzione finale. L’attribuzione di fondamento oggettivo alla falsa accusa degli omicidi rituali, naturalmente, non comporta da parte degli autori la condivisione delle sue orrende conseguenze nei secoli delle persecuzioni. Ma ne offre un’interpretazione causale come minimo ambigua: l’idea che in fondo nessuno possa dirsi del tutto innocente. Anche le vittime hanno le loro colpe. Mi guarderei bene dal protestare in nome della libertà di ricerca storica, che nessuno limita né in Israele né in Italia. Il dilemma riguarda semmai quanto sia lecito giocare con le paure e le ferite e i pregiudizi diffusi nella popolazione. Qui le colpe dei mass media che propagano acriticamente queste sensazionali scoperte prive di fondamento scientifico, si rivelano gravissime. Altro che Hanna Arendt. Il pensiero corre semmai all’irresponsabilità con cui certe trasmissioni televisive e certi giornali dieci anni fa lucrarono ascolti e tirature dando credito alla terapia anticancro di Luigi Di Bella.

    [continua al commento seguente]

  8. ggugg ha detto:

    [continua dal commento precedente]

    La credulità popolare fu blandita mettendo sullo stesso piano le promesse miracolistiche di quel medico spregiudicato e le confutazioni scientifiche della sua cura inefficace. Ne derivarono sofferenze e drammi umani, trasformati in spettacolo da chi aveva intuito come la paura del cancro, e la diffidenza nei confronti della medicina ufficiale, potevano essere riciclate sotto forma di business mediatico. E di strumentalizzazione politica. Per secoli la gente è stata indotta ad avere paura degli ebrei, a viverli come una minaccia nonostante fossero una minoranza. Brutti, sporchi e cattivi. Come gli zingari. Come un cancro sociale. Guai ad accettarli come concittadini. I pregiudizi corrono sottotraccia, nutriti di paure ancestrali. Danno assuefazione. Covano annidati nella quotidianità delle persone normali e le trasformano. Esplodono in forma violenta quando meno te l’aspetti. Il nostro medioevo contemporaneo è già popolato di troppi fantasmi. Evitiamo per favore di resuscitare fra noi l’™accusa del sangue.

    Fonte

  9. ggugg ha detto:

    Questo post nacque da un mio moto di sdegno verso una certa maniera di fare giornalismo, quella, cioè, che descrivendo un reato sottolinea anche l’appartenenza (etnica, culturale, geografica, nazionale, regionale…) di chi lo commette.
    Su questo stesso tema, lo scorso 4 febbraio 2007 Giovanni Maria Bellu ha scritto un articolo per la sua rubrica “Gli altri noi” su Repubblica.it.

    STAMPA E XENOFOBIA, ISTRUZIONI PER L’USO
    di Giovanni Maria Bellu

    La commissione proposta dall’Alto commissariato delle Nazioni unite e incaricata di redigere un codice deontologico per la stampa a tutela degli immigrati e dei rifugiati ha avviato i suoi lavori giovedì scorso. Fin dal primo incontro è emersa la complessità dell’impresa. La “carta di Treviso” (che stabilisce le regole a tutela dei minorenni) è un modello dal quale è possibile attingere alcune linee-guida, ma la questione stampa-immigrazione presenta problemi ulteriori, più complessi. Per esempio: come distinguere le manifestazioni di xenofobia a mezzo stampa dagli ordinari e consueti cliché giornalistici?
    E’ una vecchia e mai risolta questione. Quando l’Italia non era ancora un paese di immigrazione, si poneva in modo pressoché identico per i cittadini di alcune regioni. Poteva accadere che locuzioni come “bandito sardo” (che avevano una logica perché indicavano non solo una provenienza regionale ma una modalità del banditismo) venissero estese per analogia a casi del tutto diversi. Così il mai dimenticato Flavio Carboni era “il faccendiere sardo” mentre Roberto Calvi non era mai “il bancarottiere lombardo”.
    In attesa del codice deontologico, è possibile, a partire da quella esperienza di xenofobia regionale, suggerire ai lettori, e anche ai colleghi, un sistema artigianale, ma di una certa efficacia, per capire quando la specificazione dello status (immigrato, clandestino, etc.) o della nazionalità, sono parti costitutive della notizia e quando, invece, contengono i germi del pregiudizio.
    E’ molto semplice. Immaginiamo un qualunque cittadino italiano, per esempio il senatore Roberto Calderoli, voglia adottare questo metodo. Non dovrà fare altro che aprire la carta d’identità e controllare il proprio luogo di nascita. “Ecco: sono nato a Bergamo”. Conclusa questa verifica, dovrà raccogliere un po’ di titoli che contengono specificazioni di nazionalità e di status e sostituire a esse l’aggettivo “bergamasco” per vedere cosa succede.
    Per facilitargli il compito, abbiamo provveduto a effettuare l’operazione su un campione di notizie tratte dalle agenzie del mese di gennaio. Ecco alcuni dei risultati: “Capodanno: bergamasca partorisce e getta il neonato dalla finestra”. “Minaccia connazionale e suo marito: arrestato bergamasco”. “Bergamasco arrestato per contrabbando di sigarette”. “Bergamasco provoca incidente poi dà fuoco a due auto”. “Carceri: bergamasco si cuce la bocca e si conficca ferri in testa”. Precisiamo che, per non apparire parziali, abbiamo effettuato lo stesso esperimento con altre città, compresa la nostra, ottenendo risultati non meno surreali.
    Sicuramente avremmo riso di meno se, concluso il gioco delle sostituzioni, avessimo sperimentato nella vita sociale che un po’ di persone ci guardavano con diffidenza. Attribuendo a noi – per il semplice fatto di essere bergamaschi, o cagliaritani, o aostani o viterbesi – una certa indole violenta, una certa capacità a delinquere. Perché è questo quanto è accaduto in Italia negli ultimi quindici anni, come risulta puntualmente da tutte le inchieste e da tutti i sondaggi. L’immagine dell’immigrato è lontanissima dall’immigrato reale. Si crede che sia giunto via mare quando quasi sempre è giunto via terra, si crede che sia musulmano quando la maggioranza è cristiana e – storditi dall’abuso di “assalti”, “invasioni”, “ondate” – i cittadini italiani credono che gli immigrati siano molti di più di quanti in realtà sono. Risultati che, a essere franchi, suscitano interrogativi imbarazzanti non solo sulla deontologia professionale ma sul giornalismo italiano tout court.

    (glialtrinoi@repubblica.it)

    FONTE

  10. anonimo ha detto:

    Ecco l’ennesima replica di una commedia (?) già vista..
    Qualche giorno fa su una spiaggia siciliana una bagnante accusò una donna Rom di aver tentato di rapire un bimbo. La vicenda si è conclusa fortunatamente in maniera rapida; riporto di seguito un articolo apparso (per poche ore) oggi sul Corriere.it

    L’episodio sabato a Palermo
    Bimbo sequestrato da rom, “caso di psicosi”

    PALERMO – Una vicenda in cui la psicosi collettiva e il pregiudizio contro gli zingari si sono coniugati, producendo un mostro sbattuto in prima pagina per tre giorni. Questo il senso – e in alcuni casi anche le parole – usate dal gip di Palermo Maria Elena Gamberini nel provvedimento con cui ha ordinato la scarcerazione di Maria Feraru, 45 anni, la donna romena accusata di avere tentato di sequestrare, sabato pomeriggio, un bambino di tre anni davanti al «Lido del ferroviere» di Isola delle Femmine (Palermo).
    Al di là delle decine di testimonianze raccolte dagli stessi cronisti dopo il presunto tentativo di sequestro, l’unica persona che aveva effettivamente visto qualcosa era stata A.D., una donna che sin dalle prime battute dell’interrogatorio reso domenica ai carabinieri, aveva ammesso di essere letteralmente «terrorizzata dagli zingari». Un atteggiamento mentale ribadito dalla teste anche martedì mattina, davanti al pubblico ministero Ennio Petrigni, che, per niente convinto, ha voluto risentirla di persona. A.D. ha detto di aver avuto paura, di avere provato la sensazione che Maria Feraru stesse tentando di portare via il bimbo di tre anni: dopo avere ricostruito minuziosamente i fatti, la testimone ha pure ammesso che non era stata la zingara a correre verso il bambino, ma il piccolo a scappare verso l’uscita dello stabilimento. La gonna -sotto la quale, secondo la versione passata di bocca in bocca e data per verità assodata, la rom avrebbe cercato di nascondere il bambino- si era aperta perché la Feraru si era piegata in avanti per raccogliere qualcosa. Insomma, come la stessa A.D. ha riconosciuto, «si è trattato di un fuoco di paglia».
    Durissimo il gip in alcuni punti: «Se lo stesso gesto di piegarsi verso il bambino l’avesse compiuta una qualsiasi altra bagnante, sarebbe stato interpretato come manifestazione di comportamenti tutti leciti. Invece è stato visto come un atto idoneo a configurare un rapimento solo e soltanto perché posto in essere da una zingara». Il pm Petrigni aveva in un primo momento chiesto convalida del fermo e ordine di custodia; dopo aver sentito la teste, ha chiesto solo la convalida del fermo e la scarcerazione. Secondo il giudice, invece, non c’erano i presupposti nemmeno per procedere all’arresto in flagranza. Maria Feraru, difesa dagli avvocati Maria Antonietta Marchione e Giorgio D’Agostino, però davanti ai carabinieri non aveva aperto bocca. Un comportamento con cui aveva alimentato i sospetti su di lei.

    …beh il finale non è dei migliori..

  11. ggugg ha detto:

    “Avete saputo che hanno tentato di rapire una bambina alla spiaggia della Marinella? Il padre stava comprando due gelati al bar, s’è girato un attimo e la figlia non c’era più. L’hanno portata via due persone che subito le hanno tagliato i capelli”… poi, però, scoperti dalla folla, sono riusciti a fuggire”.
    “Sì, l’ho saputo! Erano zingari!”.

    Questo è lo scambio di battute cui ho assistito alcuni giorni fa tra persone distinte e perbene, ma con scarso spirito critico, a cui ho invano tentato di mostrare tutte le falle di questa storia inverosimile.
    Ora, il commento dell’utente anonim* qui sopra (che ringrazio) sull’ennesima fasulla notizia che vede i Rom come orchi, mi dà lo spunto per annotare sul Taccuino anche la versione sorrentina di tale infamante pregiudizio.
    La settimana scorsa, infatti, nella penisola in cui vivo s’è alzato un enorme polverone su una storia ASSOLUTAMENTE FALSA che, purtroppo, sebbene risulti puntualmente infondata non riesce mai ad essere debellata una volta per tutte, ma al contrario finisce paradossalmente per alimentare lo stesso stereotipo razzista che ne è alla base: il sospetto verso il diverso più diverso, quello inclassificabile, ingestibile, incontrollabile… quello libero.
    Trovo semplicemente allucinante come tanti partecipino con tale leggerezza ad una vera e propria lapidazione culturale verso i Rom. Ormai la “buona fede” (l’11 settembre, il terrorismo, l’antrace, il passaggio di millennio, i virus tramite internet, l’aviaria, l’invasione degli alieni…) non basta a giustificare il concorso di colpa di quei troppi che senza porsi domande (cioè, senza attaccare le orecchie e la bocca al cervello) si prestano a fare da megafono a notizie palesemente improbabili.
    In questo “piccolo” caso sorrentino non si può nemmeno dire che i giornali abbiano alimentato gli umori della massa (pare, giusto uno, ma sto cercando il numero “incriminato” per verificare), infatti è accaduto tutto col passaparola. Lo diceva anche il grande De Andrè che «una notizia un po’ originale non ha bisogno di alcun giornale, come una freccia dall’alto scocca, vola veloce di bocca in bocca». E infatti, sebbene il fatto non sussistesse e non fosse nemmeno verosimile, tutti se lo sono bevuto come realmente accaduto.
    Ah, qualcuno si domanderà perché so per certo che la notizia è falsa. Giusto! Siccome non riuscivo a trovare conferma sulla stampa locale, ho chiesto dettagli ad un carabiniere di Sorrento che mi ha parlato dell’assoluta inconsistenza della notizia: né una denuncia, né un allarme, né una paura… niente di niente… assolutamente nulla… eppure tutti vi hanno creduto.

    Come gli incendi estivi che devastano la Penisola Sorrentina e tutto il Sud Italia, naturalmente anche queste infami notizie sono dolose. Dunque, come è sacrosanto assicurare alla giustizia quei volgari criminali che sono i piromani, gli incendiari e gli speculatori, così credo sia assolutamente necessario perseguire e allontanare dalla società per un certo tempo i responsabili della diffusione di paure razziste e sospetti privi di qualsiasi fondamento verso chi non può difendersi, in modo che non rechino ulteriori danni.

  12. ggugg ha detto:

    Dal 15 agosto 2007 trovate questo mio post anche sul blog “Libere Associazioni”: QUI.
    Evidentemente è piaciuto. Ed io sono contento.

  13. giogg ha detto:

    “Le persone e la dignità”, blog di Amnesty International sul “CorSera”, 4 aprile 2013, QUI

    DISCRIMINAZIONE, SGOMBERI, SEGREGAZIONE, VIOLENZA: I ROM IN EUROPA
    di Riccardo Noury


    “Riguarda l’Europa. Riguarda te”. Questo è lo slogan ufficiale del 2013, Anno europeo dei cittadini.
    Circa la metà dei 10-12 milioni di rom che vivono in Europa si trova nei paesi dell’Ue.
    Otto famiglie rom su 10 sono a rischio povertà. Solo un rom su sette ha terminato le scuole di secondo grado. A livello dei singoli stati membri, le comunità rom si collocano al di sotto di quasi tutti gli indici di sviluppo sui diritti umani.
    No, l’Europa non riguarda i rom. Va detto un’alta volta ancora, all’ennesima vigilia della Giornata internazionale dei rom e dei sinti che si celebrerà lunedì 8 aprile.
    Lo dice il fatto che a distanza di oltre un decennio dall’adozione della Direttiva sull’uguaglianza razziale del 2000 e di quattro anni dall’entrata in vigore della Carta dei diritti fondamentali, mai una volta la Commissione europea ha ritenuto di dover avviare qualche azione a sostegno dei diritti dei rom.
    Che l’Europa non riguardi i rom, lo pensano anche alcuni cittadini degli stati membri.
    In un sondaggio effettuato nel 2012, il 34 per cento degli europei riteneva che i cittadini dei loro paesi si sarebbero sentiti a disagio, e il 28 per cento “mediamente a loro agio” se i loro bambini avessero avuto dei rom come compagni di classe.
    In Bulgaria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, dal gennaio 2008 al luglio 2012, vi sono stati oltre 120 attacchi gravi contro i rom e le loro proprietà, tra cui sparatorie, accoltellamenti e lanci di bombe Molotov.
    Gli sgomberi forzati continuano a costituire la regola, e non l’eccezione in molti paesi europei, tra cui Francia, Italia e Romania. L’istruzione è segregata in Grecia, Repubblica Ceca e Slovacchia, in contrasto con le leggi nazionali ed europee che proibiscono la discriminazione razziale.
    Ecco la situazione, nel dettaglio, in alcuni paesi:
    In Bulgaria si stima che i rom siano 750.000, il 9,94 per cento della popolazione. Più del 70 per cento dei rom dei centri urbani vive in quartieri segregati. In 14 attacchi contro persone rom e/o loro proprietà, portati a segno tra settembre 2011 e luglio 2012, sono morte almeno tre persone e altre 22, tra cui una donna incinta e due minori, sono rimaste ferite.
    I circa 200.000 rom presenti nella Repubblica Ceca costituiscono l’1,9 per cento della popolazione. Più o meno un terzo (dalle 60.000 alle 80.000 persone) vive in 330 insediamenti per soli rom, all’interno dei quali la disoccupazione è superiore al 90 per cento. I bambini e le bambine rom costituiscono il 32 per cento del totale di coloro che sono assegnati a scuole per “alunni con lieve disabilità mentale” e che seguono programmi scolastici ridotti. Nel corso degli attacchi violenti verificatisi tra il gennaio 2008 e il luglio 2012 sono stati uccisi almeno cinque rom e almeno 22, tra cui tre minorenni, sono rimasti feriti.
    In Francia vivono circa 500.000 traveller, molti dei quali cittadini francesi. Vi sono poi altri 15.000 – 20.000 rom provenienti da Bulgaria e Romania. I migranti rom dei campi e degli insediamenti informali sono oggetto di sgomberi forzati e di espulsione verso i paesi d’origine. Nel 2012 sono stati eseguiti 11.803 sgomberi, l’80 per cento dei quali aventi caratteristiche di sgombero forzato. Ieri, ce n’è stato un altro, che ha coinvolto oltre 200 persone. Solo il 10 per cento dei rom ha completato gli studi secondari.
    Dei circa 750.000 rom residenti in Ungheria, il 7,49 per cento della popolazione, solo il 20 per cento ha un’istruzione superiore al primo grado, rispetto alla media nazionale del 67 per cento. Solo lo 0,3 per cento ha conseguito un diploma universitario. Tra gennaio 2008 e settembre 2012, vi sono stati 61 episodi di violenza contro i rom e le loro proprietà, che hanno causato la morte di nove persone, tra cui due minorenni, e decine di feriti, 10 dei quali in modo grave.
    I circa 150.000 rom, sinti e caminanti presenti in Italia costituiscono lo 0,25 per cento della popolazione del paese. Le comunità rom comprendono persone provenienti da altri paesi dell’Ue (soprattutto la Romania) e dai paesi dell’ex Jugoslavia, un numero imprecisato di apolidi e circa un 50 per cento di cittadini italiani. Solo il 3 per cento è costituito da gruppi itineranti. Oltre un quarto dei rom presenti in Italia, circa 40.000 persone, vive in campi, informali o autorizzati ma comunque a rischio di sgombero forzato. Negli ultimi sei anni, a Roma e a Milano, ne sono stati eseguiti oltre 1000, quasi uno al giorno e nella stragrande maggioranza dei casi si è trattato di sgomberi forzati. Il 51 per cento della popolazione italiana ritiene che la società non trarrebbe beneficio dalla migliore integrazione dei rom.
    In Romania si stima vivano 1.850.000 rom, l’8,63 per cento della popolazione. Circa l’80 per cento dei rom vive in povertà e quasi il 60 per cento risiede in comunità segregate e senza accesso ai servizi pubblici essenziali. Il 23 per cento delle famiglie rom (su una media nazionale del 2 per cento) subisce multiple privazioni relative all’alloggio, tra cui il mancato accesso a fonti d’acqua potabile e a servizi igienico-sanitari così come l’assenza di titoli comprovanti la proprietà dei loro alloggi.
    I circa 490.000 rom presenti in Slovacchia costituiscono il 9,02 per cento della popolazione. Un terzo dei bambini e delle bambine rom, il 36 per cento, si trova in classi segregate per soli rom, il 12 per cento è assegnato a scuole speciali. Nello spazio di una generazione, il numero degli alunni rom assegnati alle scuole speciali è più o meno raddoppiato. Tra il gennaio 2008 e il luglio 2012 vi sono stati 16 attacchi contro i rom o le loro proprietà: cinque rom sono stati uccisi e altri 10 feriti.
    In Slovenia i rom sono circa 8500 e costituiscono lo 0,41 per cento della popolazione. A differenza della percentuale nazionale che arriva quasi al 100 per cento, i rom che vivono nel 20-30 per cento degli insediamenti nel sud-est del paese sono privi di accesso all’acqua. Mentre i litri d’acqua per uso personale sono in media 150 al giorno (con punte del doppio nei centri urbani), alcune famiglie rom hanno accesso solo a 10 – 20 litri d’acqua a persona.
    Sul sito di Amnesty International Italia, è online da stamattina un appello indirizzato alla Commissaria europea per la giustizia, i diritti fondamentali e la cittadinanza, Viviane Reding, per chiederle di porre fine alla discriminazione nei confronti dei rom nell’Ue.
    Nei prossimi giorni si svolgeranno numerose iniziative, organizzate sia da Amnesty International che dall’Associazione 21 luglio, in Italia e in Europa.

    La foto che apre questo post è di Fulvia Vitale.

  14. giogg ha detto:

    “Corriere delle Migrazioni”, 25 novembre 2013, QUI

    LADRI DI BAMBINI
    di Sergio Bontempelli

    Quella della “zingara rapitrice” è una falsa leggenda, ormai lo sanno (quasi) tutti. Ma pochi conoscono l’origine di questo mito, che risale all’età moderna e ha una lunga storia letteraria.
    A volte i fatti di cronaca sono molto istruttivi. A volte, non sempre. Il 19 ottobre scorso, a Farsala in Grecia, i poliziotti trovano una bambina bionda in un insediamento rom. E siccome i rom – così pensano gli agenti – non possono essere biondi, la bambina sarà stata senz’altro rubata. Parte la caccia ai “veri” genitori, che vengono rintracciati nel giro di pochi giorni: si tratta di una coppia di rom bulgari, anche loro tutt’altro che biondi. La bambina non è stata rubata, ma ceduta dalla famiglia di origine, che non poteva mantenerla.
    Due giorni dopo, la polizia irlandese ferma una coppia di rom a Dublino e trattiene la loro piccola figlia, anche lei “troppo bionda per essere zingara”. Ma il caso si sgonfia subito: il test del Dna rivela che i due rom sono i genitori “naturali” della piccola.
    Il 3 novembre, Il Messaggero riporta la notizia di una rom bulgara che avrebbe tentato di rapire un neonato a Roma. La presunta rapitrice verrebbe dai dintorni di Napoli, dal «campo nomadi di Striano». Bastano poche ore per capire che si tratta di una bufala: a seguito di una rapida verifica, l’Associazione 21 Luglio scopre che non esiste nessun «campo nomadi di Striano», mentre un articolo del giornale online Giornalettismo ridimensionava l’ipotesi del rapimento. La donna – che probabilmente non era rom – era in evidente stato confusionale, e la sua volontà di “sottrarre” il bambino è tutta da verificare.

    I rom non rubano i bambini…
    Tre episodi di rapimento, rivelatesi tre colossali bufale. Ancora una volta, la storia degli “zingari” che portano via i bambini si rivela per quello che è: una leggenda metropolitana.
    Del resto, che i rom non rubino i neonati lo sanno tutti. O, almeno, tutte le persone serie e minimamente informate. Anche perché sul tema si è accumulata una corposa letteratura: dossier, reportage, rilevazioni statistiche, studi e ricerche sistematiche.
    Ci sono per esempio i dati della Polizia di Stato sui minori scomparsi. In nessun caso si parla di bambini o adolescenti ritrovati presso famiglie rom o in “campi nomadi” (si veda qui, e per dati aggiornati al 2013 qui).
    Poi ci sono inchieste giornalistiche ben fatte, reperibili anche in rete: come quella realizzata nel 2007 da Carmilla Online, dove si dimostrava che i numerosi episodi di presunto rapimento di minori erano delle bufale belle e buone. O come quella, più recente, di Elena Tebano per il Corriere, che arriva alle stesse conclusioni.
    Infine, c’è la ricerca dell’antropologa fiorentina Sabrina Tosi Cambini, che ha analizzato tutti i casi di presunti rapimenti, seguendo sia le notizie diffuse dalla stampa che i verbali dei processi nelle aule di Tribunale. L’esito di questa meticolosa indagine è sempre il solito: nessuna donna rom ha mai rapito nessun bambino.

    Le origini della leggenda: un mito letterario
    Ma allora da dove nasce la bufala dei rom che portano via i bambini? Pochi sanno che si tratta di una storia vecchia di qualche secolo, e che può vantare un’origine “colta”, addirittura letteraria: i primi a parlare di “zingare rapitrici” sono stati infatti i commediografi italiani e spagnoli del Cinque-Seicento. Nell’arco di qualche decennio, la trama delle loro opere è diventata leggenda di senso comune: la finzione, potremmo dire, si è fatta realtà (o, per meglio dire, il racconto è divenuto cronaca e falsa notizia). Ma andiamo con ordine.
    Tutto comincia nel 1544 a Venezia. Il luogo non è casuale, perché proprio in quegli anni la Serenissima avvia una dura politica di espulsioni, bandi e atti repressivi contro gli “zingari”. Mentre la gloriosa Repubblica si industria ad allontanare i rom, i veneziani frequentano il teatro, luogo di svago e di vita mondana: e come in un gioco di specchi, gli “zingari” cacciati dalla città fanno capolino sul palco.
    Nel 1544 viene messa in scena La Zingana, una commedia di un certo Gigio Artemio Giancarli. Qui si racconta di una giovane rom che sottrae dalla culla un bambino, sostituendolo col proprio figlio: per quanto se ne sa, si tratta della prima traccia del mito della “zingara rapitrice”. Il successo della commedia oltrepassa i confini della Repubblica: nel giro di pochi anni un drammaturgo spagnolo, Lope de Rueda, scrive la Medora, che è nient’altro che una traduzione e un adattamento della Zingana di Giancarli. E attraverso Lope de Rueda, la leggenda della “zingara rapitrice” arriva a Cervantes (l’autore del Don Chisciotte), che ne fa l’oggetto di una delle sue “Novelle esemplari”,
    La Gitanilla.

    Da opera letteraria a leggenda metropolitana
    Insomma, la storia della “zingara rapitrice” nasce come trama di commedie, novelle e opere teatrali. Poi, nel giro di pochi decenni, oltrepassa l’ambito letterario: a Milano, agli inizi del Seicento, Federico Borromeo accusa i “cingari” di rapire i bambini cristiani, mentre in Spagna Juan de Quiñones, nel 1631, formula un’accusa simile in un virulento pamphlet che invoca l’espulsione dei “gitani”. I giochi sono fatti: la trama romanzesca si è trasformata in accusa reale, leggenda metropolitana e falsa notizia.
    A cosa si deve questa metamorfosi? Sul punto, le ricerche storiche sono ancora agli inizi, e risposte sicure non esistono. Si possono però formulare alcune ipotesi. E, come punto di partenza, occorre ricordare che i rom non erano gli unici destinatari di questa infamante accusa: altri gruppi sociali, altre minoranze erano sospettate – negli stessi anni – di “rubare i bambini”.
    C’erano per esempio gli ebrei, già allora discriminati e vittime di persecuzioni (perché l’antisemitismo, è bene ricordarlo, non nasce nel Novecento). Dei “giudei” si diceva sin dal medioevo che rapivano i piccoli cristiani per cibarsi del loro sangue a scopo rituale. Ovviamente non era vero, ma intere comunità ebraiche furono vittime di aggressioni, stragi, processi o condanne a morte.
    Poi c’erano i vagabondi e i mendicanti, accusati spesso di rapire i bambini per portarli a chiedere l’elemosina. Piero Camporesi, storico e antropologo, racconta ad esempio la vicenda del «ritrovamento fortunoso da parte di una madre della figlia, rapitale due anni prima, mentre chiedeva l’elemosina in compagnia del suo rapitore davanti alle porte del santuario di Assisi; non solo rapita, ma resa ad arte macilenta e ulcerata sulle spalle per impietosire i fedeli».
    Infine, il fenomeno dei rapimenti era diffuso nella pirateria barbaresca: corsari, avventurieri e pirati musulmani solcavano il Mediterraneo, e per guadagnare qualche soldo rapivano uomini, donne e bambini, chiedendo poi un riscatto per la loro liberazione.

    Zingari, ebrei, mori, vagabondi
    Ebrei, “mori” e vagabondi erano insomma protagonisti di episodi – veri, o più spesso presunti – di sottrazione di minori. Naturalmente, per capire quanto queste figure abbiano influito sull’immagine dei rom occorrerebbe compiere ricerche specifiche. Ma alcuni indizi ci segnalano che, nell’immaginario della prima età moderna, questi gruppi erano spesso confusi, o almeno accostati per similitudine.
    La “zingana” della commedia del Giancarli, per esempio, parla un dialetto arabo: all’epoca si pensava che i rom fossero “egiziani”, cioè arabi, mentre la teoria dell’origine indiana si diffuse solo qualche secolo dopo. Lutero, dal canto suo, affermava che il “gergo” dei mendicanti (una specie di lingua segreta diffusa nei “bassifondi” della società) aveva origini ebraiche. Dei vagabondi si diceva che erano discendenti di Caino – e per questo condannati a vagare – mentre per gli “zingari” si ipotizzava una provenienza dalla figura biblica di Cam: ma nei testi dell’epoca Cam e Caino erano spesso confusi, e i rom erano trattati come semplici vagabondi.
    Insomma, è come se il mito della “zingara rapitrice” fosse nato per una sorta di “osmosi” con analoghe leggende già diffuse a proposito di altri gruppi. Per dirla in altri termini, è come se lo stereotipo degli “zingari” avesse condensato, e mescolato, le caratteristiche proprie dei “marginali”: erranti come gli ebrei e i vagabondi, estranei e nemici come i “mori” musulmani.

    Quando gli zingari eravamo noi
    Nato in età moderna, il mito dei rom rapitori di bambini ha dimostrato una sorprendente longevità: ha attraversato i secoli, arrivando pressoché intatto fino ai nostri giorni. I titoli allarmistici dei giornali delle ultime settimane, i resoconti dei fatti di Farsala e di Dublino, sembrano riecheggiare le inquietudini dei commediografi veneziani del Cinquecento.
    È difficile comprendere le ragioni di questa “longevità”. Certo è che il tema del “rapimento di bambini” è assai diffuso nel tempo e nello spazio: molti gruppi minoritari, molte comunità marginali e discriminate hanno prima o poi dovuto difendersi da questa infamante accusa, o da altre simili.
    È capitato anche ai migranti italiani, nei decenni centrali dell’Ottocento. Dai villaggi rurali del Sud e dalle regioni appenniniche del centro-nord, intere famiglie contadine praticavano all’epoca forme di mobilità stagionale, legate ai mestieri girovaghi di musicante e suonatore. Nel XIX secolo, l’arpa dei “viggianesi” (Viggiano è un paese della Basilicata) e l’organetto dei liguri avevano risuonato nelle strade delle città europee, richiamando l’attenzione dei passanti su queste strane figure di musicisti straccioni.
    I bambini che suonavano l’organetto in mezzo alla strada, si diceva, erano stati “venduti” dalle famiglie di origine a trafficanti senza scrupoli. Non erano proprio bambini rapiti, ma quasi: perché i loro genitori, poverissimi, erano spesso costretti a venderli per racimolare qualche soldo. «Il costume di mendicare di città in città col mezzo di fanciulli», scriveva la Società Italiana di Beneficenza di Parigi nel 1868, «ha dato origine ad un traffico che si pratica sotto gli occhi e colla tolleranza delle autorità»: una frase che riecheggia i peggiori stereotipi sugli “zingari”.
    Traffico di bambini, mendicità aggressiva, offesa al decoro, furti e criminalità di strada furono i principali capi d’accusa contestati agli emigranti. E, come i rom di oggi, gli italiani di ieri subirono processi, espulsioni, condanne. Subirono, soprattutto, una degradazione della loro immagine pubblica: chi incontrava un italiano metteva mano al portafogli, per paura di subire dei furti. E nascondeva il proprio bambino
    .

  15. giogg ha detto:

    Claudia Torrisi spiega “Perché gli italiani odiano così tanto i Rom” (“Vice”, 21 maggio 2014): “L’intolleranza diffusa è stata spesso cavalcata dai partiti politici, che hanno usato i rom come merce di scambio per vincere le elezioni“.

    PERCHÉ GLI ITALIANI ODIANO COSÌ TANTO I ROM
    di Claudia Torrisi (“Vice”, 21 maggio 2014)

    Nella notte tra lunedì e martedì due molotov sono state lanciate in un accampamento rom di Trento, probabilmente da un’auto in corsa sulla vicina tangenziale. Le due bottiglie incendiarie sono finite, per fortuna senza grosse conseguenze, sotto una delle venti roulotte presenti.
    Su rom e abitazioni si era espresso una decina di giorni fa Daniele Ozzimo, assessore alle Politiche abitative del Comune di Roma, dichiarando di voler disapplicare la circolare della precedente giunta Alemanno che impediva l’accesso ai cittadini rom alle case popolari della Capitale. Una decisione a lungo richiesta da Amnesty International, anche con una lettera indirizzata al sindaco Ignazio Marino. Eppure, storicamente, come mi spiegava recentemente con molta sicurezza un 50enne romano in metro, “gli zingari non la vogliono una casa, stanno fuori e rubano. Anzi, se gli dai una casa è più facile che le guardie li trovano, per questo si spostano.” Il fine ragionamento storico portava a una conclusione: gli zingari stanno nei campi, però dai campi se ne devono andare.
    Quello dei rom è in Italia uno di quei temi su cui chiunque si sente in dovere di dire la propria. Tutti hanno visto uno zingaro rubare qualcosa, molestare qualcuno, introdursi in una casa. La maggior parte della gente ha anche una cugina che ha un amico che ha visto una zingara nascondere sotto la gonna un bambino sottratto alla madre al supermercato.
    Risale allo scorso ottobre la storia di Maria, la bambina di 4 anni dagli occhi e capelli chiari, sottratta dalla Polizia a due rom greci durante un’operazione nel campo di Fasala, ad Atene, perché “l’aspetto non combaciava” con quello dei presunti genitori. La coppia è stata arrestata poco dopo per rapimento di minore e in Europa si è scatenata un’isteria collettiva sul traffico di bambini da parte degli “zingari” che ha avuto ottimi riscontri in Italia. Salvo poi, qualche giorno dopo, scoprire che i veri genitori, due rom bulgari, l’avevano lasciata di proposito alla coppia greca perché incapaci di mantenere la bambina. La vicenda ha reso evidente quanto in Italia la psicosi del rom cattivo abbia raggiunto livelli preoccupanti. Appena nel marzo scorso, sulla vetrina di un negozio di Roma è apparso il cartello “È severamente vietato l’ingresso agli Zingari,” rimosso poi dall’esercente solo grazie all’intervento di alcuni attivisti.
    L’intolleranza diffusa è stata spesso cavalcata dai partiti politici, che hanno usato i rom come merce di scambio per vincere le elezioni. La maggior parte delle volte è stata “l’emergenza sicurezza” a essere tirata in ballo, talvolta per giustificare sgomberi da parte delle amministrazioni, di frequente sull’onda di fatti cronaca. Altre volte, invece, ad aver fortuna è stato il sempreverde “prima gli italiani poveri” (o comunque “prima gli italiani” e basta). L’assioma seguito è rubano-vivono nel degrado-non vanno tutelati. Su questa scia si è arrivati a sostenere, addirittura, che il fatto di essere una minoranza etnica garantirebbe ai rom “numerosi privilegi” a scapito degli italiani.
    L’isteria zingari si è trasformata spesso in episodi di violenza inaudita. Lo scorso ottobre a Napoli, una bambino rom di due anni è stato colpito da una pioggia d’acido proveniente da un balcone mentre camminava per strada con la madre. Qualche mese dopo, sempre a Napoli, il campo di Poggioreale è stato dato alle fiamme durante la notte. La sera del 25 aprile scorso, invece, a Latina, quattro minorenni rom sono stati presi a schiaffi e calci da una ronda di 15 persone composta da cittadini e forze dell’ordine.
    L’intolleranza, oltre a essere sbandierata e ubriacata durante cortei cittadini—con slogan come “ripuliamo le nostre città”—trova sfogo anche in gruppi su web e social network, dove si ritrovano soggetti con la capacità di credere alla notizia che dal primo aprile i rom avrebbero potuto viaggiare gratis sui mezzi pubblici. L’articolo, pubblicato dal sito Notiziepericolose (poi rimosso), è stato ripreso da tanti pseudo siti d’informazione e condiviso da migliaia di indignati profili facebook. E non è l’unica bufala virale nei confronti della popolazione rom. C’è stata la sollevazione per i presunti trentamila euro a famiglia regalati da Pisapia mentre “le famiglie italiane dormono in macchina”, o l’indignazione verso questo popolo che butta il cibo gentilmente donato dal governo.
    Non è stata accettata di buon grado neanche la notizia che a Torino il sindaco Fassino avrebbe concesso ai rom “case di lusso, mentre i cittadini sono in fila a pagare la mini-imu.” Infine, il grande classico della foto su facebook di una donna rom con in braccio un bambino con i capelli biondi. Richiesta massima condivisione: “vi prego di far girare questo foto (scattata il 21/12/2013) Roma stazione Tiburtina, questo bambino adesso in braccio ad una zingara piangeva tanto. Avrà un anno e mezzo, massimo 2. Biondo riccio, gli occhi sembrano chiari, non sembrava figlio suo. CONDIVIDETE MAGARI QUALCUNO LO CONOSCE!!!”. La psicosi collettiva non si è fermata neanche davanti a cose come la depenalizzazione dei furti dei rom sotto i 200 euro per rispetto alla loro cultura (di ladri). Anche qui il sito originario (Giornaledelcorriere) ha rimosso la notizia. Non prima però di averla resa virale, arrivando fino ai forum del blog di Beppe Grillo. Un barlume di lucidità si è palesato solo davanti all’annuncio per cui da settembre 2014 i rom potranno volare, anche se uno dei commenti alla notizia più diffusi è stato “Anche se è una bufala loro hanno più diritti di noi!!!”.
    Questa storia che i rom sarebbero ‘agevolati’ rispetto ai poveri italiani è parecchio diffusa tra i nostri professionisti dell’indignazione. In realtà, come mi spiega Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio, “queste persone sulla carta hanno i diritti che hanno tutti i cittadini. Tra l’altro, ‘rom’ non è uno status giuridico. Secondo una stima, in Italia circa la metà dei rom sono italiani. La loro è un’identità culturale.” Identità che non comprende affatto rubare (o non più di quanto fanno gli italiani), tanto meno sottrarre i bambini.
    La leggenda sul “furto di minori”, tra l’altro, è stata completamente smentita da una ricerca dell’università di Verona del 2008 che ha accertato che dal 1985 al 2007 in Italia non esiste nessun caso di condanna per sequestro o sottrazione di persona per presunto rapimento di bambini da parte di rom. “Il problema,” dice Stasolla, “è che queste persone, sin dal loro arrivo in Italia nel 1400, hanno assunto il ruolo di capri espiatori. La funzione sociale dei rom è la stessa di un cestino della spazzatura in una casa: raccogliere il marcio. E oramai anche per amministratori e media è più comodo che sia così.”
    Così come, probabilmente, è comodo far girare l’idea che “gli zingari non vogliono una casa”, verità tutta italiana e ben radicata ma completamente falsa. “Ci sono 800 mila rom in Spagna e due milioni in Romania che vivono in una casa, forse bisognerebbe chiedere a loro se preferiscono stare in una baracca. I rom vogliono una casa, come tutti i cittadini. In Italia, poi, su 180 mila rom presenti sul territorio, solo 40 mila vivono nei campi,” mi spiega Stasolla, che è convinto che l’unico modo per sfatare questi falsi miti che alimentano l’intolleranza e abbattere il pregiudizio sia la conoscenza. “La ragione di tutto sta nell’ignoranza. Pur vivendo da noi da centinaia di anni, ancora non conosciamo queste persone”.
    Il problema, però, è anche politico. John Dalhuisen, direttore del Programma Europa e Asia Centrale di Amnesty International, sostiene che “troppo spesso i leader europei si mostrano compiacenti verso i pregiudizi che alimentano la violenza contro i rom. Se da un lato, in generale, condannano i più gravi episodi di violenza, dall’altro le autorità sono riluttanti a riconoscerne l’effettiva dimensione e sono lenti a contrastarla.”
    Secondo il Rapporto dell’Associazione 21 luglio, il problema del nostro Paese è che “non ha adottato una legge a livello nazionale che mettesse in opera una strategia sulla cosiddetta ‘questione rom’, preferendo piuttosto limitarsi a gestire volta per volta le sole questioni di ordine pubblico.” In realtà, una sorta di indicazione nazionale c’è stata ed è la cosiddetta ‘emergenza nomadi’, proclamata nel 2008 dal governo Berlusconi per affrontare “una situazione di grave allarme sociale con possibili ripercussioni in termini di ordine pubblico e di sicurezza per la popolazione locale.” Il decreto è stato dichiarato illegittimo dal Consiglio di Stato nel 2011, non prima di aver consentito agli amministratori locali numerose deroghe ai diritti umani: campi-ghetto e una pioggia di sgomberi forzati. Così è successo con i ‘piani nomadi’ di Roma e Milano, delle giunte Alemanno e Moratti, e nelle altre regioni interessate dall’emergenza (Campania, Piemonte e Veneto). Nel resto d’Italia si è fronteggiato di volta in volta la situazione, ma il comune denominatore delle politiche è sempre stato uno: dover gestire una minaccia per la pubblica sicurezza.
    “Quello dei rom è l’unico caso in Italia in cui un’intera comunità è costretta a prendere la responsabilità di singole persone,” mi dice Riccardo Noury, portavoce per l’Italia di Amnesty International. “Il problema, poi, è che non si riesce a uscire dalla mentalità dei campi, una logica che dice di seguire le presunte esigenze di ‘nomadismo’ e invece ghettizza lontano dai centri. Se guardi la mappa dei campi di una città sembra l’oblò di una lavatrice.”
    Noury mi spiega che questa storia dei rom relegati nelle baracche ai margini è una prerogativa del nostro Paese. “L’Italia in Europa da questo punto di vista è il ‘paese dei campi’. Questo perché da noi, salvo rare eccezioni, non esiste un’alternativa. Nell’Europa orientale non è difficile trovare rom che stanno in delle case. Magari in quartieri monoetnici e poveri, ma non in delle baracche. C’è però da dire che lo stigma verso il popolo rom è comune in tutta Europa.”
    Non solo, però, siamo il ‘paese dei campi’, ma anche quello degli sgomberi, fatti per lo più ‘per la sicurezza comune’. Un paradigma largamente utilizzato in Italia sia a destra che a sinistra. “Questo perché la politica ha ufficializzato questo luogo comune: meno rom, più sicurezza”, mi spiega Noury. “Ed è un pensiero radicato da entrambe le parti […] E questa trasversalità politica dell’intolleranza trova riscontri in altri paesi europei: in Francia c’è stato un ministro dell’Interno socialista che sull’espulsione dei rom ha basato tutta la campagna elettorale. Sto parlando di Valls, che oggi è primo ministro.”
    Il luogo comune ‘meno rom, più sicurezza’ di cui parla Noury è stato negli anni il paravento per consentire innumerevoli sgomberi che Amnesty ha classificato come illegali: nessuna notifica preventiva, nessuna consultazione con la popolazione che vive nel campo, nessuna possibilità di fare ricorso e nessuna previsione di un alloggio alternativo. “Ecco, uno dei diritti umani che un rom vede violato più spesso è il diritto a un alloggio adeguato. Senza contare che uno sgombero porta con sé conseguenze devastanti sulle persone per quanto riguarda la salute, l’igiene, il diritto all’istruzione,” dice Noury. Diritti rivendicati ogni giorno nei confronti di tutte le categorie sociali. Dove va a finire l’indignazione appena si entra in argomento rom? Si scontra con l’unica forma di apartheid socialmente accettata in Italia. E c’è un atteggiamento che riguarda tutti, dalla politica ai media, dai giovani agli anziani, alle persone istruite o meno. E se ve lo stavate chiedendo, sì, siamo davvero così ignoranti
    .

  16. giogg ha detto:

    “Libernazione”, 30 settembre 2014, QUI

    QUANTO CI COSTA DISCRIMINARE I ROM
    di Alessandro Capriccioli

    Oggi, se non vi dispiace, vorrei dedicarmi per qualche riga all’aritmetica.
    Allora, Riccardo Magi ci spiega che attualmente a Roma ci sono circa ottomila rom, corrispondenti grosso modo a mille famiglie.
    Queste ottomila persone sono distribuite in 7 “villaggi attrezzati” (4.200 persone), 8 “campi tollerati” (1.300 persone), 3 “centri di raccolta” (700 persone) e circa 100 “insediamenti informali” (le restanti 1.800 persone).
    Ebbene, dovete sapere (e qua potete verificarlo) che nel solo 2013 i villaggi attrezzati (altrimenti detti “villaggi della solidarietà”) sono costati ai cittadini circa 16 milioni di euro, i centri di raccolta altri 6,5 milioni e le azioni di sgombero dai campi tollerati e dagli insediamenti informali un altro milione e mezzo.
    Fanno, se l’aritmetica non è un’opinione, 24 milioni di euro tondi tondi. Ripeto: soltanto nel 2013.
    Ebbene, 24 milioni diviso mille fa circa 24mila. Il che significa che una politica consistente nel segregare tutte le famiglie rom in condizioni igieniche vergognose e in spazi inadeguati, o sgomberarle dai posti in cui si trovavano per portarle altrove, non è per niente gratis: anzi, è costata ai cittadini romani circa 24mila euro per famiglia.
    Con 24mila euro l’anno, tanto per fare il primo esempio che verrebbe in mente a chiunque, si potrebbe pagare l’affitto di una signora casa: una casa probabilmente idonea ad accogliere una famiglia numerosa (otto persone in media), specie in una zona periferica.
    A questo punto la domanda è la seguente: per quali oscure ragioni si preferisce spendere i soldi dei cittadini in questo modo, anziché dar corso a una politica dell’inclusione seria? Voglio dire: perché buttare dalla finestra tutti questi soldi per mantenere i rom in condizioni letteralmente disumane (cosa che, ne converrete, non incentiva certo il percorso verso la cosiddetta “integrazione” e la conseguente “normalizzazione del fenomeno”) anziché impiegarli in modo non soltanto più “umano”, ma soprattutto più efficace e razionale?
    La risposta è semplicissima: perché la situazione attuale conviene a tutti.
    Conviene a chi si aggiudica gli appalti milionari per la gestione dei servizi nei campi e conviene a chi, stante la situazione di perenne “emergenza”, può allegramente continuare a buttare benzina sul fuoco della “sicurezza”, tenendosi così ben stretto il suo patrimonio elettorale.
    Ecco, nel mezzo ci sono i rom.
    I rom dileggiati, insultati e maledetti, metà dei quali sono perfino cittadini italiani, che semplicemente con la loro esistenza (e con la vita di merda che sono costretti a fare) arricchiscono di denaro e di consenso la destra, il centro e la sinistra.
    I rom contro i quali ci si scaglia con rabbia, astio e violenza, quelli che “non vogliono integrarsi” e che “le case prima agli italiani”; mentre la verità è che integrare i rom non conviene a nessuno, e i soldi di questa fantomatica casa che bisognerebbe dare prima agli altri li stiamo già spendendo, impunemente, anno dopo anno: roba che a quest’ora avremmo potuto dargli dei palazzi, a loro e a tutti gli altri.
    Ecco, questa è l’aritmetica: questi, come si dice, sono i numeri.
    Il resto sono chiacchiere, per quanto drammatiche.
    E come tutte le chiacchiere il vento se le porta
    .

    – – –

    Dopo un (presunto) tentativo di rapimento di un paio di bambini nel torinese, ecco la reazione della gente contro i rom:

    “La Stampa”, 30 settembre 2014, QUI

    “SUL WEB C’ERA GIA’ CHI VOLEVA VENIRE A BRUCIARCI IL CAMPO”
    L’associazione Idea Rom: oggi certe bugie sono più pericolose che in passato
    di Maria Teresa Martinengo

    «Poteva trasformarsi in un’altra Continassa: altri raid, altre spedizioni punitive, altre baracche in fiamme. Per quelle falsità irresponsabili delle persone avrebbero potuto rimetterci la vita». Lo dice d’un fiato Vesna Vuletic, presidente di Idea Rom, l’associazione che nel processo per il rogo della Continassa si è costituita parte civile. Allora la bugia era stata pronunciata da una sedicenne: aveva accusato un rom di averla violentata.
    Idea Rom è composta principalmente da donne, è nata per combattere il pregiudizio e creare condizioni migliori per le famiglie rom, a partire dalle donne e dai bambini. Integrazione attraverso scuola e lavoro. Ma se da una parte qualche faticoso passo in avanti si fa, dall’altra la crisi riporta indietro, alimenta l’idea del nemico. «Certe affermazioni – spiega Vesna Vuletic – oggi fanno più paura che in passato. Basta andare su Facebook, su certi siti, guardare i commenti alle notizie che riguardano i rom: fanno rabbrividire. Dicono di bruciarci, di usare il napalm, cose irripetibili, spaventose. I rom sono accusati di qualsiasi cosa». Anche dei rapimenti di bambini. «Una leggenda che continua ad essere tramandata, specie in Meridione, con la quale si spaventano i bambini. E si perpetua il pregiudizio».

    Rapimenti «leggendari»
    Ben prima che ieri sera venisse a galla la verità, nelle associazioni che di rom slavi e romeni si occupano, la storia del rapimento veniva considerata assolutamente incredibile. E sia all’Aizo, Associazione Italiana Zingari Oggi, sia ad Idea Rom, veniva citata la ricerca che qualche anno fa la Fondazione Migrantes aveva affidato al Dipartimento di Psicologia e Antropologia culturale dell’Università di Verona poi pubblicata nel volume «La zingara rapitrice»: le informazioni e i dati raccolti permettono di stabilire con esattezza che fra il 1985 e il 2007 non vi è stato alcun caso accertato di rapimento di minori imputabile a persone appartenenti a un gruppo rom o sinto, e anche di evidenziare come non vi sia stato alcun tentativo di rapimento riconducibile a questi gruppi.

    Analisi del Dna
    «Con questo pregiudizio nell’aria, basta che in un mercato una donna rom sfiori un bambino perché la gente la accusi. E non c’è famiglia nei campi che non abbia subito il rischio di essere invischiata suo malgrado in qualche storia del genere», dice Vesna Vuletic. «A quasi tutti i rom che sono qui da vecchia data in qualche momento è stata fatta l’analisi del Dna per stabilire se effettivamente i loro figli fossero loro. I controlli nei campi, in generale, hanno sempre avuto un livello molto alto…».

    I controlli
    E infatti le accuse di Alex Giarrizzo, il padre del bambino al centro della inesistente vicenda del rapimento, hanno immediatamente prodotto, ieri mattina, controlli a tappeto nel campo più vicino a Borgaro, quello di strada dell’Aeroporto. «Noi eravamo al campo come tutte le mattine alle otto, i controlli sono arrivati verso le 11: carabinieri, polizia e vigili hanno frugato ovunque, anche nei bagni», racconta Carla Osella, presidente dell’Associazione italiana zingari oggi che da anni lavora al campo (autorizzato dal Comune) occupandosi dell’accompagnamento a scuola dei bambini, del sostegno alle famiglie, di supporto sociale e sanitario. «La gente ha pensato che le forze dell’ordine fossero andate a fare uno sgombero, come è successo in via Germagnano. Poi, con il programma di smantellamento di lungo Stura, ci sono anche controlli per evitare che le famiglie si spostino da una parte all’altra. Nessuno, ieri, aveva idea di cosa fosse successo a Borgaro. Al campo si parlava solo di un rom ucciso a Roma perché parecchi erano andati al funerale».
    Osella, reduce dal congresso Aizo su diritti, lavoro e istruzione: «A nome di chi vive in strada Aeroporto, per quanto parecchi finiscano in carcere per furti, dico che sentirsi accusare di rapire i bambini fa veramente male. È tirare una pietra sempre nello stesso posto. Per fortuna questa volta tutto si è chiarito in fretta»
    .

    – – –

    Ma a Roma c’è anche chi si pone l’obiettivo di “Superare i campi nomadi“:

    “il manifesto”, 30 settembre 2014, QUI

    È IL MOMENTO DI SUPERARE I «CAMPI NOMADI»
    Emergenza Rom(a). Bisogna imparare da come si affrontano nelle grandi città i problemi abitativi dei baraccati, degli indigenti, al di là della loro etnia, con soluzioni come l’housing sociale e la fine della discriminazione nell’accesso alle case popolari per i cittadini italiani di etnia rom. E accedendo ai fondi europei per progetti mirati all’inclusione, cosa che al momento la Capitale non fa
    di Riccardo Magi

    8000 cit­ta­dini, 1000 fami­glie, lo 0,23% della popo­la­zione della Capi­tale che vive oggi in 7 «vil­laggi attrez­zati» (4.200 pre­senze) 8 «campi tol­le­rati» (1.300 pre­senze), 3 «cen­tri di rac­colta» (680 pre­senze), 100 «inse­dia­menti infor­mali» (1.800 pre­senze). Que­sti sono i numeri della “que­stione rom” a Roma.
    Sem­pre più spesso la poli­tica defi­ni­sce «emer­genze» quel che non rie­sce a gover­nare. L’«emergenza nomadi» ha con­sen­tito negli anni scorsi di avere più fondi, di adot­tare atti in deroga alle leggi, di creare allarme sociale e uti­liz­zarlo in chiave elet­to­rale. Una que­stione che sconta scelte emer­gen­ziali risa­lenti a ini­zio anni ’90 e che di recente ha tro­vato l’accelerazione verso il bara­tro con il mini­stro Maroni e il sin­daco Alemanno.
    Oggi che que­sta poli­tica adot­tata da ammi­ni­stra­zioni di cen­tro­si­ni­stra e di cen­tro­de­stra è stata dichia­rata ille­git­tima dai tri­bu­nali, l’Italia ha adot­tato la Stra­te­gia nazio­nale di inclu­sione, rece­pendo le linee guida della Com­mis­sione euro­pea, che indi­cano chia­ra­mente l’obiettivo del supe­ra­mento dei campi rom.
    È ora che l’Amministrazione adotti una stra­te­gia nuova. Sarà dolo­rosa per l’indotto (elet­to­rale ed eco­no­mico) ma gra­zie alle espe­rienze in altre città ita­liane ed euro­pee sap­piamo che è pos­si­bile. Basta volerlo.
    Attual­mente non c’è un piano per i «campi for­mali» né per i «campi infor­mali». C’è il man­te­ni­mento e la gestione dei «vil­laggi attrez­zati» creati in pas­sato e dei cen­tri di acco­glienza, dive­nuti luo­ghi di resi­denza di fatto, come quello di Via Visso, dove il comune spende milioni per tenere 300 per­sone in cin­que stanze senza fine­stre. Ci sono poi gli inter­venti di sgom­bero che, sle­gati da ogni misura di inclu­sione, hanno effetti con­tro­pro­du­centi sotto ogni punto di vista.
    Per­mane di fatto un sistema di campi — per durata e indotto — unico in Europa. Nono­stante riguardi 1200 fami­glie, non 5mila o 10mila! Tutto ciò solo a Roma com­porta un impiego di risorse pub­bli­che pari a 25 milioni di euro (solo nel 2013) con risul­tati disa­strosi di inclu­sione sociale, lavo­ra­tiva, abitativa.
    L’obiettivo della nuova stra­te­gia dovrà essere chiaro sin dall’inizio: la con­ver­sione delle risorse impie­gate per la gestione dei campi, e dei ser­vizi annessi, in per­corsi con­creti di carat­tere abi­ta­tivo e lavo­ra­tivo per il supe­ra­mento e chiu­sura dei “campi nomadi”. È ora di affron­tare que­sto pro­blema come si affron­tano nelle grandi città i pro­blemi abi­ta­tivi dei barac­cati, degli indi­genti, al di là della loro etnia, con solu­zioni come l’housing sociale e la fine della discri­mi­na­zione nell’accesso alle case popo­lari per i cit­ta­dini ita­liani di etnia rom che ora vivono nei campi . E acce­dendo ai fondi euro­pei per pro­getti mirati all’inclusione, cosa che al momento la Capi­tale non fa. Il suc­cesso di que­sta stra­te­gia si tra­durrà nell’impiego di risorse sem­pre meno one­rose desti­nate alla «gestione dei rom».
    Il con­tri­buto che il con­ve­gno «Supe­rare i “campi” per soli Rom a Roma: una sfida vicina», orga­niz­zato dall’Associazione 21 luglio per mer­co­ledì 1 otto­bre presso la sala Rosi dell’Assessorato alle Poli­ti­che Sociali di Roma Capi­tale (viale Man­zoni 16) va pro­prio in que­sta dire­zione
    .

    * Con­si­gliere comu­nale radi­cale a Roma

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